i lager dei nostri tempi finanziati dall’Europa – l’accusa di papa Francesco

la denuncia del papa a ‘Che tempo che fa’

“Disperati rinchiusi nei lager, l’Ue agisca”

in “La Stampa” dell’8 febbraio 2022

«Ci sono lager in Libia, dobbiamo pensare alla politica migratoria e l’Europa deve farlo insieme,
l’Unione europea deve mettersi d’accordo evitando che l’onere delle migrazioni ricada solo su alcuni Paesi come l’Italia e la Spagna». A denunciare la situazione dei centri di accoglienza libici è stato il Papa domenica sera, rispondendo alle domande di Fabio Fazio a «Che Tempo Che Fa».
«Quello che si fa con i migranti – ha spiegato – è criminale: per arrivare al mare soffrono tanto. Ci sono immagini terribili, lager gestiti dai trafficanti. Quanto soffrono quelle persone nelle mani dei
trafficanti. Soffrono, poi rischiano per traversare il Mediterraneo, e alcune volte vengono respinti».
«Il migrante – ha poi concluso – sempre va accolto, va accompagnato, va promosso e integrato».




i lager libici e lo choc dell’orrore – testimonianze di crudeltà umana

 
viaggio nei campi di sterminio dei migranti in Libia
ecco la testimonianza choc dell’orrore che non vogliamo vedere

sono stati sequestrati, torturati, imprigionati, guardati a vista da squadracce multietniche armate. Sono arrivati in Italia e hanno reso testimonianze preziose per ricostruire la storia del tormento libico. Perché nessuno possa dimenticare o girarsi dall’altra parte. Testimonianze viventi della crudeltà umana

[L’esclusiva] Viaggio nei campi di sterminio dei migranti in Libia. Ecco la testimonianza choc dell’orrore che non vogliamo vedere

Sembrano racconti del secolo scorso. Dei sopravvissuti ai campi di detenzione delle guerre etniche, razziste, di sterminio. Ma invece sono storie attuali, testimonianze di una moderna umanità sofferente che ricordano i giorni terribili vissuti in Libia, nei mesi scorsi. Sono stati sequestrati, torturati, imprigionati, guardati a vista da squadracce multietniche armate. Sono arrivati in Italia e hanno reso testimonianze preziose per ricostruire la storia del tormento libico. Perché nessuno possa dimenticare o girarsi dall’altra parte.

Testimonianze viventi della crudeltà umana. Ma anche simboli del coraggio delle vittime e della lealtà e dell’impegno di preziosi investigatori italiani che hanno riscritto la moderna Spoon River dei migranti schiavi delle mafie etniche.
Legga attentamente queste testimonianze chi attacca il governo italiano per biechi calcoli politici o per stomachevoli ipocrisie di presunti sbandieratori del rispetto dei diritti umani. L’Italia sarebbe complice dei torturatori libici mentre presta soccorso e accoglienza, e nello stesso tempo lavora per un governo dei flussi migratori? I nostri calunniatori sperano forse che tutto rimanga come prima? A loro, la lettura delle testimonianze dei sopravvissuti all’inferno libico svelerà che il nostro Paese, l’Italia, è in prima fila (temiamo da sola) nel contrasto ai trafficanti di uomini e donne. Perché queste testimonianze, come altre centinaia raccolte in questi anni, sono servite, servono e serviranno a far condannare nei nostri tribunali i trafficanti di esseri umani.

Quelle che si raccontano sono le vite di migranti vissuti in due dei tanti campi di detenzione in Libia. Uno si trova in prossimità dell’oasi di Kufra, all’estremità del sud della Libia che confina con l’Egitto, il Sudan e il Ciad. Ed è quello dove vengono reclusi e torturati i migranti del Corno d’Africa. L’altro si trova invece alle porte della capitale del Fezzan, Sebha. E qui vengono reclusi e seviziati tra gli altri i nigeriani, i nigerini, gli ivoriani, i ghanesi, i senegalesi.
Questi racconti fanno parte di fascicoli giudiziari aperti da alcune Procure della repubblica. Le indagini non sono ancora arrivate a definire processi con imputati condannati. Ma siamo a buon punto.

Prima testimonianza  –  «Ci hanno trasportati in un carcere che sorge in una zona agricola dedicata alla coltivazione dei datteri e che si erge tra Kufra ed Hedeyafa. In tale struttura costantemente vigilata da diversi uomini armati sono rimasto con il mio compagno di viaggio per un mese e otto giorni. In tale lasso di tempo io, come tutti gli altri migranti reclusi in questa struttura, sono stato più volte torturato anche da un sudanese che oggi si trova in questo centro (di accoglienza italiano, ndr), torturato per il denaro».
«Spesso mi costringevano a contattare telefonicamente i miei parenti e durante le comunicazioni venivo colpito ripetutamente con dei tubi di gomma. Disgraziatamente mio padre è un povero agricoltore perché nella nostra zona è in corso una carestia. Per tali motivi i miei familiari non erano in grado di pagare il riscatto preteso dall’organizzazione criminale, che inizialmente consisteva in 5.000 dollari. In seguito, comprendendo le precarie condizioni della mia famiglia, abbassarono le pretese a 3000 dollari. Ma mio padre non fu in grado di pagare lo stesso. Alla fine, dopo oltre un mese di torture e sevizie sono stato trasferito in un altro struttura, insieme ad altri migranti reclusi».
«Il carcere sorge in una zona agricola vicino ad una piantagione di datteri. Il carcere assomiglia a un grande capannone con un unico ingresso. Vi erano delle finestre, ma troppo alte per essere raggiunte. La struttura ospitava diverse centinaia di migranti ed era costantemente vigilata da una decina di uomini anche armati. Il capo era un sudanese e i sottoposti erano diversi uomini sudanesi e somali. Alcuni avevano dei fucili».
«Mi colpivano ripetutamente con un tubo di gomma. Ma mi reputo fortunato perché non sono mai stato percosso a petto nudo ma indossavo sempre un giubbino che riusciva a mitigare la violenza dei colpi subiti. Altri sono stati meno fortunati. Sono disposto a fare vedere e fotografare le mie cicatrici ma non credo di averne perché non sono mai stato percosso a petto nudo». Questo testimone somalo, come altri nigeriani, svelano ai nostri investigatori che nei centri di accoglienza dove si trovano in Italia, hanno riconosciuto diversi torturatori. E le loro accuse hanno già portato in alcuni casi al fermo degli aguzzini.
«In questo campo c’è Mohamed che ha fatto la traversata con noi. Mi ha picchiato almeno una decina di volte. Quando sono arrivato nel carcere, Mohamed il somalo era già nella struttura. Lui faceva parte della squadraccia dei picchiatori, di quelli che ti torturavano per costringere i tuoi congiunti a pagare. Ma le torture inflitte non si limitavano alle telefonate ma si protraevano per intimorire i reclusi».

Seconda testimonianza – «Sono partito dalla mia regione il 17 febbraio del 2017 per raggiungere l’Europa. Con mezzi pubblici abbiamo raggiunto Adis Abeba dove ci siamo uniti ad altri emigranti che avevano la nostra stessa intenzione. Quindi abbiamo conosciuto i trafficanti etiopi i quali ci assicurarono che erano nelle condizioni di poterci fare arrivare in Europa. Non ci chiesero soldi in cambio perché erano ben consapevoli che noi eravamo dei rifugiati. Ci fecero salire a bordo di un minubus e ci condussero al confine con il Sudan, dove ad attenderci trovammo i facilitatori sudanesi. Noi fummo ceduti a loro che, prima di farci salire a bordo di mezzi, ci perquisirono. Erano armati di fucili. A me presero l’equivalente di 60/70 dollari. Agli altri tolsero tutto, dai denari al cellulare ai preziosi, orologi e anelli».
«Ci fecero salire su due grossi camion. E dopo aver attraversato il deserto arrivammo al confine libico dove fummo ceduti ai facilitatori libici armati di pistole. Salimmo a bordo di una ventina di Pi-kup. E arrivammo all’interno di una struttura recintata con dei grossi e alti muri. Questa struttura era a Kufra, circondata da una piantagione di datteri. All’interno vi erano due grossi capannoni. Uno per gli eritrei, l’altro per i somali».
«Questo accampamento era chiamato Hedeyfa. Da lì non si poteva uscire se non dopo l’avvenuto pagamento. Ho visto che ogni tanto all’interno di quella prigione arrivavano i libici armati di fucili e pistole. La prigione è gestita da un sudanese». «Molti migranti hanno dovuto pagare circa 5.250 dollari. Io non ho pagato perché i miei familiari, malgrado contattati, non erano in grado di pagare. Dopo un mese fui trasferito vicino al mare. E per imbarcarmi per l’Italia ho dovuto pagare 2.500 dollari attraverso la Hawala Hargheisa (sistema informale di trasferimento di valori, ndr)».

Terza testimonianza – «I Pi-Kup su cui viaggiavamo si sono divisi in diversi gruppi. Io e altri 30 circa siamo stati condotti in una sorta di carcere dove siamo stati rinchiusi. Ricordo che sono stato catturato nel marzo 2017 e che sono stato lì rinchiuso per circa 40 giorni. Giunto in questo carcere, abbiamo capito che eravamo stati venduti a una organizzazione criminale. Infatti  iniziarono subito a torturarci per costringerci a contattare i nostri familiari affinché pagassero il riscatto. Alla mia famiglia chiesero un totale di 5.000 dollari. Mia madre non disponeva di tale somma per cui effettuò più pagamenti». «Il carcere sorge vicino a una piantagione di datteri, a Kufra. E faceva riferimento a un militare libico di nome (omissis) di circa 30 anni che veniva saltuariamente, sempre in divisa e sempre armato. La gestione giornaliera era affidata a un sudanese che si avvaleva della collaborazione di cinque somali e un sudanese».
«Sono stato torturato durante tutta la permanenza in questo carcere. Ricordo che durante il primo periodo di reclusione non riuscii a mettermi in contatto con i miei familiari per un problema di linee telefoniche. Ma nonostante questo, continuarono a seviziarmi e lo fecero anche quando arrivò l’ultima quota del riscatto che giunse otto giorni prima della mia liberazione».

Quarta testimonianza – «In cinque giorni siamo arrivati al confine tra la Somalia e il Sudan e in loco circa venti persone si sono aggregate al nostro gruppo. A bordo di un grosso camion abbiamo attraversato il deserto e siamo giunti in una sorta di prigione che si trova vicino la città di Kufra. Qui c’erano almeno duecento segregati e diverse guardie somale e sudanesi. Ma la struttura faceva capo a dei libici. Sono rimasto in questa prigione per circa un mese».

Quinta testimonianza – Questa è la storia di un campo di prigionia alle porte di Sebha. La capitale del Fezzan, del sud della Libia. Qui c’era un personaggio chiamato Rambo, nigeriano. Questa prigione nel deserto è chiamata il “Ghetto di Alī il libico”. «Sono partito dal mio paese, la Costa d’Avorio e ho attraversato il Burkina Faso per arrivare ad Agades, in Niger. Due settimane di traversata del deserto. Il Ghetto di Alì era una grande struttura recintata con dei grossi e alti muri in pietra, vigilata da diverse etnie. Tutti armati di fucili e pistole. La struttura era divisa in tre blocchi. Nel mio eravamo orientativamente duecento, di varie etnie. Mio cugino si ritrovò in un altro blocco. Il mio era vigilato da un guineiano e due ghanesi feroci, Abdulharran  e Patrick. Abdulharran era uno che spesso, in modo inaudito e sistematico, picchiava e torturava noi migranti. Dopo circa cinque mesi di lunga prigionia, e quindi di sistematiche violenze subite, mio fratello fece arrivare i soldi e mi liberarono».

Sesta testimonianza – «Sono salito su un bus per raggiungere Agades, in Niger, dalla Costa d’Avorio. Dove arrivammo dopo due giorni di viaggio. Un facilitatore del Mali propose di portarci a Tripoli. Eravamo un centinaio in un capannone dove aspettammo cinque giorni prima di salire su sette camioncini guidati da autisti del Ghana. In quattro giorni arrivammo a Sebha dove fummo imprigionati, spogliati e perquisiti». «In questo carcere c’era un muro in pietra alto tre metri. Dentro, quattro container, tre destinati agli uomini, uno alle donne. In tutto, 800 migranti. Il carcere era vigilato da guardie con fucili mitragliatori e pistole. Erano guardiani nigerini, ghanesi, del Ciad e del Gambia. È durata cinque mesi la permanenza in questo carcere».

Settima testimonianza «Ogni volta che dovevo telefonare a casa, Abdulharram mi legava e mi faceva sdraiare per terra con i piedi in sospensione. E così immobilizzato, mi colpiva ripetutamente con un tubo di gomma in tutte le parti del corpo e in particolare sotto le piante dei piedi tanto da rendermi quasi impossibile poter camminare. Ho anche assistito ad analoghe torture fatte sempre da lui ad altri migranti». «Ho inoltre visto trattamenti anche peggiori come le torture mediante l’utilizzo di cavi alimentati con la  corrente elettrica. Tale trattamento veniva però riservato ad emigranti ritenuti ribelli». «Durante la mia permanenza in quel ghetto dove era impossibile uscire, ho sentito anche che Rambo aveva ucciso un migrante».




l’accordo con la Libia va cancellato

basta finanziare gli aguzzini

cancellare l’accordo

di Francesca Chiavacci e Filippo Miraglia
in “il manifesto” del 16 novembre 2017

Nelle ultime ore gli effetti dell’accordo del nostro governo con la Libia si sono materializzati davanti a tutto il mondo. Prima i 50 morti provocati dal comportamento della guardia costiera libica. Che cerca di impedire alla nave della Ong Sea Watch di prestare soccorso. Poi la denuncia del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che accusa esplicitamente il governo e l’Unione Europea di essere corresponsabili dei crimini che vengono commessi nei lager libici. E ancora, le terribili immagini dei migranti venduti come schiavi, probabilmente dalle stesse milizie con cui ha trattato il ministro Minniti. Da ultimo, la denuncia alla Corte Internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità del generale Khalifa Haftar, uno degli autorevoli interlocutori del ministro.

Un quadro terribile, che conferma la sistematica violazione dei diritti umani nel paese che l’Italia ha rifornito di armamenti e soldi per fermare i flussi migratori. Salvare i migranti da quell’inferno, interrompere i finanziamenti – trovati attingendo ai fondi per la cooperazione – è ormai un imperativo. Non ci si può dire preoccupati per le sorti di chi viene ricacciato in Libia e allo stesso tempo finanziarne gli aguzzini. In questi giorni il nostro Parlamento discute la legge di bilancio, che prevede risorse per la cooperazione allo sviluppo che in realtà vengono utilizzate per tutt’altri fini. In particolare, il Maeci (Ministero affari esteri, Cooperazione internazionale) ha istituito un fondo straordinario per l’Africa per il 2017, con una dotazione di 200 milioni di euro, volto a finanziare interventi di cooperazione allo sviluppo e di controllo e prevenzione dei flussi di migranti irregolari. Fondi che sono stati in parte finalizzati a progetti specifici nei principali paesi interessati dalla rotta del Mediterraneo Centrale – Niger, Libia e Tunisia in particolare – in parte sono invece transitati per il contenitore europeo dei Fondi Fiduciari per poi arrivare direttamente nelle casse dei Paesi africani coinvolti. Un sistema di vasi comunicanti – sia tra Italia e Europa, che tra il Maeci e il Ministero degli Interni – che rende ancora più difficile il monitoraggio del loro utilizzo. È però evidente che l’utilizzo reale del Fondo per l’Africa ha poco a che vedere con l’obiettivo dello sviluppo previsto dalla legge. Le risorse più ingenti sono infatti quelle stanziate per il contrasto all’immigrazione e il controllo delle frontiere. L’esempio più esplicito del sistema di vasi comunicanti è il fondo allocato per il Niger, con cui questo paese s’impegna a creare nuove unità specializzate necessarie al controllo dei confini. Una militarizzazione delle frontiere che obbliga i migranti a uscire dalle rotte abituali, aumentandone i rischi e trasformando così il deserto, come già il Mediterraneo, in un cimitero a cielo aperto. Il fondo per l’Africa è dunque diventato lo strumento centrale per l’esternalizzazione delle frontiere, affidando a paesi che violano sistematicamente i diritti umani l’intercettazione dei migranti per deportarli in luoghi dove sono esposti a trattamenti violenti e disumani.

L’esempio più lampante, come riportano le tante denunce documentate, è quello della Libia, per la quale il Maeci stanzia dieci milioni, gestiti dal Ministero degli Interni italiano, che si aggiungono agli altri due milioni e 500mila euro forniti per la riparazione di quattro motovedette assegnate alla guardia costiera libica perché svolga la sua violenta opera di intercettamento e respingimento. Con gli stessi obiettivi, dodici milioni sono stati destinati al governo tunisino per il pattugliamento delle zone costiere e delle frontiere terrestri. Con questo utilizzo dei fondi l’Italia viola le Convenzioni Internazionali, affidando ad altri Paesi i respingimenti sistematici di cittadini stranieri, potenziali richiedenti protezione internazionale.
Chiediamo che sia cancellato l’accordo con la Libia e che le risorse previste per la cooperazione vengano destinate all’aiuto allo sviluppo, come prevede la legge, e non utilizzate per finanziare strumenti di controllo e di militarizzazione delle frontiere africane.

* Francesca Chiavacci è presidente nazionale Arci

* * Filippo Miraglia è presidente Arcs




italiani ed europei disumani – lo dice l’ONU

il commissario per i diritti umani Zeid Ràad al Hussei:

“la sofferenza dei migranti detenuti è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”

 

i bassi interessi dell’azione militare in Libia

comunicato stampa Pax Christipax christi2

i potenti delle guerre

 Firenze, 13 agosto 2016 pax christi1

Pace è forza della verità, vera e grande politica.

La spedizione militare in Libia, in atto da anni, non ha come obiettivo primario l’espulsione dell’Isis da Sirte ma la spartizione di risorse (petrolio, gas, acqua fossile, fondi sovrani libici confiscati nel 2011) e il controllo di territori ritenuti fondamentali per gli interessi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia assieme a Turchia, Egitto, paesi arabi e altre potenze.
L’azione bellica, preparata da tempo con insediamenti europei in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, è animata da logiche neocoloniali che sfruttano il caos geopolitico con rischi altissimi per la Libia, il nord Africa, il Medio Oriente, l’Italia. Costituisce un regalo al demonizzato Califfo e alla proliferazione del terrorismo. Aggrava i mali da contrastare. Prepara ulteriori divisioni e dolore.
Occorre rilanciare un’offensiva diplomatica per l’unità della Libia (dirigenti dell’ENI hanno dichiarato al “Corriere della sera” che occorre “farla finita con la finzione libica”) con il protagonismo di forze locali  libere da alleanze ambigue, mutevoli e interessate, con l’accordo tra città e tribù  (usate ora da questa o quella potenza), con la presenza attiva dell’ONU  coerente con la sua Carta fondativa  (che prevede forme di “polizia internazionale” o di interposizione molto diverse dalla guerra), con un serio lavoro di intelligence, con pratiche di riconciliazione, con esperienze di dialogo interreligioso.
Pace è grande e vera politica, è forza della verità (la gandhiana satyagraha), è capacità di trasformazione costruttiva dei conflitti, è creazione delle condizioni di pace per un futuro libero dalla forza ingannatrice e ipocrita della violenza armata a servizio di pochi potenti pronti a destabilizzare per stabilizzare a loro favore.

Smoke billows as Libyan rebels progress westward from the town of Bin Jawad towards Moamer Kadhafi's home town of Sirte on March 28, 2011 as NATO finally agreed to take over full command of military operations to enforce a no-fly zone in Libya from a US-led coalition. AFP PHOTO/ARIS MESSINIS (Photo credit should read ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)

Nei giorni in cui la liturgia ci offre nel Magnificat (15 agosto) l’immagine della caduta dei potenti dai loro troni, condividiamo le parole del papa dello scorso 7 agosto, riguardanti i prezzi dei conflitti armati in Siria, ma anche Iraq, Sud Sudan e in molti altri Paesi a noi vicini o lontani, soprattutto il prezzo della chiusura di cuore e della mancanza della volontà di pace dei potenti”.

Pax Christi Italia




è bugiardo chi dice che non siamo in guerra

“Su Sirte basta bugie. E basta guerre”

intervista a Alex Zanotelli

a cura di Alessandro Cisilin
in “il Fatto Quotidiano” zanotelli (2)

Non siamo in guerra? Bugie per coprire attacchi preparati da tempo”. Tra una sessione e l’altra di un Campo di Lavoro a Castelvolturno, dedicata proprio alla convivenza tra italiani e africani (“qui oramai sono la metà della popolazione”), padre Alex Zanotelli rinnova i suoi strali verso i “negazionismi” sulle operazioni in Libia.

Li lanciò già sei mesi fa.

È da tempo che sapevamo della presenza sul campo di militari americani, inglesi, forse anche italiani. Capisco del resto la paura a dichiarare i fatti: nella zona di Sirte ci sono forse solo un migliaio di miliziani dell’Isis, ma in tutta la zona saheliana gravitano altri gruppi radicali che guardano con interesse allo Stato islamico, a cui ha già aderito anche Boko Haram. L’offensiva verrebbe percepita come una nuova guerra coloniale contro un paese arabo-musulmano.

Fuori dalle percezioni, che guerra sarebbe?

Un conflitto per il petrolio, e magari per spaccare il paese in tre Stati, altro segnale tipico dei disegni coloniali. Stiamocene fuori, è tempo di fermare le guerre, non di farne altre.

In un suo appello, lanciato a inizio anno assieme allo storico Angelo Del Boca, lei ha ipotizzato un “solo caso in cui l’Italia può intervenire”, indicando la strada di una “missione di pace” su richiesta delle autorità locali. Tale missione potrebbe per lei prevedere l’accompagnamento di forze militari?

No, nessun intervento militare, le armi portano solo conflitti, non li risolvono. Né può bastare che sia solo uno dei tre attori principali (Tripoli, Tobruk, il generale Haftar) a chiedere una missione civile. Dovrebbero essere almeno in due, e con l’accordo dell’Onu, di altri paesi europei e dell’Unione Africana. O così o niente.

Nel suo no alla guerra c’è anche l’argomento che “i libici ci odiano”. Ma è proprio così?

Noi rimuoviamo il nostro passato, ma quei 100 mila libici impiccati e fucilati dai coloni italiani restano nella memoria locale. E poi rimuoviamo il nostro supporto alla guerra sbagliata del 2011, quando fornimmo le basi aeree e i cacciabombardieri per aggredire un paese col quale per giunta avevamo da poco firmato Trattati di pace e altre intese. La ministra Pinotti si ricordi che noi siamo responsabili, anche della fornitura di armi a paesi come l’Arabia Saudita e Qatar, che poi finiscono nei teatri bellici come questo. Altro che “liberatori”.

In questi anni si è discusso anche di operazioni militari orientate a fermare l’immigrazione

Sull’immigrazione gli italiani dovrebbero prendersela con chi ha fatto la guerra. Quelle persone arrivano perché scappano dal caos. E arrivano perfino dal Bangladesh, in quanto la Libia stava relativamente bene e vi affluivano lavoratori da ovunque. Non difendo Gheddafi, era un dittatore, ma ha portato sviluppo e anche un’interessante modernizzazione dell’Islam. Quella guerra immotivata ha poi consegnato il paese alle milizie jihadiste. A Londra un rapporto parlamentare ha inchiodato Blair alle sue responsabilità per l’invasione dell’Iraq. Dovremmo farlo prima o poi anche noi per quanto fatto in Libia.

Peraltro lo stesso universo pacifista è descritto “in crisi” da un po’ di tempo. Lei è d’accordo?

Confermo, e per almeno due motivi. Il primo è che c’è stato un abbassamento delle sensibilità, è passato il messaggio della guerra “venduta” come una normale operazione politica. L’altro problema è che siamo spezzati tra mille rivoli, per motivi ideologici e altro. Dovremmo metterli tutti da parte. L’occasione può essere la Marcia della Pace del prossimo 9 ottobre. Che sia un momento unitario.




no alla guerra!

perché No alla guerra in Libia 

alcune proposte costruttive

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La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati

A partire dalla dissennata guerra lanciata dalla Nato nel 2011 contro il regime di Gheddafi che avrebbe dovuto inaugurare un’era nuova di pace e democrazia. Invece la Libia è precipitata nel caos e nella guerra intestina. Non solo. Quella guerra ha posto le basi per altri conflitti. È ormai risaputo e documentato che il saccheggio di vasti arsenali di armi del colonnello durante l’operazione della Nato ha alimentato la guerra civile in Siria, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai e destabilizzato il Mali.

Tresoldi

Di fatto nessuno dei conflitti iniziati dal 1991 ad oggi – Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Siria – ha risolto i problemi sul campo, anzi sono tragicamente aggravati. Il fallimento di tali operazioni è sotto gli occhi di tutti: milioni di profughi abbandonati al loro destino che fuggono a causa delle nefaste conseguenze delle recenti guerre.

Oggi poi, un eventuale secondo intervento armato in Libia avrebbe gravi ripercussioni anche sulla vicina Tunisia che teme il debordare della crisi libica oltre i suoi confini, mettendo a repentaglio il suo fragile equilibrio politico e il faticoso cammino verso la democrazia avviato in questi ultimi anni.

Inutile e ovvio dire che saranno i civili a pagare il prezzo più alto di imprese militari, anche nel caso di attacchi effettuati dai droni. Per quanto si voglia far credere che la precisione di tale velivoli a pilotaggio remoto non causerà vittime tra la popolazione, i fatti dimostrano l’esatto contrario. Indagini condotte su una lunga serie di attacchi hanno messo in evidenza che per un terrorista colpito i droni uccidono altre trenta persone circa, tra cui donne e bambini.

Se un intervento armato di polizia internazionale in Libia ci dovrà essere, sarà da considerarsi come estrema ratio, fatta nell’ambito delle Nazioni Unite e in seguito alla esplicita richiesta del governo unitario libico. Senza la quale – ammoniscono le autorità del governo di Tripoli – “qualsiasi tipo di operazione militare si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale”.

Va aggiunto che la lotta al terrorismo dello Stato Islamico non potrà mai essere vinta con un dispiegamento di forze militari. Anche la macchina bellica più potente è inefficace di fronte al fanatismo e alla capacità di mimetizzarsi dei terroristi in grado di colpire ovunque nel mondo cittadini inermi con attentati sanguinari. La nostra penisola è in una posizione particolarmente vulnerabile perché è la più esposta per la sua vicinanza geografica alle coste libiche.

Per i motivi esplicitati qui sopra, ci rivolgiamo al governo italiano perché assuma un ruolo guida per indicare alla comunità internazionale la ricerca paziente e perseverante di una soluzione politica alla grave crisi libica.

Vermigli

A tale scopo proponiamo con urgenza che l’Italia si impegni:
  • a garantire da parte dell’Europa l’apertura delle frontiere per accogliere e assistere i profughi, mettendo in campo un’operazione di salvataggio in mare.

Valpiana

Sulla base della nostra Carta costituzionale che sancisce che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» chiediamo al governo di adoperarsi con determinazione e concretamente al fine di promuovere e restituire pace e giustizia al popolo della Libia. Lavoro al quale partecipano da tempo schiere di cittadini che a vario titolo e in diverse organizzazione operano per la promozione della pace e della giustizia tramite l’educazione nelle scuole, con corsi di formazione alla nonviolenza attiva, con la disseminazione di informazione, con la ricerca, il monitoraggio e la denuncia di vendita illegale di armi e con una variegata gamma di iniziative e progetti.

Rota

Infine desideriamo rivolgere un appello a papa Francesco che negli anni del suo pontificato non si è stancato di dichiarare la propria ferma opposizione alla guerra. Che anche in questo caso levi la sua voce profetica per denunciare l’assurdità e l’immoralità di un intervento armato in Libia, sollecitando la comunità internazionale a cercare soluzioni pacifiche e giuste.

Valpiana Zanotelli

Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia

Mao Valpiana, direttore di Azione nonviolenta

Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di Pace

Mario Menin, direttore di Missione Oggi

Filippo Rota Martir, direttore di Missionari Saveriani

Marco Fratoddi, direttore di La nuova ecologia

Antonio Vermigli, direttore di In dialogo

Pietro Raitano, direttore di Altreconomia

Luigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata e segretario della Federazione Stampa Missionaria Italiana