il racconto di una storia infernale

Profughi, incinta di 9 mesi sul barcone. Storia di Salem: “Vi racconto l’inferno di Asmara”

di ZITA DAZZI

Il centro delle suore di San Siro ha accolto Salem, 20 anni, e sua figlia Bethlem che oggi ha 25 giorni. “Grazie per l’accoglienza, ma ora parto di nuovo, voglio raggiungere mio fratello in Inghilterra””Non pensavo a niente in mezzo alle onde. Non pensavo a mio marito, né a mia mamma, né alla mia casa, né al mio Paese, che non vedrò mai più. Pensavo solo che dovevo arrivare in Italia. Avevo nausea, e avevo paura, certo. Tenevo stretta la mano di mia nipote e gli occhi chiusi per non vedere. Poi a un certo punto abbiamo sentito delle voci in una lingua che non capivo, ho guardato davanti al nostro barcone e ho visto una nave grande, di ferro. Un uomo con le mani grandi mi ha messo un salvagente arancione e una coperta addosso. Poi non ricordo più niente. Non so dove ho partorito, non so chi mi ha aiutato. A un certo punto mi hanno dato in braccio Bethlem, mia figlia, il mio amore”.

Conosce poche parole di inglese e nessuna di italiano, Selam, che nel Duemila aveva cinque anni. E se anche capisce le domande, non ha tanta voglia di raccontare da dove viene e perché. “Paura”, è l’unico vocabolo che pronuncia bene. Ma a sua figlia Bethlem, 25 giorni di vita, continua a cantare una ninna nanna in tigrino, una nenia che scioglie il cuore anche a chi non capisce il significato della canzone.

Selam è arrivata col barcone dalla Libia a Lampedusa un mese fa, accompagnata da sua nipote di 15 anni. Senza marito, col suo pancione di nove mesi. E un pensiero fisso in testa, quello che l’ha tenuta in vita durante la traversata in mare, madonna profuga dei giorni nostri. “Vengo dall’inferno di Asmara, ma vado in Inghilterra da mio fratello”. È la frase che Selam ha detto alla volontaria Susy Iovieno all’hub della stazione Centrale, quando è arrivata con quel fagotto di stracci all’interno del quale celava la neonata. Ed è quello che continua a ripetere agli educatori di Casa Suraya, centro d’accoglienza della cooperativa Farsi Prossimo, in via Padre Salerio, San Siro.

Selam e Bethlem qui hanno una stanza tutta loro. Una camera con i letti puliti, il riscaldamento, il bagno, le coperte e i vestiti di ricambio. Qui c’è sempre una volontaria pronta a cullare la piccolina quando dorme Selam, ancora stanca dal parto e dai mesi di viaggio attraverso il deserto del nord Africa.

Nell’ex scuola a Lampugnano la ragazza e la bambina potrebbero stare a lungo. Ma quello scricciolo di mamma sembra determinata mentre parla seduta in mezzo al gruppo delle eritree ospiti della casa: “Devo andare, devo partire”. Aldayeb, il mediatore culturale somalo, le spiega nel dialetto delle loro terre d’origine che in Gran Bretagna “è molto difficile riuscire ad entrare. Fermati qui, ti conviene. È un viaggio lunghissimo, le frontiere sono chiuse, è inverno, dove vuoi andare con la tua neonata?”. Selam annuisce, i grandi occhi neri e liquidi delle donne eritree che hanno visto tanta guerra e tanto dolore da non commuoversi quasi più per niente. “E va bene, se non mi faranno entrare in Inghilterra, allora mi fermerò in Olanda. Ho altri parenti che abitano lì”.

Le suore hanno provato a farsi raccontare dove è nata la piccola e come ha fatto ad arrivare alla Stazione Centrale. Ma la riservatezza totale di cui gli eritrei si fanno scudo per non mettere in pericolo chi rimane in patria, impedisce di ricostruire chiaramente dove sia il padre della neonata. “La storia di Selam, non è diversa da quelle di tante ragazzine eritree. Scappano tutte per non farsi arruolare dall’esercito – spiega Annamaria Lodi, dirigente della cooperativa Farsi Prossimo – La leva è obbligatoria in Eritrea. Chi si rifiuta, finisce in carcere; chi si lascia prendere, non torna per anni. C’è una dittatura durissima: chi non muore di fame, muore di miseria. È questo che ha convinto Selam a scappare. Non ha nulla da perdere”. Bethlem intanto dorme tranquilla nella sua culla di vimini, senza chiedersi dove passerà il Natale.