il commento al vangelo della domenica

quel Dio che ha scelto come beati gli ultimi


Quel Dio che ha scelto come beati gli ultimi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della  trentunesima Domenica del tempo ordinario (1 novembre 2020): Tutti i Santi
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
[…] Beato l’uomo, prima parola del primo salmo. Cui fa eco la prima parola del primo discorso di Gesù, sulla montagna: Beati i poveri. Cosa significa beato, questo termine un po’ desueto e scolorito? La mente corre subito a sinonimi quali: felice, contento, fortunato. Ma il termine non può essere compresso solo nel mondo delle emozioni, impoverito a uno stato d’animo aleatorio. Indica invece uno stato di vita, consolida la certezza più umana che abbiamo e che tutti ci compone in unità: l’aspirazione alla gioia, all’amore, alla vita. Beati, ed è come dire: in piedi, in cammino, avanti, voi poveri (A. Chouraqui), Dio cammina con voi; su, a schiena dritta, non arrendetevi, voi non violenti, siete il futuro della terra; coraggio, alzati e getta via il mantello del lutto, tu che piangi; non lasciarti cadere le braccia, tu che produci amore. Profondità alla quale non arriverò mai, Vangelo che continua a stupirmi e a sfuggirmi, eppure da salvare a tutti i costi; nostalgia prepotente di un mondo fatto di pace e sincerità, di giustizia e cuori puri, un tutt’altro modo di essere vivi. Le beatitudini non sono un precetto in più o un nuovo comandamento, ma la bella notizia che Dio regala gioia a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno, il Padre si farà carico della sua felicità. Vostro è il regno: il Regno è dei poveri perché il Re si è fatto povero. La terra è dei miti perché il potente si è fatto mite e umile. A questa terra, imbevuta di sangue (il sangue di tuo fratello grida a me dal suolo), pianeta di tombe, chi regala futuro? Chi è più armato, più forte, più spietato? O non invece il tessitore di pace, il non violento, il misericordioso, chi si prende cura? La seconda dice: Beati quelli che sono nel pianto. La beatitudine più paradossale: lacrime e felicità mescolate assieme, ma non perché Dio ami il dolore, ma nel dolore egli è con te. Un angelo misterioso annuncia a chiunque piange: il Signore è con te. Dio è con te, nel riflesso più profondo delle tue lacrime per moltiplicare il coraggio; in ogni tempesta è al tuo fianco, forza della tua forza, argine alle tue paure. Come per i discepoli colti di notte dalla burrasca sul lago, Lui è lì nella forza dei rematori che non si arrendono, nelle braccia salde sulla barra del timone, negli occhi della vedetta che cercano l’aurora. Gesù annuncia un Dio che non è imparziale, ha le mani impigliate nel folto della vita, ha un debole per i deboli, incomincia dagli ultimi della fila, dai sotterranei della storia, ha scelto gli scarti del mondo per creare con loro una storia che non avanzi per le vittorie dei più forti, ma per semine di giustizia e per raccolti di pace.
(Letture: Apocalisse 7,2–4.9–14; Salmo 23; Prima lettera di san Giovanni 3,1–3; Matteo 5,1–12a)

il commento al vangelo della festa di tutti i santi

Alessandro Cortesi 

Commento Festa di tutti i santi – anno B

festa di tutti i santi – anno B – 2018
Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

Nella grande visione dell’autore dell’Apocalisse Gesù Cristo è presentato nell’immagine dell’agnello ferito, ma in piedi. Nel simbolo dell’agnello e della ferita è da leggere il riferimento alla passione e alla morte: condotto come agnello al macello ha reagito con la nonviolenza all’ingiustizia e alla menzogna che l’hanno condotto al supplizio. La ferita mostra il sangue versato. Ma è in piedi. Ferito e vulnerabile è passato attraverso la morte ma questa non ha avuto potere su di lui: l’agnello inerme è così immagine del risorto che ha vinto la morte. La sua comunità, sa di dover vivere la prova e la sofferenza ma sa anche che Gesù Cristo è colui che può sciogliere i nodi che legano il libro della vita e della storia. Questo incontro ha i tratti di una grande liturgia che coinvolge il lettore. E’ così ‘vista’ una “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare…”. E’ la moltitudine di tutti coloro che hanno vissuto la loro testimonianza – tengono la palma, simbolo del martirio tra le mani – ed hanno percorso con fedeltà la strada di Gesù agnello inerme e indifeso.

Nella festa di tutti i santi i simboli dell’apocalisse invitano a leggere la vita della comunità che segue Gesù: è composta di tanti volti e tanti nomi che hanno testimoniato la via di Gesù seguendolo sulla sua strada. Sono innumerevoli e la loro testimonianza è quella di chi non ha avuto clamore, visibilità ma è stato fedele nel quotidiano, nella semplicità della vita ordinaria. E al centro sta la presenza di Dio.

La prima lettera di Giovanni richiama il cammino della fede, tra un ‘già’ che viviamo nel presente, ed un ‘non ancora’ da attendere e da affrettare. “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è.”

Ancora non è rivelato il nostro volto più profondo: sin d’ora siamo ‘figli’, partecipi di una relazione che è dono e che precede. Figlio e figlia, sono nomi di legame, di dipendenza da un dono di vita ricevuto che conduce a scorgere come la vita provenga da altri e da altrove. Siamo chiamati con il nome unico che Dio ha pronunciato per ciascuna e ciascuno. Ma questo nome è anche un seme che richiede cura, luce e spazio, per poter crescere. C’è nell’esistenza una chiamata che si sviluppa nelle varie tappe e circostanze della vita: diventare simili al volto di Gesù che ha fatto della sua vita un dono per il Padre e per gli altri. Nell’incontro con lui si compie così il nostro nome. La vita dei cristiani si colloca anche in una attesa che non è vuota: talvolta è piena di dolore ma soprattutto è piena di responsabilità. Lo vedremo così come egli è: questo incontro è già iniziato in quel vedere che è lo sguardo del credere, che si lascia trasformare nell’affidamento.

“Beati i miti perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”. Gesù propone una parola di felicità quale orizzonte dell’esistenza. I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia, tutti voi quando vi insulteranno… sono chiamati a rallegrarsi. Quale è il motivo per rallegrarsi? Gesù non vuole per i suoi la povertà, la persecuzione, l’ingiustizia. Piuttosto annuncia che Dio sta dalla parte di tutti coloro che vivono in queste situazioni, e si rende vicino, per liberarli. Prende le loro parti. Gesù annuncia con la sua vita che Dio ‘ha guardato alla condizione umile dei suoi servi’, di tutti coloro che si affidano a lui e non hanno potenza e ricchezza e strumenti di affermazione umani. Questa è ragione del rallegrarsi: chi vive in questo orientamento è nella strada di Gesù. Nella pagina delle beatitudini in fondo si parla di Gesù che s’identifica con le vittime e i poveri: è lui il vero povero, mite, puro di cuore. Chi si appoggia in lui trovando in lui il senso della propria esistenza può aprirsi ad una vita bella, ad una gioia profonda, ad una felicità che non è assenza di problemi o spensieratezza, ma esistenza segnata dall’accogliere la presenza di Dio vicino e liberatore che a cuore la felicità delle sue figlie dei suoi figli e li rende strumenti di liberazione per altri.

Alessandro Cortesi

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