il commento al vangelo della domenica

IO SONO MITE E UMILE DI CUORE

commento al vangelo della quattordicesima domenica del tempo ordinario (9 luglio 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 11,25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

È un momento difficile nella vita di Gesù: ha iniziato la sua predicazione, ed immediatamente gli arriva un ultimatum, che ha tutto il sapore di una scomunica, da parte di Giovanni Battista, che è incarcerato, che gli manda a dire: sei tu quello che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro? Evidentemente la predicazione di Gesù delude, e Gesù inizia a predicare nelle città, ma il risultato è fallimentare. E infatti Gesù si lamenta con queste città – sono tre principalmente: Corazin, Betsàida e Cafarnao – e Gesù si lamenta che, se lo stesso messaggio l’avesse portato nelle città pagane, si sarebbero convertite, queste no. Perché questa resistenza? Perché sono città dominate dall’insegnamento della sinagoga. Ed è a questo punto, siamo al capitolo 11 di Matteo, versetto 25, che Gesù esclama: “In quel tempo”, quindi in collegamento con questo, “Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre”, Gesù non parla di Dio, parla di Padre, è importante per comprendere il suo insegnamento, “Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti”, Gesù non se la sta prendendo con le persone colte, sapienti e dotti sono immagini dei dottori della legge, degli scribi, che ragionano in termini di dottrina e di legge, ma, se con la legge, la dottrina, si può arrivare a discutere, a parlare di Dio, del Padre si può soltanto sperimentare la sua potenza d’amore imitando questo amore, ecco perché Gesù parla di Padre. Per i dotti, per i sapienti, quindi gli scribi, i dottori della legge, Dio si manifesta nella dottrina e non nella vita, come invece insegna Gesù. E, dice Gesù, quindi le hai nascoste “queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. Nonostante il fallimento della predicazione di Gesù, c’è un gruppo di persone che lo segue: sono gli emarginati, sono le nullità, sono gli invisibili, sono queste le persone che lo seguono ed ascoltano il suo messaggio. E continua Gesù, di nuovo ripetendo la parola Padre, “Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”. E qui Gesù, con un tipico ragionamento teologico e rabbinico, afferma: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”, cosa vuol dire con questo ragionamento Gesù? Dio, abbiamo visto, si può conoscere dalla legge, il Padre soltanto nell’amore. Allora è nell’essere profondamente umani, nell’essere sensibili ai bisogni ed attenti alle necessità, alle sofferenze degli altri, che si può sperimentare la presenza del Padre. Come abbiamo detto, Dio si può conoscere attraverso la legge, il Padre soltanto attraverso l’esperienza dell’amore. Con Gesù, Dio si è fatto uomo, e l’uomo, l’umanità, è l’unico valore sacro. E poi c’è l’invito da parte di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi”, stanchi e oppressi di che cosa? Dell’osservanza della legge, dirà più avanti Gesù in questo stesso vangelo, che proprio questi dotti, questi scribi, questi dottori della legge, legano dei pesanti fardelli sulle spalle delle persone. Sono le dottrine che si accumulano, e per questo sono stanchi ed oppressi,
e dice: “e io vi darò ristoro”, il termine adoperato dall’evangelista significa far riposare, cessare dalla fatica, recuperare il fiato, potremmo dire: io sarò il vostro respiro. E poi, ecco la sfida di Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi”, il gioco lo sappiamo, era quell’attrezzo che si metteva sopra i buoi per guidarli nel campo, ed era immagine della legge. La legge, la legge di Mosè, era diventata un giogo, ma un giogo pesante. Allora Gesù invita a fare una sostituzione: lasciate stare il giogo della legge, il credente non è più colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore”, non sta parlando Gesù di imitare il suo carattere, impossibile, ma la sua scelta sociale. I “miti”, in quel tempo, il termine indica i diseredati, il termine “umile” in greco è tapino, cioè mettetevi dalla parte degli ultimi, dalla parte degli emarginati, dalla parte degli invisibili, lì c’è la mia presenza. E infatti dice: “troverete ristoro per la vostra vita”, questa è una citazione del libro della Sapienza, che ristora le persone. E conclude Gesù: “Il mio giogo”, quindi l’accettazione dell’imitazione dell’amore del Padre, questo è il giogo, “è dolce e il mio peso leggero»”, non ci sono più pesi da portare, che schiacciano le persone come denuncerà poi San Pietro nel concilio – dice : “perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo, ed è stato il fallimento, che né i nostri padri , né noi siamo stati in grado di portare? Quindi l’osservanza della legge non ha permesso la comunione con il Padre, l’accoglienza, l’amore, la pratica del suo amore, sì.




Dio non si manifesta solo nell’amore eterosessuale ma in tutto ciò che è vero amore

La relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa al plurale . Nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.

una riflessione della pastora valdese Lidia Maggi:Lidia Maggi

Che cosa distingue il legame che unisce una coppia sposata da una che sceglie di convivere? Oltre al rapporto giuridico che tutela l’una invece dell’altra, confesso che, qualche volta, fatico a cogliere la differenza sostanziale nella qualità della relazione, soprattutto sui lunghi tempi.

E’ la mancanza del contratto matrimoniale a rendere meno sacro quel legame? La convivenza è una forma di amore di seconda scelta?

Ho incontrato coppie di sposi e di conviventi che vivono il loro rapporto d’amore nella dedizione più profonda. Difficile distinguere. E se non sono in grado di comprendere appieno la differenza del legame, come spiegarla a chi legge e, soprattutto, alle generazioni future, ai miei stessi figli?

Non sono la persona giusta per fare un’apologia del matrimonio, nonostante sia ministro di una chiesa. Un tempo non la pensavo così, ero convinta che, attraverso quel rito celebrato davanti a Dio e alla comunità riunita, si stabilisse un legame unico, irripetibile, che nessuna altra forma di unione poteva eguagliare. Sentivo la differenza tra sposati e conviventi non solo legata all’aspetto giuridico dell’unione.

La vita e l’esperienza mi hanno resa più cauta nei facili distinguo. Mi capita di sposare giovani coppie, di accompagnarle nella preparazione alla celebrazione, così come ascolto fatiche e gioie di coppie che non sono legalmente sposate.

L’amore è amore

E’ proprio nell’ascolto delle storie più diverse che inizio a maturare la convinzione che l’amore è amore, che ci piaccia o no, anche se questo si esprime in una modalità diversa da quella convenzionale. Questo significa pure che può essere considerato vero amore anche quello che unisce due persone dello stesso sesso, l’amore omosessuale.

Mi rendo conto che rifletto su questo tema leggendo la realtà con le mie lenti protestanti: nelle chiese luterane e riformate il matrimonio non è un sacramento. Ciò non significa che non sia sacro l’amore che unisce due persone. Sacra è infatti la relazione, perché questa è metafora del legame che unisce Dio all’umanità.

Il Dio biblico si rivela come un TU che chiama, che si lega ad una storia particolare. E’ sempre il Dio di qualcuno: il Dio di Abramo e di Sara, di Isacco e di Rebecca, di Giacobbe e di Lia e Rachele, il Dio di Gesù: il mio e il tuo Dio. Il rapporto con Dio può essere molto intimo, ma non può mai diventare fusionale, altrimenti Dio si riduce a un idolo.

Dio è l’Altro che cammina con l’umanità senza (con)fondersi in essa. Questo gioco di intimità e alterità noi lo conosciamo in modo particolare nella relazione affettiva.

Il sacramento dell’amore

In questo senso la relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa “al plurale”. Il “singolare” della scelta matrimoniale finora è stato difeso in quanto scelta definitiva, legame indissolubile. Ma nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.

Non sono una sociologa; ma dal mio limitato osservatorio pastorale vedo che la tenuta del legame di coppia, come pure la sua rottura, si verifica sia per gli sposati che per i conviventi.

La definitività non appare più prerogativa esclusiva del matrimonio. Si dice anche che solo il matrimonio sarebbe in grado di esprimere il risvolto pubblico della scelta di coppia, non relegandolo a faccenda privata. Il problema è reale e, a mio giudizio, va inquadrato nella questione di più ampio respiro che oggi non abbiamo più momenti simbolici che dicano i passaggi decisivi dell’esistenza.

Sono venuti meno nella nostra società i cosiddetti riti di iniziazione. Ma anche in questo caso, non è detto che il matrimonio sia in grado di assolvere a questa funzione. O meglio, che sia l’unico modo per esprimere il momento pubblico della vita di coppia.

Chissà se le chiese, in futuro, saranno in grado di proporre un gesto che conferisca senso “iniziatico” e valore pubblico alla relazione amorosa della coppia, non necessariamente col linguaggio giuridico del “io prendo te, io mi impegno per sempre”, ma anche con quello differente del “io inizio con te un cammino”.

Dai frutti vi riconosceranno

In fondo, anche per le coppie vale il doppio sguardo che i credenti accendono sull’esperienza della fede cristiana. Ovvero: osservandola dalle “radici” oppure dai “frutti”.

Se finora la preoccupazione delle chiese si è concentrata sulle radici, sul porre un gesto pubblico, ufficiale, sacramentale quale la celebrazione del matrimonio, perché non provare a guardare anche ai frutti?

Ci sono persone sposate che hanno trasformato la loro unione in una prigione eppure continuano a rimanere assieme; coppie che, invece, hanno trovato nel matrimonio il terreno fertile per far crescere la relazione d’amore. Lo stesso vale anche nelle convivenze. Ho incontrato persone che, pur non essendo legalmente sposate, non riescono a separarsi anche quando ormai la convivenza è usurata e l’antico terreno fertile dell’amore è diventato un campo di battaglia. Da questo punto di vista lo sguardo si posa sia su convivenze riuscite che su quelle malate, sia sui matrimoni di interesse che su matrimoni che tengono e testimoniano una ricca relazione affettiva.

Ogni storia d’amore è originale

Tutto ciò per affermare: le storie sono singolari e difficilmente giudicabili a priori. Alla scuola delle Scritture impariamo non il giudizio sui principi ma l’ascolto attento e non giudicante, capace di discernere ogni singola storia, evitando le semplificazioni generiche.

Su questo tema ho molto apprezzato gli interventi comparsi su queste pagine di coloro che mi hanno preceduto. Mi interpella l’acutezza di Battista Borsato che ci propone, in controtendenza, una possibile lettura positiva della convivenza come “segno dei tempi”. Egli vede in questo fenomeno la possibilità che la Chiesa si interroghi su come ha gestito la ministerialità degli sposi, considerandoli di fatto persone immature, da governare con istruzioni chiare su come gestire la sessualità, la procreazione, l’educazione dei figli.

Chi sceglie di convivere, consapevolmente o meno, si sottrae a questo controllo rivendicando totale autonomia su scelte così intime come la gestione della sessualità.

Ho trovato poi stimolante la riflessione di Luisa Malesani Benciolini sul rapporto tra matrimonio e sessualità. Le convivenze mettono a nudo le debolezze di alcuni automatismi legati all’immaginario religioso sul matrimonio, come l’indissolubilità e il sesso. Mi riconosco pienamente nelle riflessioni e nelle domande che i due articoli sollevano.

Convivenze sì, convivenze no

Ciò che più ho apprezzato di questi due autori è il tentativo di uscire fuori dai grandi modelli interpretativi del fenomeno delle convivenze per proporre i necessari distinguo e mettersi in ascolto delle singole storie.

Esiste ancora oggi una campagna negativa sulle convivenze che tende a semplificare colpevolizzando i giovani, accusati di non essere in grado di fare scelte per la vita. Tale propaganda viene arginata da chi prova a cogliere il positivo in chi convive, mettendo in luce quei cambiamenti dei modelli sociali e culturali (come l’emancipazione della donna) che hanno portato a mutamenti nella struttura familiare, fino alla necessità di parlare di famiglie al plurale.

Convivenze sì, convivenze no. Ciò che trovo stretto in questo gioco di schieramenti è che, in fondo, i modelli interpretativi affrontano la questione in modo generico, non riuscendo ad essere validi per tutti. Ogni convivenza ha una sua motivazione.

Oltre ai modelli interpretativi ci sono le singole storie.

Le crociate etiche delle chiese

In Italia, su temi etici, sulle questioni fondamentali della vita, quelle su cui dovremmo muoverci con estrema cautela, richiamando innanzitutto ad un ascolto prolungato (come recita il sottotitolo della rivista), le chiese hanno ingaggiato una battaglia sui principi, dove l’ascolto viene giudicato quale giustificazione di un pericoloso atteggiamento relativista.

Queste chiese, portatrici di una sapienza delle relazioni d’amore, secondo la quale la fede si esprime col linguaggio della relazione d’amore, rischiano di non saperla più dire. E i giovani, che non odono più un discorso sapienziale ma solo divieti e lacci, si ritrovano a staccare l’audio di fronte ad una parola giudicante, che pretende di controllare ed incasellare la relazione amorosa.

Di fatto, le chiese, preoccupate di definire lo status della coppia, di catalogarla sotto una precisa voce del registro parrocchiale, si dimostrano succubi dell’attuale clima culturale, dove tutto è messo in discussione e alle agenzie etiche religiose viene assegnato il compito di fornire punti fermi. La presunta fedeltà all’evangelo si riduce così alla reazione emotiva di fronte ad uno scenario nuovo e sfuggente.

Come cambierebbe il discorso se le chiese sapessero dire: ti ascolto, per me tu sei un volto, un nome, la tua storia è singolare; invece che preoccuparsi di iscrivere in una categoria (sposati/conviventi) le diverse storie affettive!

Guarda e ascolta: noi siamo storie!

Oggi, in Italia, assistiamo ad uno scontro ideologico sulla pelle delle coppie. Ma la Scrittura ci insegna a smarcarci da queste semplificazioni, non prive di secondi fini, e a guardare in faccia le persone. Il pastore di cui parla l’evangelo chiama per nome le sue pecore; non le divide per categorie.

L’evangelo può tornare a risuonare per le coppie solo se chi l’annuncia recupera uno sguardo non giudicante ed è capace di un ascolto prolungato. E’ lo sguardo che Gesù posa sul giovane ricco: “fissatolo lo amò”; è l’ascolto in profondità che ha segnato il dialogo con la samaritana e con i tanti che si sono sentiti interpellare da parole di vita.

Forse, alla luce di un serio riconoscimento delle forme di amore al di fuori del matrimonio, è tempo di interrogarci su come parliamo del matrimonio, di fare i conti con l’ambiguità di un “sacramento” troppo spesso celebrato da una religione civile.

Le persone oggi possono scegliere di vivere l’amore attraverso un gesto iniziale pubblico, solenne, sacramentale oppure no, perché le alternative al matrimonio esistono e sono percorribili.

Questa nuova libertà, invece di paralizzarci e allarmarci, può spingere a maturare una maggiore consapevolezza nella forza simbolica e nella pluralità delle forme espressive con cui si sceglie di accogliere e amare l’altro davanti a Dio, alla società e alla comunità riunita.

Segni che non rendono immuni dai possibili fallimenti; ma, pur nella fatica, possono dare vigore e offrirsi come memoriale, soprattutto quando le motivazioni iniziali vengono meno e l’alba di un nuovo giorno sembra troppo lontana.

tratto da “Matrimonio” (15/06/2011)




il commento al vangelo della domenica

PERCHE’ CERCATE TRA  MORTI COLUI CHE E’ VIVO? 

risorto

 

commento al vangelo della domenica di pasqua (27 marzo 2016) di p. Alberto Maggi:

maggi

Lc 24,1-12

Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti.
Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». Ed esse si ricordarono delle sue parole.
E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli. Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.
Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto.

Il capitolo 24 è il capitolo dove l’evangelista ci descrive la risurrezione di Gesù e il suo impatto con la fede dei discepoli, la loro difficoltà nel comprendere questo. Ma il capitolo 23 terminava con questa annotazione: Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Sono le donne che erano andata al sepolcro a vedere dove Gesù era stato seppellito, ma non procedono all’unzione, all’imbalsamazione di Gesù perché è già sabato. E di sabato non si può fare alcun lavoro.
L’evangelista denuncia come la comunità faccia difficoltà ad abbandonare l’antico, ancora osservano il comandamento del riposo del sabato, per aprirsi alla novità portata da Gesù. L’osservanza della legge impedisce di fare l’esperienza del Cristo risorto. Scrive l’evangelista al capitolo 24:  Il primo giorno della settimana. Questo primo giorno richiama il primo giorno della creazione. E’ una creazione nuova, dove l’uomo ha una vita che è capace di superare la morte.
Al mattino presto essi si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Appunto il giorno di sabato non erano riusciti a farlo per l’osservanza del comandamento. Trovarono che la pietra  era stata rimossa dal sepolcro. L’evangelista non specifica le modalità. E, entrati, non trovarono il corpo del Signore Gesù. E’ chiaro che non trovano il corpo del Signore Gesù perché cercano Gesù nell’unico posto dove non può stare. Gesù è il vivente, il vivificante e non può stare nel regno della morte, nel luogo dei morti.
Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini …. Questi due uomini già li abbiamo visti nell’episodio della trasfigurazione. Erano Mosè e Elia; è una tecnica dell’evangelista Luca di nominarli soltanto la prima volta che appaiono. Quindi indicano Mosè e Elia.
Presentarsi a loro in abito sfolgorante, lo stesso della trasfigurazione. Le donne impaurite tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro … E quello che adesso l’evangelista mette in bocca a questi due personaggi è una grandissima verità di fede che riguarda non solo l’esperienza del Cristo risorto, ma riguarda la vita di tutti i credenti e il loro impatto con la morte. “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” Il sepolcro è l’ultimo posto dove potevano trovare Gesù. Se si crede che la morte, non solo non interrompe, ma permette all’individuo di entrare in una condizione nuova, piena e definitiva, il sepolcro, la tomba è l’ultimo posto dove lo si può trovare.
Quando muore una persona cara, anche se doloroso, bisogna scegliere se piangerla come morta o sperimentarla come viva. Se si piange come morta si va al sepolcro, ma lì al sepolcro non c’è, bisogna sperimentarla come viva. Ecco allora il monito di questi due. “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” Non si può cercare tra i morti colui che continua a vivere.
“Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea”, e rimanda le donne, le discepole all’insegnamento di Gesù. “Dicendo che bisognava… “, questo termine in lingua greca indica la volontà di Dio, il disegno di Dio, “… che il Figlio dell’uomo”, non si parla del messia, ma del Figlio dell’uomo, cioè l’uomo che ha raggiunto la condizione, che non è una caratteristica esclusiva di Gesù, ma una possibilità per tutti coloro che lo seguono. E qui l’evangelista mette un’accusa tremenda nei confronti della casta sacerdotale al potere.
“… Per tutti  sia consegnato in mano ai peccatori”. Quando Gesù in Galilea aveva annunziato la sua morte, aveva detto: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti, dagli scribi”, cioè i componenti del sinedrio, il massimo organo giuridico di Israele, “essere messo a morte e risorgere il terzo giorno”.
Quelli che Gesù aveva indicato come i componenti ora in bocca a questi due personaggi sono i peccatori. Le persone che si ritenevano le più vicine a Dio, le più lontane dal mondo del peccato, in realtà queste sono i peccatori, perché hanno ucciso la vita, hanno agito contro la vita.
Ed esse si ricordarono delle sue parole. Ricordare nel senso di comprendere.  E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici. Non sono più dodici, il numero non sarà ricostituito. E a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, che l’evangelista ci ha presentato come la donna dalla quale sono usciti i sette demoni, Giovanna, la moglie di Cusa, esattore delle finanze di Erode, e Maria madre di Giacomo. Anche le altre che erano con loro raccontarono queste cose agli apostoli.
Ecco la reazione degli apostoli. Queste parole parvero loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Perché? Perché le donne non sono credibili come testimoni. Secondo la tradizione ebraica Dio non aveva mai parlato con nessuna donna. E’ vero, aveva parlato a una donna, Sara, ma siccome questa gli  aveva risposto con una bugia, una innocua bugia, da quel momento Dio non rivolse più la parola a nessuna donna.
E per la bugia di Sara le donne non erano ritenute testimoni credibili. Ebbene l’annuncio della risurrezione viene fatto proprio a persone che non sono credibili. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro … ha appena detto che nel luogo dei morti non ci può essere Gesù, ma Pietro ancora non comprende e corre al sepolcro.
E chinatosi vide soltanto i teli. E tornò indietro pieno di stupore per l’accaduto. Il credere che Gesù è risuscitato non viene andando a vedere un sepolcro vuoto, ma incontrando un vivente. E si incontra il vivente, e poi l’evangelista continuerà nel prossimo episodio di Emmaus, quando Gesù spezza il pane. Quando si spezza la propria vita per gli altri lì c’è la possibilità di sperimentare colui che è risorto.




il commento al vangelo della domenica

E NOI CHE COSA DOBBIAMO FARE? 

commento al vangelo della terza domenica d’avvento (13 dicembre 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi
Lc 3, 10-18
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?».
Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se nonfosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene coluiche è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà inSpirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumentonel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo
Nel vangelo della scorsa domenica l’evangelista ha presentato Giovanni che, nel deserto, annunzia un
battesimo in segno di conversione per ottenere il perdono dei peccati. E’ una sfida quella che lancia Giovanni perché il perdono veniva concesso al tempio attraverso un rito liturgico, e soprattutto attraverso l’offerta di un sacrificio da fare al Signore.Quale sarà la risposta del popolo? Lo vediamo nel vangelo di questa domenica, Leggiamo. Le folle… quindi la gente risponde a quest’invito alla conversione, la gente ha compreso che ilpeccato non può essere perdonato attraverso un rito liturgico, ma attraverso un profondo cambiamentodi vita. Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?» Ebbene, nelle risposte che Giovanni Battista dà nulla riguarda il culto, nulla riguarda Dio. Con GiovanniBattista è poi con Gesù è cambiato il concetto di peccato: da offesa a Dio a ciò che offende l’uomo. Ecco allora la risposta di Giovanni Battista alle folle:«Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha”,quindi si tratta della condivisione, “e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».Con Gesù, il Dio che si è fatto uomo, l’evangelista ci presenta il nuovo orientamento dell’umanità: nonpiù rivolta verso Dio, ma verso gli uomini. Con Gesù l’uomo non vivrà più per Dio, ma vivrà di Dio e, con lui e come lui, deve andare verso gli altri. E Dio si esprime attraverso l’amore che diventa generosacondivisione. Poi c’è una sorpresa qui. Vennero anche dei pubblicani. I pubblicani che ci vanno a fare? Loro erano considerati i paria dellasocietà, senza diritti civili, erano gli esattori del dazio, considerati e marchiati in maniera indelebile conl’impurità. Per loro non c’era alcuna speranza di salvezza. Ebbene abbiamo visto nel vangelo della scorsa domenica che la salvezza di Dio è annunziata per ogni uomo, anche per gli esclusi, anche per gliemarginati, anche per i condannati. Ebbene, anche questi vanno a farsi battezzare . Ma questi con timidezza chiedono: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?»,tradotto letteralmente “E noi che facciamo?” Si sentono quasi intimiditi di fronte al profeta di Dio. Ebbene anche per loro c’è una speranza di salvezza. Stranamente Giovanni Battista nondice: “Smettetela con questo mestiere che vi rende impuri”, dice: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».Possono continuare a svolgere un’attività che la religione considera immorale se la vivono normalmente, senza pretendere di più. E questa è una grande sorpresa. Ma le sorprese non sono finite. Dopo gli esclusi che chiedono anche loro il battesimo si avvicinano anche i pagani (per i pagani, come per i pubblicani non c’era speranza di salvezza). Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Ecco la parola di Dio è rivolta a tutti quanti, anche perle categorie per le quali non c’era speranza.  Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete (cioè prendere il denaro con violenza, con ricatto) niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Cioè è un invito ad evitare l’ingiustizia, i saccheggi, le rapine di cui erano soliti macchiarsi i soldati. Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo … c’era l’attesa del messia, il grande liberatore, e pensano di identificarlo in questo Giovanni.  ebbene Giovanni chiarisce che non è lui il messia. Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua, quindi vi aiuto a fare un cambiamento di vita, ma poi colui che vi darà la forza per vivere questa vita non sono io. E qui l’evangelista adopera un linguaggio che si rifà all’istituto matrimoniale del tempo, che va spiegato. “Ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali”. Cosa significa questo? A quel tempo esisteva la legge de levirato. In cosa consiste? Quando una donna rimaneva vedova senza un figlio il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta. Il bambino che sarebbe nato avrebbe portato il nome del defunto. Era una maniera per perpetuare il nome della persona morta.      
Quando il cognato si rifiutava prendeva il suo posto colui che nella scala sociale e giuridica veniva dopo di lui, e si procedeva ad una cerimonia dello scalzamento, scioglieva i legacci dei sandali dell’avente diritto, li prendeva, ci sputava sopra, ed era un gesto simbolico con il quale si diceva: “il tuo diritto di mettere incinta questa donna vedova passa a me”.
Allora l’evangelista qui sta dicendo, e non è una semplice lezione di umiltà da parte di Giovanni Battista: “colui che deve fecondare questo popolo, considerato una vedova senza più rapporto con Dio, non sono io, ma colui che deve venire”. Infatti, aggiunge Giovanni, “Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. L’azione di Gesù non sarà quelladi mettere le persone in un battesimo d’acqua, un liquido che è esterno all’uomo, ma di impregnarli della stessa forza dell’amore divino. Il fuoco era il castigo per chi meritava di essere castigato dal Signore. Ma Gesù poi quando riferirà quest’annunzio di Giovanni Battista, ometterà il fuoco. In Gesù c’è soltanto amore per tutti e non c’è castigo. “Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Ecco qui Giovanni Battista presenta il messia secondo la tradizione di
un Dio che premia i buoni e castiga i malvagi. Lo stesso Giovanni Battista più avanti andrà in crisi perché Gesù presenterà un Dio che è semplicemente amore e offre il suo amore a tutti quanti, un Dio che non premia e non castiga i malvagi, ma a tutti, indipendentemente dal loro comportamento, offre continuamente il suo amore. Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo. E’ l’annunzio della buona notizia, una buona notizia che poi Gesù porterà a compimento ma sarà talmente grande che manderà in crisi lo stesso Giovanni che pure l’aveva riconosciuto come messia, che dal carcere gli manderà un avviso molto severo: “Sei tu quello che doveva venire o ne dobbiamo aspettare un altro” La novità dell’amore di Dio, la potenza di questo amore, è talmente grande che sconvolge anche unapersona come Giovanni Battista, anche tutti coloro che immaginavano un Dio
 
 

 




uno ‘sguardo’ alternativo sui migranti che diventano maestri …

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Lidia Maggi

Lidia Maggi

 la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di quanti sono stati costretti a viaggiare in cerca di un futuro. Accogliere i migranti oggi è un atto di solidarietà ma anche una necessità teologica

il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò» (Genesi 12, 1)

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele. E ora io porto le primizie dei frutti della terra che tu, o Signore, mi hai data!» (Deuteronomio 26, 5-10)
Di che cosa abbiamo bisogno per comprendere la Bibbia? Ho provato a porre questa semplice domanda alla mia comunità. Le risposte ricevute oscillano da ingredienti spirituali, come la fede e l’amore, a strumenti più concreti come un traduttore, qualcuno che la spieghi, ecc. Tutti elementi utili, alcuni indispensabili.
Oggi, tuttavia, vorrei soffermarmi su una categoria di persone che, nella chiesa, è chiamata ad aiutare i credenti a comprendere meglio la Parola. Parlo dei dottori che Paolo, nella chiesa, nomina al terzo posto, dopo gli apostoli e i profeti (I Cor. 12, 28). Ma che cosa c’entrano i dottori con il cammino, la via? Per intuire il legame che intercorre tra i dottori della chiesa e la fede come viaggio è necessaria un’altra uscita, dal momento che abbiamo trasformato la figura dei dottori in persone erudite e piene di titoli di studio. È evidente che, per comprendere la Bibbia, occorrano persone preparate, se non altro perché la Parola di Dio si consegna come testo scritto, letterario. Mi chiedo, tuttavia, se Paolo, parlando di dottori, pensasse ai nostri teologi preparati nelle università o nei seminari. Per non cadere in anacronismi interpretativi, occorre che ogni generazione si interroghi su chi siano, oggi, i profeti della chiesa e i suoi dottori.
Forse uno dei criteri di discernimento per identificare il senso del carisma del dottore può essere ricercato nella capacità di saper aiutare chi crede, o chi cerca di credere, a cambiare prospettiva, a modificare il proprio sguardo per provare a vedere il mondo dal punto di vista della narrazione biblica. I dottori sono coloro che ci sollecitano a comprendere che il nostro punto di vista non coincide con quello della Bibbia; e non soltanto perché viviamo una distanza cronologica e geografica con un testo composto nell’arco di differenti secoli in una regione del mondo che non abitiamo. Piuttosto, perché la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di coloro che sono costretti a lasciare la propria terra per le ragioni più diverse: carestie, persecuzioni, una chiamata, una cacciata…
La storia biblica non è solo la vicenda di un popolo migrante, ma è soprattutto la storia raccontata dal punto di vista dei migranti.
Un migrante non lascia la propria terra per turismo, per curiosità, ma per ricercare una vita vivibile. Nella saga di Giuseppe, Giacobbe dice ai suoi figli in piena carestia: «Perché state a guardarvi l’un l’altro? Ho sentito dire che c’è grano in Egitto, scendete là a comprarne, così vivremo e non moriremo» (Gen. 42, 1-2). L’immobilismo porta alla morte; mettersi in viaggio apre a possibilità di vita. Il migrante affronta il rischio del viaggio alla ricerca di una nuova possibilità, quando tutte le vie gli appaiono sbarrate. A volte è meglio affrontare il deserto, piuttosto che rimanere su una terra dove i propri figli sono condannati a morte e il lavoro è solo schiavitù.
Non è anche di questo che parla l’evento fondatore della storia di Israele, l’esodo? Fuggire dal genocidio, dalla schiavitù, per sottrarsi alla persecuzione. Meglio il deserto, che una terra apparentemente ricca ma segnata da un governo ingiusto.
La Bibbia, in quanto storia di migranti, affronta tutte le questioni che i migranti ancora oggi affrontano, quando arrivano in una nuova terra. A iniziare dalla lingua. La Bibbia è uno strano testo, composto da una miscellanea di lingue: ebraico, aramaico, greco. Noi non ci poniamo il problema della traduzione solo per rendere fruibile questo libro a chiunque voglia leggerlo. La questione è presente nel testo stesso. Come mai le parole di Gesù, che parla in aramaico, un dialetto ebraico, vengono riportate dai suoi testimoni in greco, ovvero tradotte in una lingua straniera? Al di là della risposta tecnica, mi interessa qui segnalare che, nello stesso testo biblico, esiste un passaggio da una lingua a un’altra. Tema che non affronta una cultura stanziale. Chi nasce, vive e muore nello stesso posto, non si trova sollecitato a dover ricercare una mediazione linguistica che, invece, è di vitale importanza per tutti coloro che emigrano. Il migrante deve imparare la lingua del posto, oltre ai diversi usi e costumi. Si trova di continuo a dover definire i propri confini culturali, tra desiderio di integrazione (come Israele in Egitto, ai tempi di Giuseppe), scelta del nascondimento (come la regina Ester, che non rivela la sua identità religiosa e culturale) o differenziazione (come Israele al tempo di Mosè: «Lascia andare il mio popolo!» – come nella vicenda di Daniele e dei suoi amici, alla corte di Babilonia, che rifiutano di nutrirsi con il cibo regale). Tutto il libro del Levitico, pur presentando leggi arcaiche a noi perlopiù incomprensibili, può essere percorso con questa categoria: la necessità di un popolo, in una terra abitata da altri popoli, di differenziare la propria identità – un po’ come succede al protestantesimo in Italia che, sentendosi accerchiato da un contesto culturale a maggioranza cattolico, differenzia se stesso definendo la propria fede in contrapposizione all’altro. Una medesima strategia connota il Levitico, il libro della santità, della separazione: persino questo testo lo si comprende differentemente, se lo si considera un codice di migranti, preoccupati di perdere la propria memoria culturale.
È dal punto di vista del migrante che è raccontata la vicenda della terra promessa, poiché quel territorio è già occupato da altra gente, non è libero, vuoto. Questo genera conflitti, tensioni, che devono essere affrontati per tentare una convivenza non sempre facile.
Il Dio biblico è il Dio dei migranti. Li chiama a uscire, a lasciare la propria terra (Abramo), li forza a scappare da una situazione di morte (l’esodo) e si mette in viaggio con loro (i patriarchi e le matriarche, ma anche con il popolo in esilio, a Babilonia). Il protagonista divino si sente più a proprio agio in case precarie, nelle tende dei beduini, che nelle mura del tempio. È quanto intuisce il saggio Salomone, per quanto sia proprio lui a costruire un tempio per Dio: «Ma è pro- prio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita!» (I Re 8, 27).
Per comprendere questo Dio e la sua Parola, narrata dalla prospettiva dei migranti, abbiamo bisogno di metterci in viaggio, di diventare a nostra volta migranti; oppure abbiamo bisogno di dottori, uomini e donne che ci aiutino a leggere la realtà dalla prospettiva degli stranieri. I dottori della chiesa sono oggi proprio i migranti che con la loro stessa esistenza preservano la memoria dello sguardo biblico. Accoglierli tra noi non è solo un atto di solidarietà, ma una necessità teologica: abbiamo bisogno del loro magistero!
Noi che rischiamo di farci un’idea del mettersi in cammino sui tapis roulants delle nostre chiese statiche, abbiamo bisogno di chi ha sperimentato realmente che cosa significhi essere dislocato, come i nostri padri, aramei erranti (Deut. 26, 5), come Gesù che non aveva dove posare il capo (Mt. 8, 20).
da Riforma n. 38 del 9 ottobre 2015