non è un crimine essere disperati e cercare liberazione

pregare nel vento e nella tempesta

di Frédéric Boyer
in “La Croix” del 1° marzo 2018 (traduzione: www.finesettimana.org)

È strano, in questi ultimi giorni, in una notte d’insonnia, una preghiera improvvisa è sorta dentro di me. Strana umanità. Spesso per pregare bisogna non voler pregare. Bisogna persino opporsi all’idea stessa di pregare. Basta accettare l’insonnia in silenzio, vegliare e inquietarci. In ogni preghiera che viene dal cuore, in ogni preghiera disordinata, deve esserci una lacerazione. In ogni preghiera, bisogna lasciar venire a galla tutta la nostra vergogna nascosta, la nostra vigliaccheria ordinaria. Bisogna che vengano confessate le nostre contraddizioni, le nostre ferite interiori. Un esempio? Abbiamo imparato a chiedere: “Dacci oggi il nostro pane, il necessario” (traduzione personale della parola greca epiousios, un hapax che appare molto raramente nella letteratura greca, e che può significare l’indomani, l’oggi, o ciò che è necessario), perché il pane su cui ci gettiamo prima di tutto, ammettiamolo, è il pane superfluo, il pane non necessario. Così, pregare è una lotta. Non si combatte contro un altro ma contro se stessi. Si prega sapendo fin dalla prima parola che si sarà sconfitti. Ma la preghiera è lotta. Preghiamo per i nostri cuori straziati. Ecco la preghiera della mia insonnia. Dimenticatela. È così semplice.

Signore, dimmi che non è un crimine prendere il mare.  Che non è un crimine fuggire la miseria, la guerra, l’oppressione.

Signore, dimmi che non è un crimine volere una vita migliore per sé e per la propria famiglia.

Signore, dimmi che non è un crimine passare le frontiere.

Signore, dimmi che non è un crimine essere nati in Eritrea, a Kabul, Aleppo, Homs, Racca, in Sudan, in Mali…

Signore, dimmi che non è un crimine essere stati torturati o violentati o perseguitati.

Signore, dimmi che non è un crimine partire all’avventura, rischiare la vita, sperare che l’indomani non sia più tragico di ieri.

Signore, dimmi che non è un crimine aspettare ospitalità, un luogo, di che mangiare e di che scaldarsi.

Signore, dimmi che non è un crimine voler proteggere i propri figli.

Signore, dimmi che non è un crimine volersi riunire alla propria famiglia, ai propri amici.

Signore, dimmi che non è un crimine volersi rifare una vita. Signore, dimmi che non è un crimine reclamare, bussare alla porta, gridare aiuto.

Allora, so perfettamente tutto ciò che si dice, chiaramente, seccamente, e al calduccio. Noi non possiamo. Non loro. Non tutti. Non lei, non lui. E tu, quanti ne hai accolti a casa tua?, ti chiedono. Oh, mio Dio, che lotta, in effetti! E se i nostri guadagni disonesti e superflui causassero le disgrazie di altri? Se il diritto che opponiamo alla loro venuta da noi, dopo che hanno attraversato deserti, mari e montagne, fosse il crimine, il peccato? Peccato, questa vecchia parola che non sopportiamo, e che vuol dire sempre non l’attentato al pudore, alla morale, alla decenza, ma che, oh mio Dio, ha sempre indicato la retta via smarrita, la strada senza sbocco, quella che prendiamo credendo così di proteggerci, in questo caso dalla presenza e dalla venuta di altri. Sì, è questo il peccato. Tutte le frontiere che chiudiamo per, crediamo, proteggerci. Ma spesso, lo abbiamo notato in questo periodo tempestoso, i nostri begli ombrelli si rovesciano nel vento ed eccoci fradici di pioggia e schiaffeggiati dal vento, desolati, ridicoli nella piogga e nel vento della Storia con i nostri ombrelli rovesciati. Quando questa difficoltà ad accogliere, a comprendere, ad accettare culmina in impossibilità. Oh Signore, vieni in mio aiuto. È questo il tuo vertice di beatitudine? Siamo brave persone, vogliamo che le cose funzionino e, mio Dio, eccoci perseguitati dalle disgrazie di altri, i lontani vicini, gli erranti bloccati nell’attesa, i migranti inchiodati ad un suolo che non è il loro, i rifugiati che non trovano rifugio. Oh, mio Dio, perché bisogna che siamo colpiti dalla disgrazia degli altri? e divisi? Quando la difficoltà ad accogliere si trasforma, crediamo, in impossibilità, scopriamo in noi questo terrore spaventoso, interiore, la violenza della nostra stessa impotenza, quando, per proteggerci, rifiutiamo ad altri proprio quello che vorremmo essere in grado di fare noi, per noi, per i nostri figli, se fossimo al loro posto. Ma la preghiera è ostinata. Ci vuol bene. Quel bene che non sentiamo più fisicamente, quel bene che non proviamo più di fronte alla venuta, davanti alla porta forzata, al pericolo attraversato. La preghiera per la nostra salvezza è a volte proprio la preghiera che rifiutiamo, la preghiera per altri. Allora, chiudiamo gli ombrelli, apriamo le frontiere, e preghiamo per coloro che sono nel vento e nella tempesta. Pregheremo così anche per noi.

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