il migrante Gesù di Nazareth

Gesù era un migrante

un libro per riflettere sulla vita dei migranti in rapporto alla vita cristiana
michelangelo nasca

«Migranti e immigrati sono stati per me fonte di benedizione». Una rivelazione, questa, che nell’attuale momento storico, potrebbe apparire persino blasfema, oltre che politicamente scomoda. Tuttavia, Deirdre Cornell – autrice di «Gesù era un migrante», recentemente pubblicato dal Messaggero di Padova – ne va invece molto fiera, ricordando gli anni di volontariato trascorsi in Messico insieme al marito, grata per aver «beneficiato immensamente di queste relazioni, […] per ciò che mi hanno dato e insegnato».

Il libro della Cornell – che da decenni assiste lavoratori migranti nel nord dello stato di New York, dove vive con il marito Kenny e cinque figli – si propone come principale obiettivo quello di attualizzare i racconti evangelici sul significato profondo e universale della migrazione. «Ancor prima dell’inizio di una memoria storica – scrive l’autrice – già il libro della Genesi è segnato dalle migrazioni». Nella cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden, infatti, i nostri primi progenitori sono costretti all’esilio; «L’immagine della migrazione come simbolo del cammino spirituale prosegue nella figura di Abramo», tra i primi episodi destinati a crescere nei millenni di storia sacra, fino alla fuga in Egitto che fa di Gesù il primo migrante dell’era cristiana. 

Con una forma narrativa semplice e accessibile a tutti, il testo edito dal Messaggero di Padova attraversa sinteticamente l’itinerario migratorio presentato nell’Antico e nel Nuovo Testamento; grazie anche alle competenze messe a frutto dall’autrice, capace di coniugare esperienze personali, teologia e spiritualità cristiana, e riflettere sulla vita dei migranti in rapporto alla vita cristiana, e su come le tribolazioni che accompagnano il viaggio dei migranti possano anche essere fonte di benedizione, per loro stessi e per la società che li accoglie.  

I racconti e le riflessioni tratte dai Vangeli s’intrecciano con i racconti di vita vissuta dell’autrice: storie di un’umanità in fuga e alla ricerca di stabilità incontrate e accolte in seno alla propria famiglia. «La trama più fondamentale della Sacra Scrittura – precisa Deirdre Cornell – la storia della salvezza, si dipana attraverso storie di migrazione. Con tutti i suoi disagi e le sue tribolazioni, la mobilità umana funge da paradigma della fede religiosa. I cristiani credono in un Salvatore che durante la sua vita terrena ha incarnato la migrazione – e che come Signore risorto continua ad attraversare frontiere. Nella migrazione, tutti noi possiamo trovare una fonte di benedizione».

Fermamente convinta che è possibile rinnovare la propria fede, meditando sulla vita e la missione di Gesù in relazione alla migrazione, Deirdre Cornell ritiene con decisa fermezza che «a differenza delle nostre politiche, i nostri cuori possono elevarsi, purificarsi. I nostri confini possono non aprirsi… ma i nostri cuori sì. Il nostro paese continua a ricevere nuovi cittadini. Le nostre città, paesi, quartieri accolgono nuovi abitanti. Le nostre chiese e le altre comunità religiose fungono da case spirituali. Anche noi possiamo “migrare”, avvicinandoci alla visione evangelica di giustizia e pace». 

Il nostro mondo è pieno di migranti e rifugiati le cui storie drammatiche non possono essere ignorate. Questo libro su spiritualità e migrazione – lo intuisce bene l’autrice – descrive di fatto un cammino di fede, e suggerisce «passi verso Cristo presente nello straniero».

 

Deirdre Cornell, «Gesù era un migrante», Messaggero di Padova 2017, pp. 208.

il messaggio diGesù inequivocabilmente ‘antirazzista’

 

rifugiati migranti

‘ero straniero e mi avete accolto’

la grande attualità del messaggio ‘antirazzista’ di Gesù

Quello dell’accoglienza dei migranti è un tema cruciale della nostra epoca. E se quotidianamente si sente purtroppo parlare di razzismo, su ilLibraio.it il biblista Alberto Maggi riparte dal messaggio di Gesù

“Prima noi”, è il mantra con il quale si mascherano spietati egoismi e si giustificano inaudite durezze di cuore. È la formula magica di quanti chiariscono subito “non sono razzista, però…”, un “però” eretto come un invalicabile muro a difesa del “noi”, pronome che include, a secondo degli interessi, un popolo o la famiglia, una religione o un quartiere. Mentre per “prima” s’intende l’accesso e l’esclusiva precedenza a tutto quel che permette alla vita di essere dignitosa, dalla casa al lavoro, dall’assistenza sanitaria alla scuola; beni e valori che, sono fuori discussione, devono essere riservati per primi a chi ne ha pienamente diritto per questioni di lignaggio. Ovviamente, al “noi” si contrappone il “loro”, che include per escluderli, tutti quelli che non appartengono allo stesso popolo, alla stessa cultura, società, religione, o famiglia.   

In questo ambiente stupisce il comportamento del Cristo che da una parte arriva a identificarsi con gli ultimi della società (“Ero straniero e mi avete accolto”, Mt 25,35.43), e proclama benedetti quanti avranno ospitato lo straniero  (“Venite benedetti del Padre mio”¸ Mt 25,34), dall’altra, Gesù accusa con parole tremende quelli che non lo fanno (“Via, lontano da me, maledetti… perché ero straniero e non mi avete accolto”, Mt 25,41.43), con una maledizione che richiama quella del primo assassino della Bibbia, il fratricida Caino (“Ora sii maledetto”, Gen 4,11). Se la risposta alle altrui necessità era un fattore di vita, la mancata risposta è causa di morte. Per Gesù negare l’aiuto all’altro è come ucciderlo.

Gesù non solo si identifica nello straniero, ma nei vangeli il suo elogio va proprio per i pagani, personaggi tutti positivi (eccetto Pilato in quanto incarnazione del potere) e portatori di ricchezza. Si teme sempre cosa e quanto si debba dare allo straniero e non si riconosce quel che si riceve dallo stesso. Nella sua attività Gesù si troverà di fronte ottusità e incredulità persino da parte della sua famiglia e dei suoi stessi paesani, ma resterà ammirato dalla fede di uno straniero, il Centurione, e annuncerà che mentre i pagani entreranno nel suo regno, gli israeliti ne resteranno esclusi (Mt 8,5-13; Mt 27,54).

L’AUTORE

Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici«G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita, Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ da poco uscito per Garzanti L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita.

la chiesa non straparli in nome di Gesù

Enzo Bianchi

“Gesù non ha mai parlato dei gay, la Chiesa taccia. Sì alle unioni civili”

Enzo BianchiIl priore di Bose Enzo Bianchi sostiene le ragioni del riconoscimento delle unioni civili tra persone omosessuali ed anche la separazione tra coniugi che non vanno più d’accordo. Lo ha affermato nel corso di una assemblea pastorale diocesana tenutasi a Trento, secondo quanto riporta L’Adige. «La Chiesa non può avvallare il divorzio, ma se due persone non stanno bene assieme, e si avvelenano reciprocamente l’esistenza, è meglio che si separino. – scrive il quotidiano trentino – Diversamente, se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto». Il priore della comunità monastica di Bose ha tenuto una lezione magistrale dedicata interamente al valore cristiano della misericordia, poi ha risposto alle domande dei presenti.

«Dobbiamo chiedere scusa – ha detto Bianchi – alle famiglie per la presunta superiorità mostrata dai religiosi nei tempi passati: la vita di coppia è molto difficile, e noi dobbiamo essere in grado di riconoscere il grande merito di chi sceglie di costruire un nucleo famigliare. Tuttavia, in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere» riporta ancora l’Adige.

 Enzo Bianchi ha spiegato che «se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere. Che la Chiesa faccia il matrimonio per persone dello stesso sesso – ha concluso – è una cosa senza senso. Tuttavia, se lo Stato decide di regolarizzare una realtà affettiva, lasciamo fare, applicando la misericordia come vuole il Vangelo, non come la vogliamo noi».

un Gesù dolciastro che cancella il Gesù in collera è antievangelico

la censura sulla collera di Gesù

di Enzo Bianchi  Bianchi

in 'Jesus' settembre 2016

In questa stagione ecclesiale caratterizzata anche dall’interesse e della ricerca riguardo all’umanità di Gesù, permane tuttavia una certa timidezza nell’analizzare e mettere in rilievo i sentimenti di Gesù. In particolare si evita di leggere uno di questi modi di comportarsi da parte di Gesù: la collera, l’ira, lo sdegno. A volte si ha l’impressione che si voglia presentare un Gesù uomo come noi, ma dolciastro, oleografico, forse perché l’atteggiamento della collera contrasta con il dominante bisogno di dolcezza, mitezza, rimozione e negazione del conflitto.

Eppure, se prendiamo il vangelo più antico, quello secondo Marco, questo tratto di Gesù – mitigato dagli altri evangelisti e talvolta addirittura assente – emerge con chiarezza: l’ira, la collera, lo sdegno non sono solo sentimenti umani che non significano modi peccaminosi, ma sono anzi segno che in Gesù c’erano passione e forte convinzione. La collera è reazione all’indifferenza, al silenzio complice, alla tolleranza acquiescente, alla clemenza a basso prezzo, tutti atteggiamenti che accompagnano chi non conosce l’amore, la passione dell’amore.

gesu La collera è l’altra faccia della compassione! Per questo non è possibile dimenticare le parole dure di Gesù, le sue invettive, i suoi atteggiamenti verso alcune situazioni e a volte anche verso gli stessi discepoli. La minaccia, l’invettiva deve essere detta, se è pronunciata come avvertimento urgente e forte, non come giudizio di condanna! Nel vangelo secondo Marco troviamo innanzitutto il verbo orghízomai, andare in collera, che appare come sentimento di Gesù alla vista del lebbroso (cf. Mc 1,41). Perché Gesù è preso da collera di fronte al lebbroso? Perché sente in sé sdegno di fronte a quel malato emarginato. Nella compassione che sale dalle sue viscere c’è anche questo sentimento di sdegno, che grida: “Non è giusto! Perché?”. Questa è santa collera che protesta di fronte alla sofferenza degli uomini concreti incontrati da Gesù. Ma la collera di Gesù si manifesta anche verso i “giusti incalliti”, i pretesi osservanti della Legge. Quando, entrato di sabato nella sinagoga, guarisce un uomo con la mano paralizzata, i farisei lo osservano per poterlo accusare di trasgressione della Torah (cf. Mc 3,1-4). E Gesù “volgendo su di loro uno sguardo di collera (orghé), rattristato per la durezza dei loro cuori…” (Mc 3,5). Qui lo sdegno e l’ira si leggono nello sguardo di Gesù: uno sguardo che discerne e avverte severamente quei presunti sani, quei presunti giusti! Tutti ricordiamo inoltre come Gesù agì dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme. Salito a Gerusalemme, Gesù trova nel tempio ciò che non doveva esservi: vede la dimora di Dio trasformata in una casa di commercio. Allora “avendo fatto una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i tavoli” (Gv 2,15). Qui c’è sdegno, collera manifestata in azioni che non sono violente verso le persone ma provocano un danno economico, un impedimento al commercio praticato nel tempio. Solitamente se si ricorda questa azione di Gesù è solo per dire che egli era violento e non mite. No, Gesù non cede alla violenza, non fa violenza sulle persone, ma compie un gesto profetico carico di significato, e lo fa con sdegno e collera.

mercantiInfine, conosciamo bene le invettive, il “Guai a voi!” ripetuto sette volte nei confronti degli scribi e farisei ipocriti (cf. Mt 23,13-32), parole il cui sdegno è stato ben interpretato dal film di Pasolini, quando ci presenta Gesù che grida con forza, parole taglienti che spogliano le autorità religiose degli orpelli del loro potere per mostrarli quali sono veramente, nella loro qualità malefica! Dunque sdegno, collera, ira erano presenti in Gesù, a testimonianza della sua fede convinta, della sua passione per la giustizia, della sua urgente parola profetica che voleva tenere svegli, non lasciare che gli altri si addormentassero, ammonirli finché c’era tempo. Purtroppo questo Gesù oggi viene  censurato da generazioni di credenti che non amano il conflitto, che temono la voce alta, che rifuggono l’urgenza del sì o del no. Sono convinto che, se oggi Gesù tornasse, molti cristiani, soprattutto monaci e monache, non lo seguirebbero, perché lo riterrebbero troppo duro, troppo esigente, non sufficientemente mite e dolce: non hanno colpe, perché non conoscono l’amore e la sua passione forte come la morte, tenace come l’inferno (cf. Ct 8,6).

il Dio di Gesù, un Dio totalmente nuovo

 

Più scopriremo e capiremo la figura di Gesù, più scopriremo e capiremo la figura del Padre

Un Dio talmente nuovo, talmente sconvolgente, che farà sì che poi Gesù verrà assassinato in nome di questo Dio.”

Alberto Maggi

Maggi

 

La frase che Giovanni scrive nel prologo al suo vangelo “Dio nessuno l’ha mai conosciuto, soltanto Gesù ne è stata la spiegazione” afferma che tutte le immagini di Dio che ci sono state presentate, sono tutte immagini parziali, immagini a volte false.

Tutto quello che c’è da vedere di Dio, si può vedere in Gesù. E ricordo la famosa domanda che Filippo ha fatto a Gesù: “Adesso mostraci il Padre e ci basta”. E Gesù gli dirà: “Filippo, chi vede me, vede il Padre”.

Che significa? Che non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù.

Più scopriremo e capiremo la figura di Gesù, più scopriremo e capiremo la figura del Padre. Un Dio talmente nuovo, talmente sconvolgente, che farà sì che poi Gesù verrà assassinato in nome di questo Dio. […]

L’uomo non è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma la creazione è qualcosa di esterno da Dio : l’uomo è generato dal Padre come figlio. Ma questa figliolanza non può essere imposta, è una proposta. Figli di Dio non si nasce, ma si diventa. So che nella espressione popolare comunemente si dice che siamo tutti figli di Dio. Non è vero. Figli di Dio non lo si è per nascita, ma per una scelta.

E qual è questa scelta?

L’accoglienza nell’esistenza di Gesù, la sua figura e il suo messaggio. Questo è il progetto di Dio sull’umanità. […]

Le prime battute del vangelo di Giovanni si aprono con una immagine stupenda. Un Dio talmente innamorato dell’umanità, talmente entusiasta della creazione che dice: è troppo poco questa vita che hanno, io li voglio innalzare e dare loro la mia dignità divina.

Il progetto di Dio sull’umanità, la sua volontà – non esistono altre volontà – è che ogni uomo diventi suo figlio, attraverso la pratica di un amore simile al suo.

Questa è la volontà di Dio. Non il Dio – basta leggere certi salmi, il salmo 14 – che si affaccia dalle nuvole e guarda la terra disgustato: tutti sono traviati, tutti compiono il male. Ma un Dio che guarda l’umanità e dice: che meraviglia, guarda come sono belli, ma che peccato che abbiano questa vita che si conclude con la morte. Io li voglio innalzare e regalare a loro la mia stessa condizione divina, dare a loro la qualità di figli di Dio.

Questo è il progetto di Dio sull’ umanità. Un progetto pienamente positivo, un progetto nel quale si intravede tutto l’ottimismo di Dio sull’umanità.  La volontà di Dio sull’umanità, che Gesù Cristo ci ha fatto conoscere, è che l’uomo è importante, tanto importane al punto che Dio lo vuole innalzare al suo livello e dargli la sua condizione divina.

Il progetto di Dio sull’umanità è che ogni uomo diventi Signore. Signore non significa avere dei sudditi a cui comandare. Signore significa non aver nessuno a cui obbedire. Il progetto di Dio sull’umanità è trasmetterci la sua stessa qualità divina in modo che come lui, noi non abbiamo nessuno a cui dover obbedire.

Il verbo obbedire, o il termine obbedienza, non ha diritto di cittadinanza nei Vangeli. E’ assente. C’è 5 volte il verbo obbedire, ma sempre riferito a elementi contrari all’uomo: il vento, il mare. Mai Gesù chiederà ai suoi discepoli di obbedirgli, mai Gesù chiederà ai discepoli di obbedire a Dio. Figuratevi se chiede ai discepoli di obbedire a qualcuno degli apostoli o dei discepoli.

L’obbedienza non fa parte del lessico evangelico, ma al posto dell’obbedienza Gesù inaugura la SOMIGLIANZA.

Noi non obbediamo né a Gesù Cristo, né a Dio, perché Gesù non ci chiede di obbedire né a lui, né al Padre, ma ci chiede insistentemente di assomigliargli. Nel Vangelo non troviamo mai l’invito di Gesù “obbedite al Padre”, ma abbiamo sempre quello di “siate come il Padre vostro”.

L’uomo realizza la sua condizione divina e quindi diventa Signore nella pratica di un amore simile al suo .

Il prologo del vangelo di Giovanni si conclude con questa espressione: “Dio nessuno l’ha mai visto, l’unico che ce l’ha fatto conoscere è Gesù”. Da questo momento tutta l’attenzione deve essere rivolta su Gesù.

Soltanto conoscendo Gesù si arriva a comprendere, a conoscere chi è Dio. Non bisogna partire da una immagine che abbiamo di Dio filosofica o religiosa e poi arrivare a Gesù. Ma eliminiamo ogni idea religiosa, filosofica di Dio, centriamoci su Gesù e tutto quello che crediamo di Dio e non corrisponde in Gesù, va eliminato.[…]

Gesù si presenta con l’attributo divino: “IO SONO…  il cammino, la verità e la vita” (Gv 14,6).

1. Il primo di questi tre aspetti, il cammino, è un termine di movimento, dinamico, non un termine statico. Gesù non si presenta come una realtà statica, ferma, immobile, da adorare, ma come un cammino da percorrere in un crescendo di verità e di vita. Gesù dice: “Io sono il cammino”. Camminiamo con Lui, camminiamo sulle sue tracce.

2. Camminando con Gesù si conosce cos’è la verità. La verità , nel vangelo di Giovanni, è la verità su Dio e sull’uomo. Chi è Dio? E’ un Dio innamorato dell’uomo. Chi è l’uomo? E’ l’oggetto di questo amore di Dio che lo rende suo figlio per la vita.

3. Camminando in questa pienezza della verità si scopre anche la vita e si diventa figli di Dio.

E continua Gesù: “Se voi mi conosceste, conoscereste anche il Padre” (Gv 14,7).

Non c’è una conoscenza del Padre che precede la conoscenza di Gesù, ma la conoscenza di Gesù – l’unica conoscenza – permette la conoscenza del Padre.

Il dramma, almeno della mia esperienza, il dramma di noi cristiani è che non conosciamo Gesù. Il dramma di noi cristiani è che ci hanno imbottito di catechismi, con regole, obblighi, osservanze, ma non ci hanno fatto fare l’esperienza della persona di Gesù.[…]

Nei Vangeli abbiamo un dato sconvolgente, sconcertante. Più le persone sono immerse in un ambito religioso, più le persone vivono di devozioni, di pie pratiche, di atteggiamenti irreprensibili nei confronti della legge di Dio, e più hanno difficoltà a percepire Dio quando si manifesta nella loro esistenza. Più le persone sono lontane da Dio, sia dal punto di vista religioso e sia dal punto di vista morale, e più riescono per primi a percepire la presenza di Dio nella loro vita. Verrebbe quasi da dire: allontaniamoci dalla religione, perché, chi vive in un ambito religioso, è impossibilitato a fare l’esperienza di Dio. Qui c’è Filippo, un ebreo, un giudeo, un praticante che sta con Gesù, ma ancora non ha capito che in Gesù si manifesta il volto del Padre, perché il Dio della religione è un Dio imbalsamato, non un Dio vivo. E’ un Dio da venerare, ma non è un Dio con cui camminare.

Gesù dice: “Da tanto tempo io sono con voi e tu non mi hai conosciuto?”. Ed ecco l’importante dichiarazione di Gesù: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Non chi conosce il Padre, conosce me. Chi ha visto me – dice Gesù – ha visto il Padre.

Cosa significa?

Come già si è espresso nel prologo, Gesù è l’unica fonte per conoscere Dio. Il Padre è  esattamente come Gesù: non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù.

Cosa significa questo? Se io dico: Gesù è come Dio, significa che in qualche maniera ho un’idea di Dio. No, non Gesù è come Dio. Noi Dio non lo conosciamo. Ma Dio è come Gesù. Tutto quello che noi vediamo in Gesù e nelle sue azioni e nel suo insegnamento, questo è Dio . […]

Gesù allora dice: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me, ma il Padre che dimora in me compie le sue opere” (Gv 14,10).

Ecco il criterio sul quale ci soffermeremo : LE OPERE .

Non importa se non credete alle parole, perché le parole possono ingannare, bisogna guardare le opere. L’unico criterio di verità che c’è nei vangeli per stabilire se Gesù viene veramente da Dio o no, e se noi siamo in sintonia con lui o no, non sono le parole, le attestazioni di ortodossia e di fedeltà, ma le opere. E tutte le opere compiute da Gesù sono opere che comunicano e trasmettono vita.

Gesù,  è l’immagine di un Dio esclusivamente buono e ogni rapporto che ha con le persone, è esclusivamente quello della bontà.

Nota:

Il testo è tratto dalla  conferenza di Alberto Maggi dal titolo “Il Dio Impotente” del 15/01/2003 .

Il testo completo può essere scaricato da : http://www.studibiblici.it/index.html

 Dio è come Gesù ! – p. Alberto Maggi OSM

la prassi di Gesù mette in pratica Dio stesso

Gesù teoprassico

“dai loro frutti li riconoscerete”

di J.M. Vigil

Gesù è di quelli che pensano che “bisogna mettere in pratica Dio”. O, detto con linguaggio biblico, che si deve “conoscerlo”, sapendo però che nella Bibbia, questo “conoscere” è sempre pratico, prassico, etico, di comportamento, di intervento nella storia… Per Gesù, Dio non è un entelechia, una ragione suprema, una teoria, nè una dottrina o un’ortodossia. In continuità con la migliore tradizione profetica (Ger 22,16), Gesù proclama che Dio vuole la pratica della giustizia e dell’amore. Fuori da questa pratica, la religione, ridotta a confessione orale, a ortodossia dottrinale o a liturgie rituali, diventa inutile: “Non chiunque dice: Signore, Signore… ma chi fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21-27); “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,27-28). La religione è “teoprassi”, messa in pratica della volontà di Dio. Questo sarebbe un criterio per misurare la veridicità di ogni religione, secondo Gesù. Vigil

Gesù pone nella prassi il criterio di verifica del nostro discorso su Dio e con Dio: quale dei due fratelli ha fatto la volontà del Padre, quello che da detto sì, ma in realtà si è eclissato, o quello che detto che non sarebbe andato ma in realtà vi è andato? (Mt 21,28-32). Quello che “è andato”, dice Gesù, non quello che “ha detto che sarebbe andato”. Ossia: Gesù giunge a dire che mentre rimaniamo nel terreno delle parole e dei propositi, non si può definire la verità decisiva; bisogna aspettare che arrivi l’ora della pratica, e lì ciò che importa è quello che si fa, non quello che si dice. E’ proprio della Verità l’essere principalmente praticata, e non semplicemente professata, dichiarata, ammessa mentalmente, creduta o riconosciuta. 
Non ha molta importanza ciò che una religione dice, la bellezza della sua teologia, l’elaborazione del suo credo o la brillantezza dei suoi dogmi, bensì la storia della sua prassi, il suo comportamento storico, il bene o il male che ha compiuto o tralasciato di fare. 
Gesù è deciso e afferma: “Dai loro frutti li riconoscerete… non può un albero buono dare frutti cattivi” (Mt 7,16-18; Lc 6,43).
J.M. Vigil, Teologia del pluralismo religioso
 

E. Bianchi mette a nudo il nostro tradimento del vangelo

“Delitto e castigo. La tentazione di noi credenti”

di Enzo Bianchi

Bianchi

Dobbiamo confessarlo: ciò che di Gesù ancora oggi scandalizza non sono le sue parole di giudizio, le sue parole severe, a volte dure; non scandalizza neppure il suo operare, perché si riconosce il suo “fare il bene” (cfr. Mc 7,37; At 10,38). No, ciò che scandalizza è la misericordia, interpretata da Gesù in un modo che è all’opposto di quello pensato dagli uomini religiosi, da noi!
A volte sembra che la misericordia sia invocata da Dio, sia augurata e facile da mettersi in atto, e invece — dobbiamo riconoscerlo umilmente — in tutta la storia della chiesa la misericordia ha scandalizzato, e per questo è stata poco esercitata. Quasi sempre è apparso più attestato il ministero di condanna piuttosto che quello della misericordia e della riconciliazione. Basterebbe leggere la storia con attenzione, soprattutto quella dei concili, per vedere con quale sicurezza lungo i secoli si è usata la parabola della zizzania (cfr. Mt 13,24-30), pervertendola. In essa Gesù chiede di non sradicare la zizzania, anche se minaccia il buon grano, e di attendere la mietitura e il giudizio alla fine dei tempi. E invece nella chiesa si è indicato il nemico, il diverso come zizzania, autorizzando il suo sradicamento, fino alla sua condanna al rogo. O si guardi alle nostre storie personali: quanto ci è difficile perdonare, fare concretamente misericordia, lasciarci commuovere da chi è nel bisogno, fino a fare per lui il bene, omettendo di compiere ciò che avevamo pensato contro di lui…
Di più, se è vero che la parola misericordia sembra indicare nella nostra società un sentimento che manca di vigore e di verità — per questo si arriva a dire: “La misericordia, troppo facile!” —, quando poi essa è praticata in modo autentico, in realtà turba, desta obiezioni. Questo perché la misericordia è temibile più della giustizia: “é un ripudio del male in nome della condivisione di un amore”. Il messaggio della misericordia scandalizza, non è capito da quanti si sentono giusti, in pace con Dio (e per i quali Gesù non è venuto: cfr. Mc 2,17), mentre invece è compreso e atteso da chi si sente nel peccato, bisognoso del perdono di Dio. I credenti “religiosi” di ieri e di oggi hanno difficoltà a sentirsi fratelli e sorelle dei peccatori, delle peccatrici, perché nella loro vita non hanno commesso peccati “gravi”, quindi si mettono dalla parte dei giusti, di quelli che possono vantarsi di qualcosa presso il Signore: vantarsi di non aver sbagliato gravemente. é stato così durante il ministero di Gesù, è stato così nella storia della chiesa, è così ancora ai nostri giorni, quando siamo interrogati da papa Francesco proprio sulla nostra capacità di misericordia: misericordia della chiesa, misericordia di ognuno di noi verso chi ha sbagliato o chi ha bisogno del nostro amore. Spesso siamo disposti a fare misericordia se c’è stata punizione, castigo di chi ha fatto il male (e diciamo che questa è giustizia!), se il peccatore è stato sufficientemente umiliato e solo se chiede misericordia come un mendicante. In ogni caso, stabiliamo dei precisi confini alla misericordia, perché pensiamo che certi errori, certi sbagli, certe scelte avvenute nel male e non più riparabili debbano essere punite per sempre dalla disciplina ecclesiastica: per alcuni errori dai quali non si può tornare indietro non c’è misericordia, dunque la misericordia non è infinita, ma può essere concessa solo a precise condizioni…
 

Ecco il nostro tradimento del Vangelo, ecco come la misericordia ci scandalizza.

 

chi è Gesù?

COSA SIGNIFICA CHE GESÙ È IL DIO-CON-NOI?

di Alberto Maggi

maggi
che con Gesù, Dio non è più da cercare, ma da accogliere e con Lui e come Lui andare verso gli uomini. Mentre prima di Gesù la direzione degli uomini era orientata verso Dio, e tutto quello che si faceva si faceva per Dio e Dio era al primo posto e l’uomo al secondo: amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutto te stesso cioè l’amore a Dio era totale, l’amore al prossimo no: amerai il prossimo tuo come te stesso perciò un amore limitato, un amore relativo. Quindi prima di Gesù l’umanità era orientata verso Dio: tutto quello che faceva lo faceva per Dio; con Gesù tutto questo cambia. Con Gesù l’uomo non vive più per Dio ma vive di Dio e con Lui e come Lui non andrà più verso Dio, perché Dio è con noi, ma andrà verso gli uomini. Quindi nei Vangeli l’unico valore assoluto, l’unico valore veramente non negoziabile è il bene dell’uomo. Non c’è altro valore più importante del bene dell’uomo, questo è il significato del Dio-con-noi

twitter, il linguaggio di Gesù

 

 

 

croce

 

come parlerebbe oggi Gesù? quali mezzi userebbe? non ha già usato a suo tempo, tramite le parabole, una modalità linguistica assimilabile , oggi, a twiter che con pochissimi caratteri (140) delinea immagini, progettualità, stili di vita?

si legge con interesse a questo proposito, l’articolo di C. Marroni:

@Gesù usava bene Twitter

di Carlo Marroni
in “www.ilsole24ore.com” del 26 settembre 2013

La ricerca della verità. È su questo punto di fuga del rapporto tra fede e ragione che si gioca il dialogo tra credenti e non credenti, che possono «fare un tratto di strada insieme» come ha scritto Papa Francesco nella sua storica lettera al grande laico Eugenio Scalfari. Proprio il fondatore di Repubblica ha dialogato sui temi della fede e della laicità, ma anche del perdono e della misericordia, con il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio del la Cultura, che da pochi anni ha creato il Cortile dei Gentili, foro di incontro e dialogo tra credenti e non credenti. Un confronto a tutto campo incentrato sui temi della comunicazione e l’informazione, tanto che ieri è stato è ribattezzato per l’occasione “Il cortile dei giornalisti”, che ha coinvolto i direttori dei maggiori quotidiani nazionali, moderati da Emilio Carelli. Ma è stato Ravasi a sorprendere la platea del Tempio di Adriano. «Gesù usava il linguaggio di twitter e della tv. È stato il primo twittatore della storia», ha detto il porporato, anche lui presente sul social network con quasi 60mila follower. «Si esprimeva con frasi che spesso non arrivavano a 100 caratteri, spazi compresi. Prendiamo la prima predica, quando disse “Il regno di Dio è vicino, convertitevi” era ancora più breve. O “Ama il prossimo tuo come te stesso”». In Gesù Cristo «è sistematico l’uso della frase essenziale, tipica dei tweet, mentre il pensiero viene spesso articolato con parabole costruite in modo televisivo o cinematografico, basti pensare ai racconti sul buon samaritano o sul figliol prodigo». Eppoi la “corporeità”, la vicinanza alle persone, il contatto, un elemento questo distintivo dell’azione di Papa Francesco, che ha fatto della “prossimità” , soprattutto agli ultimi, la sua bandiera pastorale. «Non siamo qui per convertirci a vicenda, ma abbiamo in comune la convinzione che le nostre posizioni diverse debbano essere lievito per una terra che ha bisogno di essere fertilizzata», ha detto Scalfari, che ha rivelato di aver praticato quando era ventenne forzatamente gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, nella Casa del Sacro Cuore a Roma, dove trovò rifugio come renitente alla leva fascista. Da allora è «innamorato di Gesù», proprio da quando, in gioventù – dopo aver frequentato per anni la Chiesa – scelse di abbandonare la fede. Ma è la ricerca della verità, attraverso il prisma della laicità, il terreno di confronto, specie per chi è giornalista, e ancora più per chi i giornali ha la responsabilità di dirigerli. «La laicità è un faro nel nostro modo di fare informazione, ispirato a rigore e metodo. Mettendo la notizia davanti a tutto, pur nel rispetto della dignità delle persone», ha osservato Roberto Napoletano, direttore del Sole 24 Ore. «Noi operiamo con il linguaggio e l’etica dei numeri, che parlano al cuore e all’anima. E spesso raccontano più di tante parole», ha aggiunto Napoletano, secondo cui «il Vangelo, a suo modo, è un grande esempio di laicità nella forza delle parabole, la loro straordinaria e immediata concretezza». E allo stesso tempo «la ragione allarga il suo orizzonte con la fede, perché la fede ti sorprende, ha lo sguardo sull’abisso. Ma la fede ha bisogno della ragione, e in questo dialogo anche l’ateo deve riconoscere una cosa importante: che la fede è un dono». Per Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera «se c’è una colpa di cui ci si sono resi responsabili i giornalisti è quella di non aver rispettato la centralità della persona, aumentando il rischio di distruggere vite umane». De Bortoli ha ricordato che i giornali non sono i depositari della verità e nel lavoro di giornalista è sempre importante farsi accompagnare dal «beneficio laico del dubbio». E ha anche espresso perplessità sulla presenza del Papa su twitter (iniziata da Benedetto XVI e proseguita con Francesco): «Mistero e distanza vanno mantenuti». Approva invece Ezio Mauro: «Lo si usa per esprimere un’opinione, non credo sia un male», ha osservato il direttore di Repubblica, che oltre a quella di Francesco ha ospitato la lettera di Benedetto XVI a Piergiorgio Odifreddi. E ha battuto il tasto, per il lavoro di giornalista, sull’onestà
nei confronti dei lettori e sulla “separatezza” rispetto al potere: «Per fare questo mestiere non dobbiamo essere complici del potere, dobbiamo stare nel cortile, tra le gente». Grande apprezzamento verso la “rivoluzione” di contenuti e linguaggi impressa nella Chiesa dal pontificato di Francesco: un esempio del fatto che «la realtà va sempre oltre ogni stereotipo». Per Mario Calabresi, direttore della Stampa, dall’intervista di Bergoglio a Civiltà Cattolica emerge l’immagine di «una Chiesa che non può più stare nel vestito che gli è stato cucito addosso», e da questo punto di vista sono «tempi grami per i pigri e affascinanti per chi vuole seguirne l’evoluzione». La Chiesa sta cambiando, ha osservato il direttore del Messaggero, Virman Cusenza, «la sua fisionomia di potere nel rapporto con la stampa. La forza dirompente del messaggio di Francesco è legata a un’evoluzione di potere che la Chiesa stessa aveva». Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, ha aggiunto: «Quello che è accaduto con l’elezione di Bergoglio è qualcosa di storico C’è stato un rivoluzionamento degli sguardi sui gesti della Chiesa. Questo è dovuto al carisma di Francesco ma anche al gesto di Benedetto XVI». La rivoluzione di Bergoglio, per il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, è nel solco storico del «desiderio della Chiesa di farsi capire da più persone possibile e non è una novità», ha detto ricordando l’intervista concessa da Leone XIII a una giornalista socialista su Le Figaro nel 1892, le aperture di Pio XI, e il dialogo tra Montini e Jean Guitton nel 1950. Con un’aggiunta: «Il giornale è la Bibbia laica, ma molto più interessante è la Scrittura Sacra vera».

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