solo l’inclusione sociale riuscirà a sconfiggere l’Isis

Bauman

che errore sovrapporre
il terrorismo all’immigrazione

lo studioso e filosofo polacco spiega che le prime armi dell’Occidente per sconfiggere Isis sono inclusione sociale e integrazione

«Solo la società nel suo insieme può farlo»

di Maria Serena Natale

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Professor Bauman, nel dibattito europeo terrorismo e immigrazione si sovrappongono in una distorsione ottica che fa il gioco dei populisti e ostacola la percezione dei profughi come «vittime». Un meccanismo che sposta il discorso sul piano della sicurezza e legittima i governi a sbarrare le porte, come ha annunciato Varsavia subito dopo gli attentati di Bruxelles. Quali sono i rischi di questa operazione?

«Identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale, subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro. Questo rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso. Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini».

Mantenere una connessione vitale tra «società ospite» e immigrati è sempre più difficile in questo clima di sospetto reciproco. In Paesi che si scoprono inermi, come oggi il Belgio, è saltato il patto sociale sul quale si fondava la speranza dell’integrazione? 

«Dal punto di vista dei terroristi, quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più forti sono le possibilità di reclutamento. Se cade del tutto la prospettiva di una comunicazione trans-culturale e di un’interazione autentica tra etnie e religioni, si riduce al minimo anche la possibilità di un incontro diretto, del “faccia a faccia” con l’altro, di una reciproca comprensione. A questo si aggiunge la stigmatizzazione di interi gruppi in base a caratteristiche ritenute non sradicabili che li rendono diversi da “noi, i normali”. Ne consegue l’alienazione forzata di persone marchiate come anomale, bandite dal consesso al quale, apertamente o nella profondità dei loro cuori, vorrebbero aderire ma dal quale sono state ostracizzate senza diritto al ritorno, dopo essere state per di più costrette ad accettare il comune verdetto sulla loro inferiorità. Come se fossero loro a non aver saputo raggiungere lo standard richiesto per entrare nel club. Chi viene così stigmatizzato subisce un doloroso colpo al rispetto di sé, che porta senso di colpa e umiliazione. Lo stigma può essere anche percepito come un oltraggio immeritato, che richiede e giustifica una vendetta tanto forte da ribaltare il giudizio della società e re-impossessarsi del rispetto rubato».

Come ristabilire il contatto con questa parte della comunità, cosa può fare la politica?

«I governi non hanno interesse a placare le paure dei cittadini, piuttosto alimentano l’ansia che deriva dall’incertezza del futuro spostando la fonte d’angoscia dai problemi che non sanno risolvere a quelli con soluzioni più “mediatiche”. Nel primo genere rientrano elementi cruciali della condizione umana come lavoro dignitoso e stabilità della posizione sociale. Nel secondo, la lotta al terrore. Non c’è dubbio sul ruolo che la comunità musulmana deve giocare per combattere la radicalizzazione, dobbiamo comprendere però che solo la società nel suo insieme può sradicare la minaccia comune. Le prime armi dell’Occidente nella lotta contro il terrorismo sono inclusione sociale e integrazione».




tempi brutti per il pacifismo

 

 pacifismo

facile bersaglio


NONVIOLENZA
 

presidente nazionale del Movimento Nonviolento

Valpiana

uno degli effetti collaterali dell’allarme terrorismo, è certamente la bocciatura definitiva del pacifismo da parte di una fetta consistente dell’opinione pubblica. Se ne è fatto portavoce l’editorialista Antonio Polito: con i terroristi non si può dialogare, ci vogliono le armi.
non voglio fare il difensore d’ufficio, poiché è del tutto evidente che un certo pacifismo che si limita a sventolare bandiere arcobaleno e a convocare marce periodiche, rituali, sempre uguali a se stesse, è del tutto superato. Lo abbiamo detto noi stessi già qualche decennio fa, a partire da un convegno dal titolo esplicativo “Crescere dal pacifismo alla nonviolenza” .
che differenza c’è tra pacifismo e nonviolenza? La stessa che c’è tra chi ha paura di morire, e chi ha paura di uccidere: volere la pace (nel senso di voler essere lasciati in pace), o cercare la pace (nel senso di costruirla insieme agli altri). Il dibattito non è nuovo. Lo affrontarono già Gandhi, che distingueva tra nonviolenza del debole e nonviolenza del forte, e Aldo Capitini, che differenziava il “pacifismo relativo” dal “pacifismo integrale”. La nonviolenza dunque è una forza costruttiva per opporsi alla distruttività della guerra.

Il centro di questa discussione sta proprio nei due termini “guerra” e “forza”. Essere contro la guerra non significa escludere la forza. Infatti, la nonviolenza si basa proprio sull’uso della forza per combattere la violenza: la verità contro la menzogna, la legge dell’amore contro la legge della giungla. Se la nonviolenza assoluta non è ancora possibile, diceva Gandhi, cerchiamo almeno di raggiungere il minor grado possibile di violenza; e faceva l’esempio, attualissimo, di un cecchino che spara sulla folla. Per fermarlo (se necessario, abbatterlo) bisogna usare una forza che servirà ad evitare una violenza maggiore.

La nonviolenza insiste su due punti chiave: la correlazione tra mezzi e fini e l’efficacia dell’azione. Nel caso dei bombardamenti in Siria non si realizza nessuna delle due condizioni. Le bombe non fermano Daesh (anzi enfatizzano il fanatismo dello Stato Islamico) e colpiscono anche la popolazione civile innocente. La prova è nei fatti: dall’inizio della guerra con l’intervento in Iraq nel 2003, il terrorismo internazionale è aumentato. Perciò il mezzo-guerra non ottiene il fine-pace, e dunque non è efficace.

Le vicende in atto, quanto accaduto in Iraq, in Libia, e ora in Siria con l’avanzata di Isis, sono ben più complesse di un manicheo “o con le bombe o con i terroristi”. Certo, la neutralità o l’ignavia in questo caso sarebbero peccati di omissione, perché lascerebbero popolazioni intere come gli yazidi o i curdi alla mercé dell’esercito di un criminale come il sedicente Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, e dunque bisogna intervenire. Ma bisogna intervenire con strumenti che possano davvero fermare gli assassini, senza creare nuovi assassini.

La domanda di oggi è: bombardare Raqqa in Siria, serve a fermare i terroristi che tengono in scacco Parigi in Europa? La risposta è no. Da nonviolento, invece, sono favorevole ai bombardamenti sui pozzi di petrolio nei territori conquistati da Daesh, per tranciare la fonte di finanziamento del terrorismo: un sabotaggio. Non sarebbe una guerra, ma un’operazione militare, da fare sotto egida Onu, mirata a danneggiare economicamente i fuori legge, senza mirare a stroncare vite umane innocenti. Eppure in questi anni si è scelta una strategia diversa, con i bombardamenti sulle città. E nonostante tutta la potenza di fuoco a disposizione (America, Russia, Europa insieme) non si riesce a farla finita con qualche decina di migliaia di tagliagole. Come mai?

La convulsione storica che stiamo vivendo non è scoppiata improvvisamente, come un terremoto, ma è cresciuta per decenni, nei quali nulla si è fatto per evitarne l’esplosione, né per preparare una valida alternativa. È come trovarsi davanti ad un incendio devastatore senza aver mai fatto prevenzione e senza avere in mano neppure un secchio d’acqua per spegnerlo. Che si potrebbe fare? Nulla. Oggi le proposte della nonviolenza sembrano solo teoriche, perché per anni, per decenni, non hanno ottenuto nessun credito. Tutte le energie, tutti i finanziamenti, tutta la politica è stata indirizzata a preparare esclusivamente la macchina bellica, che infatti oggi è pronta e aggressiva, con portaerei, bombe, truppe, elicotteri, carri armati; tutto ben organizzato, costruito e finanziato in anni e anni. Ma non funziona! E dopo aver speso migliaia di miliardi nell’apparato tecnico-scientifico-militare e non aver mai investito nemmeno un euro nella preparazione nonviolenta, come si può chiedere agli amici della nonviolenza una possibile soluzione della tragedia in corso?

Come nonviolenti sappiamo ben vedere la differenza che c’è tra la guerra e un intervento armato, tra l’esercito e la polizia. Da anni siamo impegnati nella ricerca per la soluzione nonviolenta dei conflitti, sosteniamo il Tribunale Internazionale davanti al quale bisogna portare Bush, Blair e al-Baghdadi per crimini contro l’umanità, lavoriamo per l’istituzione di Corpi Civili di Pace, chiediamo di investire in intelligence, in diplomazia e favoriamo processi di pacificazione, riconciliazione, convivenza. Da sempre vogliamo la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione della Polizia Internazionale, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l’aggressore. Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, lavoriamo contro la preparazione della guerra, che è una forma di terrorismo su larga scala, per bloccare il commercio di armi e smantellare gli arsenali. È un lavoro, indispensabile e ineludibile, di prevenzione.




guerra di civiltà? no, di religione! Il dolore e l’emozione per quello che è successo a Parigi non giustificano l’orgia militarista

Europa vs. Islam

una guerra di religione

Sun Tzu, stratega cinese, vissuto tra il VI o V secolo avanti Cristo, sosteneva che la guerra è l’ultima risorsa di uno statista e la battaglia l’ultima risorsa di un comandante. Queste parole tornano alla mente quando si pensa al crescendo di appelli alle armi che risuonano a Parigi, a Bruxelles come a Londra. Quello che si vuole da tante parti non è neanche più uno scontro di civiltà alla Huntington.
È una guerra di religione, contro l’Isis o Daesh, ma anche contro l’Islam, contro gli immigrati, contro tutti i fantasmi o gli incubi che assillano un’Europa impaurita e paranoica.

 

Certo, gli accenti sono diversi. Si va dai fanatici dei diritti umani, nostalgici della guerra lampo del Kosovo, a quelli che vedono nell’Islam una volontà millenaria di rivalsa contro l’occidente cristiano, agli opinionisti “ragionevoli” che esigono dai musulmani che “escano allo scoperto” e “si pronuncino contro il terrorismo”, ai simpatizzanti di Netanyahu, che mettono nello stesso sacco Isis e resistenza palestinese, ecc.. Ma l’idea di fondo è che si faccia una bella coalizione di tutti contro l’Isis, che lo si polverizzi, magari insieme ai civili di Raqqa tra cui si nasconde, e poi… E poi?

dallago

Sembra che venticinque anni ininterrotti di guerre dell’Occidente nei paesi arabi e/o musulmani non abbiano insegnato nulla. Che cioè i bombardamenti non fanno un gran male ai militanti e agli armati, ma prostrano le popolazioni e creano le condizioni per future insurrezioni, fanatismi e reti terroristiche. Così è stato in Iraq nel 1991, in Afghanistan, di nuovo in Iraq, in Libia e oggi in Siria. Se si considerano i risultati politici, e non la mera contabilità militare di morti nostri e morti loro (per non parlare delle vittime civili che pagano sempre il prezzo più alto), tutte le guerre occidentali sono finite con sconfitte, con immani spargimenti di sangue dopo i quali Usa, Inghilterra, Francia e così via sono più deboli di prima. Se oggi l’Isis è contenuto in Siria è grazie ai curdi, come in Iraq grazie alle milizie sciite e iraniane. Ma se anche qualche stato occidentale volesse mettere i boots on the ground, e cioè mandare le forze di terra, non cambierebbe nulla. L’esercito americano, il più potente al mondo, si è dovuto ritirare, di fatto, sia dall’Afghanistan, sia dall’Iraq Quanto alla Francia, la sua vittoria in Mali non è servita a granché, se la guerriglia può attaccare di sorpresa Bamako.

Il punto decisivo della questione è che se gli altri, i cattivi, i terroristi, sono disposti preventivamente a morire, a farsi uccidere per qualsiasi motivo e cioè a non sopravvivere, quando uccidono noi, ebbene, in un certo senso hanno già vinto. Questo Obama l’ha perfettamente compreso, diversamente dai fanatici neo-con che hanno contribuito a creare tutto questo invadendo l’Iraq nel 2003. Ma se persino Tony Blair, oggi, sente il bisogno di chiedere scusa per quella guerra, così stupida per lui e così letale per centinaia di migliaia di iracheni!

Il dolore e l’emozione per quello che è successo a Parigi non giustificano l’orgia militarista, in Francia come da noi, con cui si vorrebbe rispondere al terrorismo. Invece di ragionare, di riflettere sul groviglio di ragioni che hanno portato a tutto questo, e cioè sul fatto che giovani europei si trasformano in alleati dell’Isis in nome della religione, si preferisce evocare il nemico assoluto, tirar fuori argomenti da prima crociata, eccitare un’opinione pubblica già scossa per conto suo.

Probabilmente, il terrorismo ci accompagnerà per molto tempo. Bastano poche centinaia di aspiranti martiri in Europa, cresciuti nelle banlieue più derelitte, frustrati dalla marginalità e magari fanatizzati da predicatori retrogradi a compiere azioni come quelle di Parigi. Al di là del lavoro di intelligence, che nel caso francese presenta ampie zone di opacità, il terrorismo si può contrastare con un lavoro di educazione civile e politica di lungo periodo e rimuovendo le cause della frustrazione e dell’odio. Un lavoro lungo che non darà, ammesso che lo si voglia cominciare, risultati nel breve periodo. E si potrà contrastare, soprattutto, rinunciando alle tentazioni neo-colonialiste che si manifestano nella difesa dei diritti umani a suon di bombe.




inno da brividi! … ma anche i nostri non brillano per gentilezza!

l’inno dell’Isis con sottotitoli in italiano
“da te verremo con scempio e morte”

 


la bandiera dello stato islamico

la bandiera dello stato islamico

è all’attenzione dell’intelligence un video con un “inno” dell’Isis sottotitolato in italiano, in cui si minacciano sgozzamenti e “punizioni” varie, che circola sui canali web frequentati dagli estremisti islamici. “Presto, presto” è il titolo della canzone, scovata su internet dal sito Wikilao, che inizia con: “Presto… presto rimarrete sorpresi, come un fulmine a ciel sereno vedrete le battaglie sorgere sulle vostre terre”. Altre frasi cantate recitano: “Mi hai dichiarato guerra con l’alleanza della miscredenza, goditi dunque la mia punizione”; “più a lungo persisterai a combattere, più soffrirai”. Il brano prosegue poi con un’escalation di minacce: “Da te verremo con scempio e morte”, “noi di sangue le ampie strade ricopriamo grazie ai coltelli affilati che tranciano le gole ai cani in raduno quando si ammassano”.

A diffondere la canzone è il Centro Ajnad, che fa riferimento al sedicente Stato islamico.

Isis, l’inno tradotto in italiano: “Più combatterai, più soffrirai”

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L’ultimo contenuto pubblicato in internet dall’Isis è un video che in realtà contiene una canzone che inneggia alla violenza di massa nei piani futuri del gruppo terroristico. la scoperta è stata fatta dal sito Wikilao, che ha diffuso immediatamente la notizia ed il video è passato alle mani dell’intelligence e dell’antiterrorismo italiani. Le immagini sono accompagnate da frasi altrettanto forti e di grande carattere minatorio, rivolte agli internauti più sensibili a questo tipo d’intimidazioni. “Presto… presto rimarrete sorpresi! Come un fulmine a ciel sereno vedrete le battaglie sorgere sulle vostre terre”: così canta l’esordio dell’inno, auspicando sventura e morte ai nemici del Califfato autoproclamato. Poi, un’invocazione alla guerra ed ai propositi che ne sostengono le gesta:”Affidiamo ai coltelli il compito di sventrare e sgozzare”, si legge, “che magnifico farlo attraverso un coltello assetato di vendetta!” Tra i bersagli del messaggio, anche i soggetti maggiormente suscettibili al terrorismo mediatico, che si basa proprio sul panico che semplici informazioni (per quanto ipotetiche) possono scatenare e diffondere in tutta la popolazione a partire dalle preoccupazioni di un sono individuo. Si tratta, peraltro, di minacce che l’Isis ha rivolto ad altri bersagli, ma che possono incutere negli internauti lo stesso terrore che i nostri stessi media hanno già in parte diffuso.




l’Isis non ha l’esclusiva della ‘teologia del terrore’

Isis e Occidente

 la teologia del terrore


di Michele Martelli  (in Micromega)

«Siamo in guerra», dice Hollande. Ma lo siamo già da 15, anzi da 25 anni. Dalle due Guerre di Bush padre e figlio contro l’Iraq, – che sono state la prima causa dell’attuale disordine mondiale che ha il suo epicentro nel Medio Oriente, – alla guerra in Afghanistan. Dalla guerra della Nato nella ex-Jugoslavia a quelle euro-statunitensi contro la Libia (con la Francia di Sarkozy in pole position). Guerre di aggressione in cui a fianco degli Usa si sono schierate ossequienti tutte le sub-potenze europee, a cominciare dall’Uk del tardivamente e inutilmente pentito Tony Blair (troppo comodo, dopo 15 anni di difesa in prima linea delle «guerre etiche»!). Tutte fatte e giustificate, direttamente o indirettamente, con argomenti teologico-politici, e cioè in nome di Dio, del Bene contro il Male, della Giustizia contro il Crimine.  

Ora è Hollande, capo di un paese colpito al cuore dal terrorismo islamista, a chiamare a raccolta cielo e terra in una doppia guerra, interna ed esterna, contro l’Isis. Le sue parole e le sue scelte (stato d’eccezione con modifica della Costituzione, guerra vendicatrice e punitrice del Califfato) si inquadrano nella stessa cornice teologico-politica delle Guerre bushiane ispirate e protette dal «Dio che bacia l’America».

Per Hollande ora il «Nemico» assoluto da distruggere e annientare, dentro e fuori della Francia, è l’Isis, col suo spaventoso corredo di bande terroriste disseminate in Europa. Nessuna sorpresa che in tale clima riprendano fiato le trombe apocalittiche dei teocon, del fallaciano «scontro di civiltà», dell’«armiamoci» a difesa dell’Occidente «cristiano» contro l’Islam confuso col Jihadismo. E che? La patria dell’Illuminismo rischia di degenerare nella patria dell’oscurantismo? Si torna a Poitiers, a Lepanto, o a Carlo Magno e al «Sacro Romano Impero», come Al Baghdadi all’antico Califfato?

Suvvia, non scherziamo! Cerchiamo piuttosto di riflettere seriamente sul dramma presente. A cominciare dal terrorismo islamista. Quando è nato? La storia non si fa con i «se», ma i «se» aiutano a capirla, per non cadere negli stessi errori. Non è difficile ammettere (lo fanno oramai anche dirigenti e generali americani) che senza le due Guerre di Bush padre e figlio, che hanno sprofondato l’Iraq e l’intero Medio Oriente nella notte di un’orrenda infinita carneficina tra sunniti e sciiti: finora solo in Iraq un milione circa di morti civili, – probabilmente non sarebbe nata né Al-Qaeda né l’Isis.

E non ci sarebbe stato forse né l’evento tragico delle Torri Gemelle, né la catena di attentati islamisti che, come conseguenza e contraccolpo a quelle due Guerre scellerate, hanno poi insanguinato sia il Medio Oriente sia l’Europa, fino al recente ignobile massacro di Charlie Hebdo e all’orrenda strage del Venerdì nero di Parigi.

È noto che la «formazione» jihadista di Osama bin Laden e della futura Al-Qaeda è avvenuta tra i mujaheddin armati dagli Usa contro gli occupanti russi, durante la lunga guerra in Afghanistan. Similmente, quella del futuro califfo Al Baghdadi e di molti dei suoi seguaci si è svolta nelle carceri irachene costruite dagli Usa, alla scuola di altri detenuti, militanti al-qaedisti ed ex- militari di Saddam Hussein). «L’Isis l’abbiamo creato noi», ha rivelato Hilary Clinton. L’Isis, il mostro che con i suoi tentacoli, le cellule terroriste clandestine, si è infiltrato terribilmente minaccioso anche nelle nostre città. Vien da chiedersi se chi crea il mostro non lo crea a propria immagine e somiglianza.

Fatto sta che dalle Guerre bushiane in poi, nei paesi islamici e poi in quelli europei, massacri si sono susseguiti e contrapposti a massacri. Da una parte e dall’altra. E da ambedue le parti giustificati col Dio del Terrore, o col Terrore di Dio.

Papa Bergoglio ha detto: «Chi usa Dio per uccidere bestemmia». Vero! Ma è vero solo per chi usa Dio non per uccidere, ma per amare, perdonare, aiutare. Purtroppo nei testi sacri, dalla Bibbia al Corano, c’è sì un Dio dell’amore, della pietà, della misericordia, ma c’è anche un Dio dell’odio, della violenza, della guerra. Ognuno si costruisce Dio a propria immagine e somiglianza. E per ognuno il vero autentico Dio è il proprio Dio («Non avrai altro Dio all’in fuori di me!»). Quello degli altri è falso, un non-Dio, un Anti-Dio, da combattere e annientare con i suoi fedeli, incarnazione vivente del Nemico, del Male, del Diavolo. Onde si ritiene sacrosanta la folle uccisione dei miscredenti nel nome di Dio («Dio lo vuole», «Deus nobiscum»).

Una storia vecchia, che ha contraddistinto da secoli l’Occidente, nei suoi conflitti e guerre intestine come nelle conquiste coloniali. Negli ultimi decenni è stata rinverdita dagli Stati Uniti. «Empire of Evil, Impero del Male»: così definiva il cristiano Reagan la ex-Urss. «Axis of Evil»: così il cristiano Bush jr definiva i nemici degli Usa, ossia «gli Stati canaglia» di cui l’Iraq di Saddam Hussein era il primo della lista. Oggi gli ha fatto flebile eco il presidente Obama: l’Isis è «the Face of the Devil, il volto del diavolo» (dal G20 di Antyala, Turchia). Un linguaggio che sta tornando di moda tra i teocon («Bastardi islamici»: dove «bastardi» sta per figli illegittimi di un falso Dio).

Analogo, e opposto, il linguaggio degli islamisti, che identificano l’Occidente col regno di Satana. «Ecco l’America colpita dal Dio altissimo» (Bin Laden dopo l’11 settembre 2001). «Il verdetto di Allah è stato eseguito» (il binladista Al-Zarqawi dopo ogni decapitazione di prigionieri). Colpito al cuore il regno idolatrico «dell’abominio e della perversione» (l’Isis dopo la strage di Parigi). «Chiediamo ad Allah di sostenere i mujaheddin contro i crociati finché la bandiera del Califfato non sarà issata sulla Città del Vaticano» (ancora l’Isis in questi giorni). «Allah Akbar, Allah è grande» (l’urlo dei fanatici autori delle stragi di Parigi; lo stesso che è risuonato ieri nello stadio di Instanbul). «Difendiamo il Crocifisso, segno della nostra civiltà, e sterminiamo il Nemico» (questa più o meno la reazione dei novelli teocon lega-forzisti italiani).

Fare la guerra in nome di Dio, da una parte e dall’altra, è la via migliore per sprofondarci tutti nell’Inferno, per chi ci crede. Meglio per tutti, credenti e non, opporre l’analisi fredda e lucida dei fatti e la valutazione delle conseguenze delle proprie scelte e azioni. Ovvero pensieri e comportamenti conformi all’etica della responsabilità.

 




basta, basta guerre armate da noi!

 

il male che anche noi nutriamo

basta armare la guerra!

di Luigino Bruni

le guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate dai loro interessi

Questa verità, antica e profonda, oggi è meno evidente ma non meno vera. Siamo realmente dentro una guerra mondiale, diversa dalle guerre del Novecento ma non meno drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come finirà. È una guerra liquida in una società liquida. Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non sappiamo bene chi la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca. Questa incapacità di capire, presente in tutte le guerre complesse, è particolarmente forte in questa guerra, che non deve però esimerci dallo sforzo di pensare, e poi combattere soprattutto le tesi false e ideologiche che ci stanno inondando all’indomani della strage di Parigi.

Una tesi molto popolare è quella che individua nella religione, e in particolare nella natura intrinsecamente violenta dell’islam, la principale, se non unica, ragione di questa guerra. Una tesi, questa, tanto diffusa quanto sbagliata. Il Corano ha una sua ambivalenza riguardo alla violenza, lo sappiamo. Ci sono passaggi dove invita alla «guerra santa». Ma c’è anche una versione del fratricidio tra Caino e Abele che più della Bibbia ebraico-cristiana, parla forte di non violenza. Nel racconto coranico i due fratelli parlano nei campi. Abele intuisce che Caino sta levando la sua mano contro di lui per ucciderlo, e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per ucciderti» (“Il sacro Corano”, al-Ma’idah: Sura 5,28).

Abele presentato come il primo non-violento della storia, che muore per non diventare esso stesso assassino. Nel Corano c’è anche questo.
È un fatto, però, che oggi l’islam vive una stagione difficile. Sette fondamentaliste usano pezzi del Corano per plagiare giovani, vittime e carnefici di un sogno-incubo folle nel quale sono caduti. Prede finite nella trappola del cacciatore di “martiri” da usare per scopi dove il Corano è semplicemente il laccio della trappola. Per combattere questa malattia che oggi si è insidiata nel cuore dell’islam e che lo sta minando dal di dentro, è necessario rafforzare le difese immunitarie per sostenere l’organismo, che nel suo insieme è sano ma sta soffrendo. È lo stesso corpo che deve espellere con maggiore decisione il virus che è entrato, resistere contro quelle cellule impazzite che lo stanno indebolendo, infliggendogli molto dolore. Ma tutti gli amanti della vita devono aiutare l’islam a farcela. Nell’epoca della globalizzazione, non può farcela da solo.

Al tempo stesso, non dobbiamo essere così ingenui da dimenticare che in questa guerra gli aspetti economici in gioco sono enormi. Non a caso i terroristi belgi di Parigi venivano dalla cittadina più povera del Belgio, con una disoccupazione giovanile attorno al 50%. La prima guerra del Golfo del 1991 non fu certo originata dalla prevenzione del fondamentalismo.

In questi mesi si parla molto delle armi che alimentano questa guerra. Occorre parlarne ancora di più, perché è un elemento decisivo. Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso la Siria, prodotti e venduti da imprese italiane. L’Italia, assieme alla Francia, è tra i maggiori esportatori di armi da guerra nelle regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990 che vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che piangono, magari sinceramente, e dichiarano lotta senza quartiere al terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono grosse quote di Pil e centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Una moratoria internazionale seria che imponesse un divieto assoluto di vendita di armi ai Paesi in guerra, non segnerebbe certo la fine del califfato e del terrorismo, ma sarebbe una mossa decisiva nella direzione giusta. Non si può nutrire il male che si vuol combattere. Noi lo stiamo facendo, e da molti anni. Non ce ne accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva dentro le nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo che finché l’economia e il profitto saranno le parole ultime delle scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a frenare, continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a provocare.

Il presidente francese Hollande ha sbagliato a parlare di «vendetta» all’indomani della strage, e poi a perpetrarla bombardando domenica la roccaforte del califfato in Siria, rispondendo col sangue ad altro sangue. Questa è soltanto la legge di Lamek, precedente la stessa “legge del taglione”. La vendetta non deve mai essere la reazione dei popoli civili, neanche dopo una delle notti più buie della storia recente dell’Europa. La sconfitta più grande sarebbe far tornare parole come «vendetta» nel lessico delle nostre democrazie, che le hanno eliminate dopo millenni di civiltà, di sangue, dolore.

Infine dobbiamo sostenere, seriamente e decisamente, chi sta osando la pace e il dialogo in questi tempi così difficili. In primis papa Francesco, che non può restare solo né l’unica voce a chiedere la pace e la non-violenza. Se gridassimo in milioni che l’unica risposta alla morte è la vita, e lo dicessimo insieme ai tanti musulmani feriti e straziati come noi, se facessimo sentire nelle strade, nei social, davanti ai Parlamenti, il nostro “no” alla produzione e vendita delle nostre armi a chi le usa per uccidere e ucciderci, allora forse le parole profetiche di Francesco troverebbero un’eco più grande. Potrebbero avere la forza di muovere persino i bassi interessi economici, che sempre più controllano e dominano il mondo, le religioni, la vita.

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‘famiglia cristiana’ si indigna di fronte alle chiacchiere sulla violenza dell’Isis

Francia: almeno smettiamola con le chiacchiere

isis

da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l’Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell’aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali

di Fulvio Scaglione FAMIGLIA CRISTIANA

E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’ unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’ impronta presa da un dito, l’ unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’ esplosione della cintura da kamikaze che indossava.

Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente.

Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’ Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’ è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’ Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’ Europa.

Quando l’ Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’ hanno richiamato all’ ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità.

Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’ alleanza militare che rappresenta l’ Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’ Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni.

Nel frattempo l’ Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’ umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’ è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia.

Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’ Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’ abbiamo riempito, con l’ Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’ importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’ Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia.

Solo l’ altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’ umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’ Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza.

Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’ Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’ Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più.