occorre una nuova politica della migrazione

politica della migrazione

una mancanza che pesa

di Donatella Di Cesare
in “Corriere della Sera” del 15 marzo 2018

Il voto in Italia è la conferma della crisi che da tempo affligge la sinistra europea. Così viene giudicato dai media e dall’opinione pubblica all’estero. Numerose sono le analisi che interpretano l’esito delle elezioni mettendo l’accento sul travaso dei voti dal Pd ai 5 Stelle (che segue peraltro quello degli ex Pci passati alla Lega). La questione riguarda anche Leu e in generale tutta l’area della sinistra. Le cause indicate sono molteplici. Per lo più prevale l’idea, senz’altro vera, ma troppo sbrigativa, che la sinistra abbia abbandonato «i propri territori», che non sia stata capace di dare voce a scontenti, disoccupati, disagiati. In breve: l’emancipazione si sarebbe arrestata. Ecco il motivo — si dice — della crisi, anzi dello spegnimento della sinistra. Sennonché lo scenario è ben più complesso. Lo dimostra il ruolo giocato dal tema della migrazione prima e durante la campagna elettorale. I toni accesi, gli episodi violenti — come dimenticare Macerata? — vanno ricondotti a tale contesto. Per le strade e nel web non si parlava d’altro. O quasi. Perciò nelle analisi politiche sarebbe un grave errore non riconoscere che la migrazione è stata un punto dirimente. Contro questa frontiera della democrazia ha urtato arenandosi una sinistra che non ha saputo intervenire per tempo. Una questione globale ha potuto così essere letta nei termini di un sovranismo provinciale. È mancata una narrazione alternativa in grado di delineare la complessità in modo semplice e non semplicistico, comprensibile a tutti. Nel migliore dei casi è stata fornita quella lettura economicistica dell’immigrazione che trasforma i cittadini-lavoratori in utili risorse umane: «lasciamoli entrare, perché ci servono».

Come se non fosse proprio questo il dispositivo del mercato neoliberista che, se da un canto attrae, dall’altro respinge i migranti che sono voluti, ma non benvenuti, richiesti come lavoratori, ma indesiderati come stranieri, vittime perciò di una duplice discriminazione, di «razza» e di «classe». Il problema, che ha investito, tutta la sinistra, non solo quella italiana, si può riassumere così: la giustizia sociale funziona unicamente all’interno dei confini nazionali? Occorre farsi carico solo del benessere economico degli autoctoni, salvaguardare e incrementare i diritti dei cittadini, in particolare — è ovvio — dei più poveri? Se è cosi, si accetta la frontiera fra cittadini e stranieri. Ma proprio questa frontiera è inaccettabile per la sinistra che finisce per tradire la sua provenienza e la sua vocazione: l’ideale della solidarietà. La giustizia sociale non può fermarsi ai confini nazionali.

Non è un caso che nel contesto tedesco dove, malgrado la crisi economico-finanziaria, il welfare ha tenuto, il tema della migrazione sia stato affrontato diversamente. Perché non si tratta di addossarsi la miseria del mondo, bensì di accettare una sfida epocale e inaggirabile. «Ce la faremo», sono le parole pronunciate nell’estate del 2015 da Angela Merkel che passerà alla storia per essere stata l’unico leader europeo ad aver richiamato i cittadini a una solidarietà responsabile. Ha fallito? Difficile dirlo. Tanto più che ha spiazzato il partito socialdemocratico. Ma certo ha avuto il coraggio di tentare. Purtroppo in Italia il tema della migrazione è stato affrontato in modo schizofrenico, da una parte consegnandolo alla pur decisiva carità etico-religiosa del volontariato, dall’altra facendone una questione di sicurezza e di ordine pubblico. È mancata e manca una politica della migrazione. Ed è grave che non sia stata sviluppata dalla sinistra con categorie nuove, che non riducano la politica a governance, a mera amministrazione. Proprio il tema della migrazione prova la necessità di una cultura politica in grado di sollevare lo sguardo di chi è ripiegato su di sé e rischia di non vedere quello che avviene oltreconfine

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