” non è brutto perdere i pregiudizi, perdere le paure, perdere il dolore” Ezio Bosso

la picconata di Ezio Bosso ai pregiudizi sulla disabilità

Bosso

di Gian Antonio Stella
in “Corriere della Sera” del 12 febbraio 2016stella

«perdersi per imparare a seguire: perdere è brutto ma non è brutto perdere i pregiudizi, perdere le paure, perdere il dolore» e più ancora ha ricordato quanto la musica conti perché «si fa insieme» e «noi (i musicisti) mettiamo le mani ma ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare»

«E chi mi porta via?». È stato lì, dopo la standing ovation dell’Ariston con gli orchestrali commossi fino alle lacrime, pudiche e mute, che Ezio Bosso ha avuto l’unico attimo di smarrimento. Quello di chi, dopo un quarto d’ora di magica sospensione della realtà vede riemergere la sua disabilità. La fatica di ogni giorno. Ogni ora. Ogni momento. Il pianista, compositore e direttore d’orchestra torinese ha fatto tre bellissimi regali, l’altra sera, agli italiani. Il primo: l’esecuzione al pianoforte del suo struggente «Following a Bird» («Sarebbe “inseguendo un uccellino” ma in inglese è più fighetto», ha ammiccato) che ha emozionato una platea abituata per decenni alle rime cuore amore. Il secondo: ha spiegato quanto sia importante, andando all’inseguimento di quell’uccellino, «perdersi per imparare a seguire: perdere è brutto ma non è brutto perdere i pregiudizi, perdere le paure, perdere il dolore» e più ancora ha ricordato quanto la musica conti perché «si fa insieme» e «noi (i musicisti) mettiamo le mani ma ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare». Parole bellissime in un Paese dove la voglia di ascoltare (la buona musica, i dialoghi del grande teatro, le opinioni altrui, le voci di chi è ai margini…) pare sempre più affievolirsi. Peccato: saper ascoltare, spiegava Wolfgang Goethe, «è un’arte». Il regalo più grande, però, è stato il terzo: lo straordinario coraggio, arricchito da una leggerezza contagiosa e qua e là allegra, con cui si è offerto a milioni di italiani in tutta la sua dignitosa fragilità corporale. Non molti di quei milioni di italiani che erano davanti alla tivù, come confermano i numeri di Google fino all’altro ieri, lo conoscevano. Non molti sapevano che Ezio Bosso è stato un «enfant prodige», che ancora ragazzino teneva già concerti in giro per l’Europa, che per anni ha saputo mischiare più generi musicali, che ha suonato nei più grandi teatri del pianeta e diretto tra le altre le orchestre dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, della London Symphony, del Teatro Regio di Torino… Forse ancora meno sapevano che pochi anni fa, nel 2011, fu colpito dalla Sla, la Sclerosi laterale amiotrofica che giorno dopo giorno ha fiaccato i suoi muscoli rubandogli, la stramaledetta, la forza fisica senza riuscire però a fiaccarlo nell’anima. Per millenni le persone fragili come lui sono state nascoste in casa, celate nelle stanze più scure come fossero una colpa così come pensava Gregorio Magno («Un’anima sana non albergherà mai in una dimora malata»), piazzati in remoti conventi tipo l’abbazia di Reichenau su un’isoletta del lago di Costanza come sant’Ermanno il rattrappito, affetto lui pure da una malattia degenerativa che gli impediva perfino di stare seduto ma non di comporre un capolavoro come il «Salve Regina». O rinchiuse più recentemente in istituti fuori mano come fecero col figlio Daniel perfino un intellettuale liberal come Arthur Miller o col figlio Eduard un genio imperfetto quale Albert Einstein. Per non dire dei disabili addirittura eliminati come «scarti», direbbe papa Francesco, dalle società più antiche («È ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani», scrisse Seneca teorizzando la necessità di annegare «anche i nostri figli, se sono venuti alla luce minorati o anormali») e giù giù fino a quelle di pochi decenni fa. Vedi le leggi eugenetiche giapponesi abolite completamente solo nel 1996 o la selezione assassina del programma Aktion T4 voluto da Adolf Hitler che autorizzò i medici nazisti, attenzione alle parole, a «concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio». Ecco, offrendosi l’altra sera nel suo genio così grande e così gracile all’immenso pubblico di Sanremo, Ezio Bosso ha dato una bella picconata a quella lunga storia d’infamia. E una sberla a chi ancora oggi (avete presente Gasparri l’altra settimana?) usa la parola «handicappato» come un insulto o si avventura in spiritosaggini dissennate come ieri il blog spinoza.it: «È davvero commovente vedere come anche una persona con una grave disabilità possa avere una pettinatura da coglione». Al che il pianista ha risposto beffardo: «È perché cerco di pettinarmi da solo». Dieci a zero, palla al centro.
Di più: il compositore ha dimostrato ancora una volta quanto possano avere senso le parole «diversamente abile». Non perché «politicamente corrette» o dettate da buona educazione ma perché hanno un significato pieno, denso, reale. Quanti «normodotati» troppo spesso così superficiali e sprezzanti con le persone fragili saprebbero a trasmettere l’arte, la poesia e le emozioni di «Following a Bird»