a proposito della defenestrazione di E. Bianchi dalla comunità di Bose

dietro il “mistero” di Bose

di Alberto Melloni
in “la Repubblica” del 28 maggio 2020

Per la chiesa italiana e per l’ecumenismo quella uscita la sera del 26 maggio non è una notizia: è una bomba – contenuta in un atto che ordina a Enzo Bianchi, di “separarsi” dal monastero di Bose di cui è fondatore. Il decreto è ad oggi ignoto, così come gli atti della visita apostolica da cui discende, le denunce che l’hanno preceduta. Si conosce solo un comunicato apparso sul sito di Bose (ma scritto in vaticanese) che dice poco e pone domande inquietanti. Ne cito quattro.

I) Nella prassi della Santa Sede si caccia da una casa religiosa chi si è macchiato di delitti turpi sostenuti da accuse e prove che oggi nessuno può o vuole più coprire.  Enzo Bianchi viene invece punito con l’esilio da Bose senza alcuna accusa infamante. Gli si imputa invece di aver esercitato “l’autorità del fondatore” in modo nocivo al “clima fraterno”: un “reato di caratteraccio” – definizione di un cardinale romano – che viene punito con una pena capitale e l’ordine di trasferirsi entro il 1° giugno a Praglia o a Bardolino o a Chevetogne. Ammesso che il clima fraterno fosse il punto, era col parricidio che Roma pensava di alleviare le tensioni a Bose?

II) Il provvedimento notificato all’ex priore è contenuto in un “decreto singolare” firmato dal cardinale Parolin il 13 maggio e approvato personalmente dal Papa “in forma specifica”: dunque un atto amministrativo mediante il quale vengono presi provvedimenti che “per loro natura non suppongono una petizione fatta da qualcuno” (can. 48). Eppure lo stesso comunicato del monastero allude a “serie preoccupazioni pervenute da più parti alla Santa Sede” relative a una “situazione tesa e problematica” a Bose. È dunque stato un pezzo di quella che un saggio vescovo italiano chiama la “faida vaticana contro Francesco” aver saputo usare la litigiosità monastica, la Segreteria di Stato e il Papa stesso per togliere di mezzo – come fu per l’allontanamento di don Dario Viganò dalla congregazione delle comunicazioni o del comandante Domenico Giani dalla Gendarmeria – persone vicine al pontefice?

III) La “visita apostolica” compiuta a Bose nell’inverno era ovvio che avrebbe portato a galla problemi e incertezze. Ma chi l’ha invocata o permessa ha capito che sarebbe stata usata per risucchiare Bose nella ordinarietà degli ordini e castrarne l’identità ecumenica? E si è chiesto quando padre Cencini, uno dei tre visitatori, è tornato a Bose per portare la sentenza è venuto come “delegato Pontificio ad nutum Sanctae Sedis, con pieni poteri” e dunque con la forza del successore di Pietro, laddove bastava il vescovo di Biella?

IV) Del provvedimento contro Enzo Bianchi nessuno ha prevenuto l’episcopato italiano e nessuno si è sentito in dovere di informare né il patriarca ecumenico né il patriarca di Mosca né le chiese con cui Bose aveva legami fraterni: ai primi questo dice che “nessuno è al sicuro”, come racconta qualche vescovo, e ai secondi si è offerta la versione più manesca del primato papale. C’è qualcuno che ha dimenticato di dire al Papa che Bose fa parte della storia di tutta della chiesa italiana ed è stato l’unico antidoto allo spiritualismo svenevole dell’ecumenismo italiano, si ami o detesti il profilo pubblico del suo ex priore? Questa tragedia, che fa stappare champagne agli integristi, va dunque catalogata insieme alle operazioni ecclesiastiche più sofisticate e tragiche del Novecento: perché con un solo spiedo ( agnosco stylum romanae curiae) infilza l’anomalia di Bose, il priore, l’ex priore, il mancato priore, l’ecumenismo, la terza loggia vaticana, i vescovi italiani, un lembo della tonaca del Papa e – per finire con una tocco di crudeltà – propone a Enzo Bianchi di andare in esilio nel monastero di Chevetogne, da cui il fondatore dom Lambert Beauduin, venne esiliato dal 1931 al 1951… Qualunque cosa accada di questa vicenda dolorosa bisogna dire che se qualcuno l’ha pensata, l’ha pensata bene. E se non l’ha pensata vien da chiedersi come diavolo ha fatto a riuscirci.




preoccupante analfabetismo religioso in Italia

 

Un italiano su 4 (il 26,4%) è convinto che la Bibbia sia stata scritta da Mosè, mentre il 20,4% ritiene che l’autore sia stato Gesù. Il 51,2% non sa chi ha dettato i dieci comandamenti, mentre solo il 14,3% conosce il sesto (“Non commettere atti impuri”). Un’ignoranza specifica che si intreccia con un’ignoranza molto più ampia, quella che porta a non conoscere la religione di Primo Levi (nel 39% dei casi) o a non aver mai sentito parlare di Martin Lutero (si va dal 49,5% del nord-est al 66, 3% del sud Italia). Eppure, soltanto il 15% degli italiani si dichiara ateo o non credente, mentre il 55% è interessato all’insegnamento di altre religioni e il 63,2 dice di essere favorevole all’apertura di moschee o altri luogo di culto.
Dov’è finito dunque quel 79% di cattolici che dovrebbe conoscere l’abc del proprio credo? In quella sorta di limbo che monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha definito nel corso della presentazione “fede light”, cioè un “frutto amaro ma evidente di un sentimento religioso che poggia su tracce cristiane infantilistiche, anche nel linguaggio e nelle immagini

Salvo Coco




i vescovi italiani chiamati da papa Francesco ad assumersi le loro responsabilità pastorali

 il tempo del Sinodo

di Alberto Melloni

Il caso 
Il tempo del Sinodo 
di Alberto Melloni
Pubblicato su “La Repubblica”
il 23 settembre 2019
dopo l’ età ‘ruiniana’ di deresponsabilizzazione dei vescovi, il convegno di Firenze del 2015 aveva aperto un cammino – interrotto però di nuovo: papa Francesco chiama i vescovi italiani ad assumersi le loro responsabilità pastorali
Il «probabile Sinodo della Chiesa italiana» – definito così dal Papa – è a uno snodo decisivo.
Il Consiglio di presidenza della Cei che si riunisce oggi dovrà decidere se avviare almeno un pensiero su questo tema e farlo «sparire» (cito il Papa), come ha fatto col discorso bergogliano del 2015 a Firenze: «Entrato nell’ alambicco delle distillazioni intellettuali» e «finito senza forza, come un ricordo».
Da maggio la Cei sa che non potrà rimettersi ai voleri del Papa.
Quando Francesco ha capito che i vescovi, per ossequio e malavoglia, lo potevano seguire ha reagito con una bacchettata severissima. Con un gelido comunicato il Papa ha fatto intendere che se si trattava di fare un Sinodo per conformismo, lui – primate d’ Italia – preferiva “frenare”.
E da una settimana sanno che il tema non è cancellato dalla loro agenda.
Giovedì scorso La Civiltà Cattolica (le cui bozze si leggono in Segreteria di Stato) è tornata sul Sinodo con un saggio di padre Bartolomeo Sorge.
L’ anziano gesuita ha evocato il primo convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e promozione umana”, che nel 1976 fu molto partecipato e vivo: però, proprio perché fatto al posto di un Sinodo, risultò incapace di impedire una lacerante politicizzazione della fede; e ha scritto che, dopo l’ età ruiniana di deresponsabilizzazione dei vescovi, il convegno di Firenze del 2015 aveva aperto un cammino – interrotto però di nuovo.
Cammino – chioso io – che se non diventerà sinodale, non saprà resistere alla divisione della Chiesa che è l’ obiettivo delle destre palesi e occulte; con ricadute che non riguardano il “voto cattolico”, ma la democrazia.
Non si tratta infatti di decidere se chiamare Sinodo un convegno, se metterci “più laici e più donne” per decorare il nulla. Si tratta del modo di dire la fede delle chiese locali e della responsabilità “pastorale” (nel senso di Papa Giovanni) dei vescovi.
I quali vescovi da anni si accontentano di rinviare la questione Sinodo come fosse un pallino gesuita o la leva per migliorare gli incassi politici alla prossima crisi o riscrivere liste di valori su cui riaggregare le destre confuse o cantare in coro la lisa canzone del “bene comune”.
Senza un atto di responsabilità sulla “sinodalità dall’ alto e dal basso” i vescovi perderanno autorevolezza: e di vescovi autorevoli hanno bisogno la Chiesa e il Paese. Lo si è capito quando mezz’ Italia ha visto che Giuseppe Conte era stato più severo dei vescovi davanti all’ abuso blasfemo delle devozioni cattoliche più dolci.
O quando Andrea Orlando, annunciando la sua scelta di lavorare nel partito, li ha surclassati nell’ indicare nella società il luogo in cui stare, per una lotta al cancro dell’ odio e della paura che deve ancora iniziare.
Il “probabile Sinodo per la Chiesa italiana” ne è parte perché è lo snodo liturgico in cui il rinnovamento interiore della Chiesa cattolica nella fedeltà al Vangelo può annaffiare le tante radici della democrazia italiana. E Dio sa se non son secche
leggi anche il post già pubblicato:
– UN «PROBABILE SINODO» DELLA CHIESA ITALIANA? Dal I Convegno ecclesiale del 1976 a oggi di p. Bartolomeo Sorge SJ



i primi cinque anni di papa Francesco

i cinque anni del papa che ha capovolto la chiesa

di Alberto Melloni
in “la Repubblica” del 12 marzo 2018

“chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia”

Lo so. L’egocentrismo cattolico che non scolora la papolatria istintiva in Italia, lo iato morale che da decenni separa i pontefici da molti leader politici — tutto potrebbe far pensare che quello che si dice di Francesco da cinque anni lo si sarebbe detto di chiunque altro fosse stato eletto il 13 marzo 2013. Ma non è vero. Perché Francesco ha un baricentro peculiare, nudo, secco, perfino unilaterale: quello di un papato “kerygmatico”. Il “kèrygma” (annuncio), nel Nuovo Testamento è il nucleo del vangelo di Gesù. Non cancella la catechesi, la dottrina, le norme: queste Francesco le lascia ad altri, se sono capaci. Lui tiene per sé l’annuncio che smaschera l’idolo del potere, così da non sciupare quel che “Dio ha scelto”. Così quando tacciono i denigratori e quelli che lui chiama i “pappagalli bergogliani” (che cinguettano di “periferie”, di “chiesa in uscita” o di “migranti” sperandone una carriera), chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia. Se nel marzo 2013 la maggioranza che Ratzinger sperava eleggesse il cardinale Scola fosse stata solida o sincera, in questi giorni festeggeremmo l’anno quinto di Paolo VII (dicono avrebbe scelto questo nome). Fine teologo, il “papa ciellino”, avrebbe scritto dotte encicliche. La causa di beatificazione di Giussani sarebbe avanzata. Renzi non avrebbe toccato Lupi. Parolin sarebbe nunzio in Venezuela e Bassetti vescovo emerito di Perugia, entrambi senza porpora. Chi campa lodando qualunque Papa, lo loderebbe; i critici sarebbero bastonati senza pietà. Unico dato comune: un fiume d’inchiostro avrebbe seguito i suoi atti sui beni mobiliari e immobiliari della chiesa, sulla riforma della curia e sui pedofili preti. Perché il disordine sistemico che aveva scosso la chiesa e Benedetto XVI aveva portato il Conclave a ritenere (sbagliando) che esso dipendesse solo dagli italiani e solo da queste tre piaghe purulente. Di quelle piaghe, in effetti, anche Francesco si è dunque dovuto occupare: e chi ne monitora i passi falsi credendo di smascherarne le debolezze, non ha capito che Francesco onora il capitolato conclavario col disincanto dell’uomo privo di ansie da prestazione religiosa. Il denaro, ad esempio, non è riformabile. Dopo Porta Pia fu pensato come un surrogato del potere temporale a difesa della chiesa: ma non si tenne conto (dice il cardinale Silvestrini) che quando appaiono i soldi i preti buoni sono spesso così buoni che si fidano dei delinquenti, e i preti delinquenti si fidano sempre dei delinquenti perché sono come loro. Dunque Francesco ha agito sullo Ior con troppe commissioni e troppe nomine: sapendo che però si può ottenere solo lo stesso grado di moralità che c’è nel mondo finanziario. Dicono non sia alto. Qualcosa di simile vale per la curia: la riforma in cantiere da un lustro riguarda i mansionari e lascerà alla bolla di promulgazione la sostanza teologica.

Ma Francesco sa che la curia si riforma non se il Papa si agita: ma se l’episcopato, senza coniglismi, entra nella logica di sinodalità che si apprende facendola. Quanto poi ai pedofili preti, coperti da vescovi eretici (ché se un vescovo segue la “ragion di chiesa” contro le vittime è posseduto da un demone anticristiano) Francesco sa che le grida sulla “tolleranza zero” non bastano e prima o poi permetteranno killeraggi mirati. Per cui, fatto tutto quello che è necessario sul piano giuridico, bisogna interrogarsi sulla elezione dei vescovi e sulla formazione dei preti: cioè guardare negli occhi la questione del ministero, che Francesco non ha voluto ancora affrontare. Questa attitudine non a tutti basta. Ma se uno guarda ai siti del fondamentalismo cattolico, troverà accuse febbricitanti, giochi di specchi social per far pensare che i nemici di Francesco siano tanti e pronti a deporlo. In realtà i nemici del Papa vorrebbero sembrare la metà della chiesa, ma sono pochi: una rumorosa armata in cerca di un cardinal Brancaleone, che li conduca al Conclave della rivincita che sperano vicino. Francesco, non senza crudeltà di un gesuita, glielo fa credere vicino da tempo, dicendo che si aspetta un papato corto, cinque anni. Adesso al quinto anno ci siamo: il Papa sta bene e la buona salute di Ratzinger impedisce ogni pensiero di rinunzia. Il magistero fragile del papa “kerygmatico” continua. Papa Bergoglio, sia chiaro, non ha un angelicato disinteresse per il domani: non dà posti cardinalizi ad alcuni perché quando il suo pontificato finirà — lo decida solo Dio o lo decidano insieme si vedrà — non li vuole al Conclave. Con la rarefazione dei cardinali italiani favorisce il primo papato italiano del secolo XXI, che prima o poi verrà. Ma non ha nessuna intenzione di manovrare e non fa neppure norme per proteggere quel che ha fatto o predicato. Se quel che fa viene da Dio, pensa, durerà. E il “kerygma” è da Dio. Se quel che ha fatto è fatto “in pace”, durerà: e l’uomo risolto in un mondo di maschi irrisolti, è in pace. Ma “ha fatto anche errori!”, dice la gauche caviar della teologia. Effettivamente se avesse fatto votare Amoris laetitia al sinodo avrebbe dato voce ad un organo fin qui muto e si sarebbe liberato delle polemiche bigotte di chi ignora la grande tradizione della chiesa. Se avesse voluto usare fino in fondo le sue prerogative di primate d’Italia avrebbe potuto impuntarsi perché i contenuti del suo potente discorso alla chiesa italiana a Firenze nel 2015 venissero almeno presi sul serio, se non proprio obbediti. Ma Francesco non ambisce all’Oscar come migliore attore protagonista del film della chiesa cattolica. Sa che il premio della fede è la fede. Crede che i processi di riforma riguardano le sfere della conversione che solo uno stupido politicismo penserebbe di poter misurare. E dunque fa “quel che crede” in senso stretto. Senza illusioni, senza posa, senza attivismi. Il papato kerygmatico varca la soglia dell’anno quinto e “la sua vita perentoria” insegna solo a chi sa ascoltare.




la profezia forse a stento ritrova il suo spazio nlla chiesa

così torna a parlare la Chiesa dei poveri una profezia rinnegata

di Alberto Mellonimelloni

La profezia, nella tradizione biblica, non è applicare la vista al futuro, nel tentativo di indovinarne la cifra. La profezia è tutt’altro: è un gesto verbale o non verbale, che mostra il collocarsi di Dio nel dilemma della storia fra oppresso e oppressore. Era profetica in questo senso una frase pronunciata da papa Giovanni l’11 settembre 1962, a un mese dall’inizio del Vaticano II: diceva che la chiesa vuole essere «la chiesa di tutti, ma soprattutto la chiesa dei poveri». Non la chiesa povera, non la chiesa che si occupa di poveri: ma la chiesa «dei poveri», quella che viene adunata dal collocarsi di Dio nel mistero della storia

Quel gesto profetico appariva l’eco di una ricerca spirituale molto marginale: quella dei teologi francesi della “Chiesa serva e povera” o quella dell’immedesimazione con i “minimi” di don Milani. Non appariva come un programma ecclesiale. Tant’è che quando, in concilio, l’arcivescovo Giacomo Lercaro propose di dare come cardine ai lavori e alla riscrittura del Vaticano II il mistero del Cristo povero, la cosa cadde nel vuoto: quel discorso era un gesto profetico in una chiesa immatura. Poi il silenzio. L’episcopato latinoamericano e la teologia della liberazione posero la questione della chiesa nei poveri. Ma il tema sparì dal magistero, dalla teologia, dalla predicazione. Al posto della chiesa dei poveri ci fu una “mobilitazione” che, con una singolare torsione del linguaggio, anche la chiesa accettò di chiamare “volontariato”: come se l’immedesimazione della chiesa nel destino del povero non fosse il solo modo per collocarsi sull’asse teologico della storia, ma una cosa che si può fare o no; un irritante “civismo religioso” analogo a quello di raccoglie le cartacce. Poi papa Francesco. E il prepotente ritorno della chiesa dei poveri e della povertà della chiesa dopo mezzo secolo di rimozione. Ritorno lessicale fatto con una (gesuitica) circospezione. Ritorno di governo fatto con la scelta di vescovi capaci di interpretare questa dimensione nelle chiese locali, quelle nelle quali e dalle quali origina la chiesa universale. Una decisione che non solo ha irritato e spaventato alcuni ambienti ecclesiastici, che vedevano frantumarsi strategie per insediare sodali e debitori di cordate “nelle quali e dalle quali” nasce quel nulla in formato spray che trasforma la vita cristiana in una inconsapevole ostentazione superba della propria mediocrità. La scelta di vescovi capaci di esprimere la chiesa come “chiesa dei poveri” ha spiazzato anche osservatori distanti: dai quali è venuta l’espressione sui “preti di strada”. Dire che uno studioso provato come Corrado Lorefice a Palermo o che un uomo dell’esperienza internazionale di Matteo Zuppi a Bologna siano preti “di strada”, è paradossale. In questo tentativo di ridurre le scelte di Francesco ad un casting spicca la figura del cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, definito anche lui come un “prete di strada”, ignorandone il profilo e lo spessore. Che adesso sono più accessibili grazie al libro-intervista Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze curato da Lorenzo e Gerolamo Fazzini (Emi). Nel racconto della sua vita Tagle non fa particolari rivelazioni: l’esempio di un prete santo, un seminario reso fervoroso da un vescovo audace, che lo fa rettore a 25 anni; alcune esperienze impreviste come la partecipazione alla Storia del concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo e poi soprattutto la chiamata nella Commissione teologica internazionale presieduta da Ratzinger che gli apre le porte di una carriera apparentemente senza ostacoli (e da ecclesiastico di razza, Tagle non racconta di essere stato chiamato all’ex sant’Ufficio a discolparsi dall’accusa di aver collaborato con Alberigo, che qualche sitarello conservatore agitava come fosse una colpa). Ma la “rivelazione” è l’intero racconto: quello di un uomo che in un lavoro di studio e con responsabilità importanti non smette di avere un rapporto immediato e costante con la povera gente. Nella diocesi dove cresce e anche adesso da cardinale arcivescovo, in una semplicità di relazione che lo porta ad essere non un “volontario” che “si occupa” di povericristi, ma un discepolo che nel poverocristo incontra il Cristo povero. La profezia della chiesa dei poveri era questa: la “forma” di santa romana chiesa tutto questo se lo rimangerà. Ma la profezia non cessa, perché l’asse della storia rimane quella e qualcuno che lo dice o c’è o tornerà.

* IL LIBRO Luis Antonio Tagle, Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze ( a cura di Gerolamo e Lorenzo Fazzini, Emi, pagg. 160, euro 15)




la religiosità integrista e crudele presente anche tra i cattolici reazionari

quel Dio crudele dei cattolici reazionari

di Alberto Mellonimelloni

La volgarità di un frate domenicano — che dai microfoni di Radio Maria ha letto il terremoto come una punizione ed è stato licenziato dopo una presa di posizione vaticana — ha aperto un piccolo squarcio su una religiosità integrista, solitamente invisibile. È un sottosuolo cattolico opaco e apprensivo, fatto di sentimenti reazionari: nell’era-Francesco è spesso antipapale, da sempre è teologicamente approssimativo.

cavalcoli

Riprende il ritornello dell’intransigentismo dell’Otto-Novecento: per cui la modernità produce ribellioni contro le quali un Dio crudele, irriconoscibile alla fede biblica, reagisce mandando flagelli pedagogici. Quel pensiero antimoderno s’è sempre dotato di media “moderni” come i giornali, i movimenti, la radio, la tv. Nel mondo dell’iper-comunicazione questo pulviscolo integrista è diventato più invisibile. Siti e antenne, blog e social, somministrano paure su misura: le paure su quel che si insegna a scuola per i movimenti pro-vita, quelle dei preti tradizionalisti che danno alla xenofobia leghista profumo d’incenso, quelle del radicalismo familista che manifestano verso l’amore omosessuale il risentimento degli irrisolti. Basta ascoltare Radio Maria: che inculca in dosi quotidiane sospetti e inimicizie, con il suo leader, padre Livio Fanzaga che ogni giorno spiega leggendo i giornali dove sono i pericoli, chi sono gli avversari e soprattutto “smaschera” i traditori. Il tutto inframmezzato da momenti spirituali — per chi guida la notte o aspetta l’alba in ospedale, il rosario o l’ufficio divino sono meglio di Isoradio — dietro ai quali traluce la pretesa di essere gli unici battaglieri in una chiesa molle, gli unici fedeli in una chiesa di codardi, gli unici cattolici in una chiesa di apostati. Livio FanzagaLe fantasticherie antibergogliane di Antonio Socci lì non suscitano compassione, ma ammirazione: la tesi del giornalista, nelle ore del terremoto, era che un vero pontefice avrebbe consacrato l’Italia alla Vergine Maria; e che Francesco non l’aveva fatto perché era un gesto “troppo cattolico” per un papa che egli ritiene grosso modo un usurpatore. È un mondo agli antipodi della autentica pietà popolare: essa è il modo in cui una comunità espropriata della liturgia dal protagonismo clericale trova spazi e linguaggi che nascono da quell’intuito credente che la dottrina cristiana chiama “sensus fidei”. In questo mondo di mezzo, invece, la partita è molto politica. Anche se non sono ancora diventati la variante cattolica delle chiese televisive americane — il cui peso elettorale sul voto americano di oggi è stato ben stimato dal Pew Center — i fans dei blog e delle radio integriste esprimono, sono una potenzialità politica perché nel mondo delle disaffezioni politiche rappresentano una fidelizzazione. La minaccia contro Renzi del raduno familista di Adinolfi — che giurava la vendetta della legge sulle unioni nelle urne del referendum — era solo una di queste possibili declinazioni. Che però potrebbero domani trovare inattese convergenze nel grillismo, la cui cultura, tutta e solo di destra, non ignora che c’è sempre un cattolicesimo opportunista, pronto a “dialogare” con ogni potere disposto a farsene patrono. SocciChe ad una voce onestamente minore come quella del padre Cavalcoli abbia reagito la Santa Sede in persona (non è usuale che il regista della politica italiana, il Sostituto, prenda la parola in modo così netto e categorico) dice che la chiesa di Bergoglio non sottovaluta quel che c’era di “politico” in quelle parole. Che il disastro naturale possa dar adito a questioni filosofiche l’Europa lo sa dal 1755, quando il terremoto di Lisbona permise a Voltaire di polemizzare con i virtuosismi della “teodicea”, che giustificava Dio davanti alle catastrofi del mondo: ma onestamente padre Cavalcoli non è in quell’alveo… Appartiene piuttosto alla deriva che agitando temi reazionari ha fatto scivolare le chiese verso posizioni pericolose: come quelle della omonima Radio Maria polacca, che allarmò
perfino Benedetto XVI nel 2006, quando i deliri antisemiti di quella emittente furono sanzionati, anche se senza grande successo. Oggi con la casa natale di san Benedetto patrono d’Europa che si sbriciola mentre si sbriciola l’Europa, la Santa Sede ha dato un segnale molto cristiano e molto politico. Là dove viene meno il buonsenso umano e il buoncuore cattolico, si annida un bisogno di odio: che è l’aria che si respira in questo paese lacerato e vulnerabile. Che ha pensato per molto tempo di potersi scegliere i suoi grandi problemi — la disoccupazione, la denatalità, le migrazioni, il terrorismo, la crisi economica — e l’ordine in cui affrontarli. Anziché chiedersi quanta umiltà e quanta coesione servono per essere pronti quando ciò che incombeva accade, presentando al domani il conto di molti ieri.




i gesti semplici di papa Francesco come nuovo stile di governo

 

 

 

 

 

 

 

la preoccupazione del papa

in 100 giorni papa Francesco ha imposto un nuovo stile di governo sia nel porsi di fronte ai fedeli sia nel proclamare i contenuti evangelici

ha avuto una risposta affettuosa ma anche facile come quella dei tassisti, e sotto sotto tanti mugugni e perplessità

uno stile che consola tanti, che incoraggia e fa ben sperare: ma è uno stile esigente e il papa lo sa e non arretra

lo storico A. Melloni da par suo analizza questo stile, sia pure nei limiti di un semplice articolo

(vedi link qui sotto)

i gesti semplici del papa