un ricordo di don Milani

Il 26 giugno 1967 moriva a Firenze don Lorenzo Milani

un ricordo di don Giorgio de Capitani

don milani
di don Giorgio De Capitani
Il 26 giugno 1967 moriva a Firenze don Lorenzo Milani, a causa di un linfogranuloma. Aveva 44 anni.

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Su don Lorenzo Milani è stato scritto ed è stato detto di tutto e di più. Cose anche scontate, trite e ritrite. Attingendo ai suoi scritti anche in modo del tutto inopportuno. Ognuno si è fatto di don Lorenzo il proprio mentore, in modo vergognoso. Non c’è forse un politico che non abbia citato almeno una sua frase: anche Matteo Salvini, che, se fosse ancora vivo don Milani, sarebbe finito all’inferno a pedate nel culo.

 

Milani

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Credo che la cosa più giusta da fare sarebbe scoprire lo spirito di don Milani, e farlo rivivere all’oggi. Non è facile, abituati come siamo a celebrare il personaggio storico, ciò che ha detto e ciò che ha fatto, senza uscire dal momento storico, per farlo rivivere, appunto, nel suo spirito.

Come si può parlare di spirito o di anima all’uomo d’oggi? Come far rivivere il pensiero profondo di chi ha lanciato un messaggio oltre la contingenza storica? Ciò che ha fatto don Milani può interessare sì e può interessare no. Oggi don Milani farebbe altre cose. È ciò che anima l’agire che conta e che va raccolto. Ed è qui che entra in gioco la capacità intuitiva o quell’intelligenza che, come dice la parola, legge la realtà nel suo profondo.Milani1

Se devo anch’io dire qualcosa del suo agire, ecco, due sono le cose che mi hanno colpito di don Lorenzo Milani: il suo amore al locale, ma pensando in grande. Difficilmente usciva fisicamente dal piccolo della sua parrocchia di poche anime, ma ha lanciato un messaggio a tutto il mondo.

 




don Giorgio de Capitani: il suo ‘singolare’ ricordo del card. Martini

Un po’ di indignazione, perdinci!

scola martini

la domenica 31 agosto u.s. ha avuto luogo nel duomo di Milano una solenne commemorazione del card. Martini nel secondo anniversario della sua morte

ha presieduto la commemorazione il card. Scola: non è piaciuto per niente a don Giorgio de Capitani la modalità e il taglio che il cardinale ha dato nella sua omelia generica e cerebrale oltreché priva di mordente, fino al punto da far esclamare a don Giorgio arrabbiatissimo: “Almeno un po’ di indignazione, cazzo!, ci è rimasta ancora?”

di seguito le sue interessanti riflessioni:

Prima delle mie riflessioni, vi offro da leggere il testo integrale dell’omelia che il cardinale Angelo Scola ha tenuto, domenica pomeriggio, 31 agosto, nel Duomo di Milano, durante la Messa di commemorazione del secondo anniversario della morte di Carlo Maria Martini.
Premetto solo che, come racconta il cronista sul sito ChiesadiMilano.it, tra le navate gremite hanno trovato posto a fatica migliaia di persone di ogni età, in prima fila sedevano la sorella Maris e il nipote, Giovanni Facchini Martini, che non hanno voluto mancare insieme a una decina di altri parenti. Concelebravano il rito oltre cento sacerdoti, tra cui il cardinale Tettamanzi, sei Vescovi, l’intero Capitolo metropolitano, il vicepresidente della “Fondazione Martini” padre Costa, il Moderator Curiae, mons. Marinoni, i Vicari episcopali di Zona e di Settore, e i segretari succedutisi al fianco di Martini come Pastore di Milano.
ARCIDIOCESI DI MILANO
I DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 65.13-19; dal Sal 32; Ef 5,6-14; Lc 9,7-11
CELEBRAZIONE EUCARISTICA NEL SECONDO ANNIVERSARIO
DEL CARD. CARLO MARIA MARTINI
DUOMO DI MILANO
DOMENICA, 31 AGOSTO 2014
OMELIA DI S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO
1. Un destino di gioia
«Io creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo» (Lettura, Is 65,18-19a). Non solo il Padre destina ogni uomo e l’intero suo popolo alla gioia, ma è Lui stesso, per primo, a provare gioia per la sua creatura, a godere per il suo popolo. Lo scambio d’amore tra le Persone della Trinità si dilata ad abbracciare l’uomo e tutta la famiglia umana.
Questa sera facciamo memoria viva del Card. Carlo Maria Martini, nel vincolo di comunione con il Beato Card. Ildefonso Schuster, la cui figura abbiamo ricordato ieri. L’affermazione del profeta: «Io esulterò di Gerusalemme», richiama il legame del tutto speciale con Gerusalemme del Cardinale Martini. Là egli si è stabilito, al termine del suo ministero milanese, «per pregare e per studiare» fino a quando la malattia glielo ha permesso.
2. Sottrarsi alla relazione con Dio spezza l’io
Cosa dice a noi la commemorazione di questi due Arcivescovi passati all’altra riva, la dimensione del definitivo compimento? Ci richiama al dato che finché siamo nella carne e nella storia, la lama della nostra libertà può recidere l’alleanza che Dio ha stretto con noi. Ma, rifiutando di appartenerGli, l’uomo si nega l’esperienza della gioia e del gaudio. Lo esprime la tremenda opposizione che Isaia stabilisce tra il piccolo resto di coloro che rimangono fedeli al Signore e coloro che vi si ribellano: «I miei servi mangeranno e voi avrete fame; … berranno e voi avrete sete; i miei servi giubileranno per la gioia del cuore, voi griderete per il dolore del cuore, urlerete per lo spirito affranto [il verbo latino frangere dice un io spezzato; il venir meno di un io, che si spezza]» (Lettura, Is 65,13a -14).
3. Gesù ci ha resi luce nel Signore
E tuttavia la dura parola del profeta non è l’ultima parola. «Ecco… io creo nuovi cieli e nuova terra» (Lettura, Is 65,17a).
Gesù è venuto per salvarci, per ricondurci al Padre. È sceso nell’abisso del peccato e della morte, ha attraversato fino in fondo le nostre tenebre per farci figli della luce. Non dobbiamo aspettare di diventare figli in forza dei nostri meriti, lo siamo. «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (Epistola, Ef 5,8a). La grazia del Battesimo trasforma in profondità la persona: «I miei servi saranno chiamati con un altro nome» (Lettura, Is 65,15b), ed il suo agire: «Comportatevi perciò come figli della luce» (Epistola, Ef 5,8b).
Qui sta l’origine dell’ansia pastorale del Card. Martini che lo portava ad ascoltare tutti in modo “criticamente” aperto, anche le resistenze, le fatiche e perfino i tratti di confusione che talora ci portiamo dentro. Significativa in questo senso è una sua riflessione che illumina il sacrificio eucaristico che stiamo celebrando: «Nella Messa Gesù ci raggiunge con la sua Pasqua e, se ne prendiamo seriamente coscienza, pone in noi ogni volta il dinamismo dell’amore, la forza di quella carità che è riverbero dell’essere stesso di Dio. Perché l’Eucaristia ci accoglie dalle oscure regioni della nostra lontananza spirituale, ci unisce a Gesù e agli uomini e ci sospinge con Gesù e con gli uomini verso il Padre; è come un sole che attira a sé l’umanità e con essa cammina per raggiungere un termine misterioso, ma certissimo» (Carlo Maria Martini, Ritrovare se stessi, Piemme 1996).
Dio si prende cura di noi. Gli insistenti richiami di Papa Francesco ci urgono ad essere testimoni nelle nostre comunità, nelle nostre città e paesi. In questi giorni in cui riprendiamo la nostra vita ordinaria vogliamo vivere la testimonianza cristiana nell’ottica della “confessio fidei” che l’8 maggio scorso abbiamo compiuto, portando il Sacro Chiodo negli ambienti della sofferenza, dell’emarginazione, dell’immigrazione, del lavoro, della cultura ed infine in Piazza del Duomo. A significare che il campo della vita cristiana è il mondo.
4. «Paure e speranze di una città»
Ci sta a cuore ogni uomo ed ogni donna della nostra Milano e di tutte le terre ambrosiane. Sappiamo che per imparare ad amare tutti dobbiamo incominciare dall’amare, con fedeltà oggettiva, quanti la Provvidenza ci mette vicini. Per questo la testimonianza di fede non può non implicare il contributo dei cristiani all’edificazione della vita buona nella città degli uomini. Voglio citare in proposito il discorso del Cardinal Carlo Maria Martini al Comune di Milano del 28 giugno 2002, “Paure e speranze di una città”. Vi si trova un’importante ed assai attuale affermazione: «…“Scegliersi l’ospite è un avvilire l’ospitalità” diceva Sant’Ambrogio… Il magnanimo ospitante non teme il diverso, perché è forte della propria identità. Il vero problema è che le nostre città, al di là delle accelerazioni indotte da fatti contingenti, non sono più sicure della propria identità e del proprio ruolo umanizzatore…». Bisogna guardare la città «come opportunità e non solo come difficoltà…».
Ovviamente l’identità solidale cui il Cardinale fa riferimento non è da intendere in modo statico, inevitabilmente difensivo e, alla lunga, incapace di affrontare il nuovo. Essa identifica piuttosto un processo nel quale la tradizione è concepita come un’esperienza in continua crescita. Fondata su saldi presupposti essa è sempre aperta al nuovo, non è invenzione, ma sempre recezione, drammatica ma feconda, della trama di circostanze e di rapporti di cui è intessuta la storia.
Così il richiamo del Cardinale incontra anche oggi l’istanza profonda della città ormai metropolitana e, quindi, delle terre lombarde. E l’urgenza di nuovo umanesimo, cioè ricerca di senso, capace di tenere in unità il molteplice a partire dalle diverse visioni del mondo che anche a Milano ormai si incrociano.
Nella pratica di una familiare convivenza donne e uomini, soggetti personali e sociali sono chiamati ad edificare culture vivibili che non rinuncino però alla cultura. Senza tensione all’unità le culture restano frammenti di un puzzle che non si lascia comporre e non rivela il suo disegno intero.
I cristiani hanno ricevuto, per puro dono, l’anelito all’unità che valorizza la pluriformità. Il Vangelo della Messa di oggi indica il punto di partenza di questa indomita ricerca: la domanda di Erode – «Chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?» (Vangelo, Lc 9,9b). È la domanda fondamentale per ogni uomo che si imbatta, direttamente o indirettamente, con la persona di Gesù.
5. «E cercava di vederlo»
Dice il Vangelo che Erode «cercava di vederlo» (Vangelo, Lc 9,9b). È la stessa espressione che San Luca usa per Zaccheo. Ma la curiositas dei due non è la stessa. Quella di Erode è falsificata, alla radice, dal terrore di perdere il potere. Non è apertura all’altro, ma accanita difesa di sé. A noi la scelta.
Al termine di questa santa Eucaristia ci recheremo a pregare sulla tomba del Cardinal Martini perché il Signore protegga il nostro cammino ecclesiale e civile. Ci sostengano la Santa Vergine, Sant’Ambrogio e San Carlo e il Beato Cardinal Schuster sulla cui tomba pure pregheremo. Amen.
 
Ho letto per la prima volta il testo dell’omelia, domenica sera, sul tardi, prima di andare a letto. L’impressione che ho avuto è stata fortemente negativa, tanto da evitare di commentarla. Sarebbero uscite espressioni non certo edificanti. Ho lasciato passare la notte. Il giorno dopo, di primo mattino, l’ho riletta, e il giudizio non è cambiato.
Che dire? Ancora una volta rimango allibito di fronte a un cardinale, Angelo Scola, che quando predica fa di tutto per dire nulla o quasi quando si tratta di scegliere. E domenica doveva scegliere da che parte stare. Certo, l’ha fatto capire, presentando la figura di Martini come un pretesto per giustificare ciò che lui, Angelo Scola, sta facendo, ovvero l’esatto opposto di ciò che ha fatto Martini. Sbaglio dicendo “ciò che ha fatto”. Martini prima “pensava”, poi eventualmente faceva. Scola non so se pensa: egli tenta di fare qualcosa, e continuamente giustifica ciò che fa, anche le cazzate, come quel mettere in mostra davanti al mondo il chiodo-morso del cavallo di Costantino. Venerato, in un contesto teatrale da far inorridire lo stesso Martini: neppure Tettamanzi ha condiviso una simile oscena banalità. La follia della Croce è un’altra cosa! Una Croce che merita più il silenzio che le parole, e tanto meno le faraoniche sceneggiate meneghine!
Ora vorrei chiedere non solo ai cosiddetti “martiniani!”, ma a tutti coloro che hanno ascoltato in Duomo di Milano le parole di Scola o hanno letto l’omelia, che cosa ne pensino. In tutta sincerità.
Uscite una buona volta dal vostro timoroso silenzio! Perché dovrei essere l’unico a espormi pubblicamente, così da farmi giudicare come se fossi un pulcino nerissimo nel candore di una diocesi che trabocca di un cristianesimo modello per tutta l’umanità?
Un cardinale come Martini (lascio da parte Schuster, anch’esso strapazzato da commemorazioni formali!) meritava di essere ricordato così come ha fatto Scola? Quando non si sa che cosa dire, si citano alcune frasi del personaggio “scomodo”, in un contesto che dice tutto il contrario.
La diocesi milanese sta camminando sulle orme di Martini? Di quale Martini?
Scola e Martini sono su due piani completamente diversi. Non potranno mai congiungersi. Scola, se fosse sincero, dovrebbe dire semplicemente: Martini aveva una sua idea di Chiesa, io ne ho un’altra! Ti stimerei di più, se lo riconoscessi. La stessa parola umanesimo  vi divide. Tu lo intendi in un modo, Martini in un altro, completamente diverso. Lascia stare Martini, e non commemorarlo più.
Concèntrati ora sull’Expo 2015. Sarà per la diocesi un’altra grande sconfitta, perché  la strada evangelica è altrove.
Almeno un po’ di indignazione, cazzo!, ci è rimasta ancora?
 don Giorgio De Capitani