quando la politica toglie ai disperati anche l’ultimo frammento di speranza al quale sono costretti ad aggrapparsi con le unghie

«sgomberare non serve, per loro il ghetto significa lavoro»

intervista a Leonardo Palmisano

a cura di Gianmario Leone
in “il manifesto” del 4 marzo 2017

«Purtroppo quanto accaduto ieri notte è soltanto l’ultimo episodio: i morti nei ghetti del foggiano sono già 4 negli ultimi mesi e sono una triste routine che si è consolidata nel corso degli anni. Solo in Puglia, tra grandi e piccoli, se ne contano oramai una trentina».

A parlare è Leonardo Palmisano, etnografo, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari ed autore del saggio «Ghetto Italia», scritto a quattro mani con Yvan Sagnet, con il quale hanno vinto il prestigioso premio Livatino 2016. Un lungo viaggio nei ghetti italiani, dal Piemonte alla Puglia, per denunciare come i braccianti immigrati in Italia siano sempre più spesso vittime di un caporalato feroce, che li rinchiude in veri e propri «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno. Da fine febbraio è iniziato lo sgombero del «Gran Ghetto» di Rignano Garganico disposto dalla Dda di Bari, per presunte infiltrazioni nella gestione del luogo da parte della criminalità organizzata.

Molti però si sono opposti, mentre la Regione fatica ancora a risolvere il problema di un alloggio dignitoso. Forse qualcuno sarebbe dovuto andare a parlare con quelle persone. Non si può pensare di sgomberarle dall’oggi al domani, senza preavviso, dall’unico luogo che conoscono. Perché per loro il ghetto vuol dire lavoro e quindi sopravvivenza: solo restando lì sono certi che i caporali, durante la stagione del raccolto, li andranno a cercare per farli lavorare.

E’ questo il motivo per cui oramai sono diventati stanziali nei ghetti, dove vivono tutto l’anno, anche in periodi in cui non c’è lavoro. Senza un’alternativa reale nei servizi e nel collocamento lavorativo, sgomberare non servirà a nulla. Un lavoro che in realtà vuol dire sfruttamento, schiavitù in condizioni disumane. Come giudica la legge sul caporalato? Le Regioni in materia di lavoro non possono legiferare, quindi è necessario l’intervento dello Stato. Quella legge è sicuramente un primo passo verso la legalità, ma non può restare l’unico.

Piuttosto, credo sia giusto sottolineare la pressione che arriva dalle associazioni degli imprenditori agricoli contro quella legge, prima ancora che arrivino le denunce dei braccianti. Sto realizzando con grande difficoltà una nuova inchiesta su questo fronte. I braccianti sono terrorizzati ed è difficilissimo farli parlare, c’è un clima di grande tensione. Ancora una volta, quindi, omertà. Condizionata dal sistema padronale che vuol conservare lo status quo. Assolutamente sì. Non regge nemmeno l’alibi della crisi economica: il pil in agricoltura nell’ultimo anno è cresciuto del 6%.

Il problema è che non c’è stata un’adeguata ridistribuzione della ricchezza. Che resta in mano a pochi grandi gruppi commerciali, fattore che porta le associazioni datoriali a lamentarsi: stiamo tornando al latifondo dove il ruolo del caporale è fondamentale. Le stime del Global Slavery Index ci vedono al 2° posto in Europa per riduzione in condizioni di schiavitù dei braccianti. Il nocciolo della questione, come più volte ha denunciato Yvan Sagnet nel corso degli anni, resta la grande distribuzione e gli accordi commerciali che reggono il gioco. E’ lì che bisogna intervenire. I grandi gruppi decidono il costo del prodotto che a sua volta, per effetto domino, incide sugli agricoltori ovvero i produttori ed infine sui lavoratori sfruttati dai caporali che sono da sempre l’anello di congiunzione tra domanda e offerta di lavoro. La vera battaglia ora si è spostata sui semi. Perché chi li possiede controllerà tutta la filiera.




a Venezia si vorrebbe creare un ghetto dei poveri per nasconderli dal resto della città

Venezia vuole nascondere i poveri

“Spostiamo le mense dal centro”

di Lorenzo Padovan
in “La Stampa”

Il Chilometro della cultura da una parte, la «Cittadella della povertà» dall’altra. In mezzo, una città, Mestre, da sempre sorellastra di Venezia, che si interroga sul proprio futuro e assiste allo scontro tra il sindaco Luigi Brugnaro e il Patriarca Francesco Moraglia sulla collocazione delle mense per gli indigenti, ora a due passi dalla zona dello strùscio.

A Mestre una serie di iniziative promozionali sta faticosamente cercando di garantire nuova linfa e opportunità socio-culturali ad un centro perennemente offuscato dalla Perla della laguna. È stato il vulcanico primo cittadino Brugnaro a lanciare la provocazione: «Spostiamo le tre mense che sono ricettacolo di disperazione: dobbiamo armonizzare la presenza di queste persone, liberando quell’area, comunque centrale, da un assembramento ormai insostenibile. Non solo refettori, ma ipotizziamo anche altri servizi complementari. Insomma, una “Cittadella della povertà” che concentri le opportunità per i senza tetto e offra solidarietà, non a scapito dei residenti». Un esercito di clochard che conta su almeno 200 unità: italiani e stranieri, con contaminazioni della delinquenza comune, che nel degrado sguazza e camuffa meglio i propri affari loschi.

Nessuna indicazione sull’ubicazione del «Quartiere dei poveri», ma numerosi indizi lo collocherebbero nei pressi del nuovo ospedale dell’Angelo. Peccato che le strutture in odore di trasloco siano di proprietà della Diocesi, che ha subito intimato l’altolà al progetto: «Sono rimasto un po’ sorpreso da questa iniziativa che immagino abbia buone intenzioni – è il pensiero del Patriarca di Venezia Moraglia -. Portare tutto in un luogo deputato alla carità, quasi come se ci fossero barriere divisive all’interno della comunità civica-sociale, non è solo nascondere la verità, è creare una disparità tra una società che crede di aver eliminato la sofferenza e una realtà che, per i suoi bisogni primari, vive ai suoi margini e la vede come un mondo proibito».
C’è apertura al dialogo, ma nessun preludio ad accordi che possano anche solo minimamente portare al rischio di ghettizzazione dei senzatetto: «Una riorganizzazione delle mense ci vede favorevoli, per scongiurare difficoltà anche a chi vive nel quotidiano», ha sottolineato il presule. Ma ha aggiunto: «Nello stesso tempo, dobbiamo prendere atto che la società è un corpo che comunica tra i suoi membri. Ci sono ricchezza, povertà, bambini, nonni, adulti, sani e malati e bisogna cercare, nel rispetto, di offrire servizi migliori a tutti, rimanendo attenti all’uomo concreto, alle sue stagioni e sofferenze».

Se la Chiesa stoppa il Comune, l’idea di Brugnaro – che a Mestre ha il suo feudo elettorale – è stata accolta dai residenti come un principio rivoluzionario: «Abito in zona da 50 anni – fa sapere Luciano Niero, portavoce del Comitato di via Querini, che già dieci anni fa chiese, invano, un intervento all’allora sindaco Massimo Cacciari -, ma adesso siamo al limite. Non si può uscire di casa senza imbattersi in chi urina sulla soglia, defeca sullo zerbino, bivacca per ore avvolto in qualche straccio. Nessuno più investe nel quartiere e le attività commerciali stanno scomparendo. Le parole del Patriarca mi sorprendono perché nel nobile sentimento della carità cristiana non ci sentiamo ricompresi: tutti protesi a stare vicini agli ultimi, ci si scorda dei cittadini invisibili che vivono una sofferenza silenziosa, in un’area che di fatto non è più casa loro».