“il dolore dei poveri verifica l’umanità prima della religiosità”

il dolore dei poveri

«Il popolo crocifisso è la continuazione storica del servo di Yahvė a cui il peccato del mondo continua a togliere ogni apparenza umana e che i poteri del mondo continuano a spogliare di tutto, strappandogli persino la vita, soprattutto la vita»

Ellacuría

Il dolore dei poveri è un abisso. Di fronte a quegli sguardi senza orizzonte si ha la sensazione di sprofondare insieme a loro.

Il dolore dei poveri svuota le parole del loro contenuto invalidandone forza e senso.

Il dolore dei poveri annulla le certezze ereditate, le presunte competenze, l’ottimismo peloso costruito a tavolino e con il bancomat in tasca.

Il dolore dei poveri fornisce un’altra versione delle poesie sulla bellezza della vita, delle speranze narrate, dei romanzi a lieto fine.

Il dolore dei poveri è l’unica Verità che non può essere contraddetta e per cui vale la pena testimoniare (nel senso di dare la vita).

Il dolore dei poveri verifica l’umanità prima della religiosità.

Il dolore dei poveri è sacro perché è il dolore di Dio.

Il dolore dei poveri giudicherà il mondo.

Il dolore dei poveri annebbia gli sforzi volontaristici e lascia vivere solo la compassione.

Il dolore dei poveri manda in crisi la fede e la ragione, tutte le fedi e tutte le ragioni, ma non l’Amore.

Il dolore dei poveri è pura disperazione da condividere, non da spiegare o trattare in modo infantile.

Il dolore dei poveri rende inique le gioie effimere dei ricchi.

Il dolore dei poveri non è involontario ma causato.

Il dolore dei poveri parla con le lacrime perché ha finito le parole.

Il dolore dei poveri, agli occhi di Dio, rimane innocente anche quando, per le leggi umane, è colpevole.

Il dolore dei poveri è il riassunto di tutta la Bibbia, di tutta la spiritualità, di tutta la morale.

Il dolore dei poveri è l’unico dogma che converte realmente.

 




Dio è innocente di fronte alla grande sofferenza del mondo? qualche spiegazione comunque ce la dovrà dare – intanto è utile affrontare in altro modo il problema

oltre il mito di un mondo senza male

 

la realtà della sofferenza e la bontà di Dio

adista

Claudia Fanti   

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

È una domanda – forse “la” domanda – a cui non è dato sfuggire: come conciliare l’esistenza di un Dio d’amore con la presenza del male e della sofferenza nel mondo? Una domanda che, per esempio, ha indotto il grande teologo Karl Rahner ad affermare che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale» o che ha spinto un altro celebre teologo, Romano Guardini, a confidare, sul letto di morte, che avrebbe avuto anche lui qualche domanda da porre al Giudice divino: «domande sul dolore dei bambini innocenti».

Ed è proprio a questo tema capitale – “La sofferenza e Dio” – che è dedicato l’ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium (3/2016), edita dalla Queriniana di Brescia, nella convinzione, espressa dai curatori (Luiz Carlos Susin, Solange Lefebvre, Daniel FranklinPilario e Diego Irarrázaval) sulla scia del filosofo Paul Ricoeur, che «la sofferenza è divenuta la più grande e quasi l’unica sfida alla teologia e alla filosofia contemporanee». Ma anche nella consapevolezza che «si tratta di un oscuro mistero al quale non è bene accostarsi dando risposte» e che «solo con un’attenzione e una fiducia radicale possiamo avvicinarci alla sofferenza, sia la nostra che quella altrui».

Una riflessione, quella della rivista, che non a caso inizia con il racconto di una perdita, di un dolore radicale e di un difficile perdono, riportato dalla teologa presbiteriana Pamela R. McCarroll: il percorso interiore di sofferenza e rinascita di Nora Melara-López, moglie del giornalista e attivista per i diritti umani honduregno José Eduardo López, arrestato e selvaggiamente torturato nel 1981, fuggito dal Paese un anno più tardi ma costretto a farvi ritorno dopo il rifiuto da parte del Canada della sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato («non essendovi timore fondato di persecuzione») e nuovamente sequestrato nel 1984 dalle forze di sicurezza, torturato per giorni, giustiziato e sepolto in un cimitero clandestino. È l’esperienza di una «disconnessione da Dio che li aveva abbandonati, che aveva dato via libera al male e aveva punito il bene», di un disorientamento disperato rispetto all’evidenza di qualcosa di profondamente sbagliato nel mondo: «le brave persone minacciate, torturate, assassinate, messe a tacere e il male che può accrescersi incontrollato». L’esperienza degli immancabili “perché” che, come commenta McCarroll, frantumano «i concetti dell’inevitabilità della giustizia, del bene e del senso della vita», scagliandosi «contro la fede in un Dio onnipotente che ci ama», al punto da generare a volte un «ateismo rabbioso», ma che possono anche aiutare a far emergere «una conoscenza più vera della presenza divina e del suo operato», una «Presenza santa che piange e il cui potere è sempre e soltanto riconoscibile nel potere dell’amore di trasformare dal di dentro le vite umane e le relazioni». È la transizione dal “Dio onnipotente”, morto dinanzi all’evidenza schiacciante del male e dell’ingiustizia, al “Dio piangente”, presente «proprio nel mezzo della vita vera, richiamandola ad azioni redentrici e a vedere di nuovo la bellezza dell’esistenza»: la stessa transizione che segna il percorso umano di Nora, indotta dalle parole del marito dopo il primo sequestro – «Non possiamo odiare i miei aguzzini. Sono solo dei prodotti di questa società» – a perdonare i torturatori di suo marito, accettando anche di incontrare uno di loro, forte della convinzione che l’eredità lasciata dalla vita di Eduardo «valesse molto più della sua morte». E che è possibile cogliere anche nella vicenda del giornalista Antoine Leiris, il quale, dopo aver perso la moglie Hélène nell’attentato terroristico al Bataclan, il 13 novembre 2015, ha scritto una lettera, dal titolo “Non avrete il mio odio”, in cui, rivolgendosi agli assassini, afferma: «Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore». Una vicenda da cui parte la teologa brasiliana Maria Clara Bingemer per evidenziare come, «in mezzo al male e alla violenza, l’amore non può vendicare o rispondere al male con il male: può soltanto soffrire, morire, resistere». E come pertanto, «davanti alla sofferenza dell’innocente, non c’è altro luogo per l’amore, e pertanto per Dio, se non immergersi dentro la sofferenza, al fianco del più debole e oppresso, soffrendo con lui».

Ma, più ancora che la morte del Dio onnipotente, è il superamento del presupposto mitico premoderno di un mondo-senza-male la chiave che consente di accostarsi in modo nuovo al problema della sofferenza nel mondo, sfuggendo alla trappola del paradosso di Epicuro – se Dio non vuole impedire il male, non è buono; se non può, non è onnipotente -, una trappola che si ripropone ad ogni catastrofe naturale e ad ogni disgrazia individuale. Solo interpretando la presenza del male e della sofferenza come conseguenza inevitabile dell’autonomia di un mondo finito, infatti, Dio non apparirà più, come mostra mirabilmente in questo numero di Concilium il teologo Andrés Torres Queiruga, chi permette quando potrebbe evitare o chi non vuole intervenire potendo farlo (quando non, addirittura, chi causa direttamente il male): «Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio». Ed è solo così che si riscatta in maniera piena «la tenerezza infinita della bontà divina»: «Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariamente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio». E se l’unica questione diventa allora quella di «creare o non creare», è facile rispondere che, se ha deciso di farlo, «è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente» vincere il male. È qui, infine, che si incontra il significato autentico della croce, in quanto «in Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti, per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci».

Cosicché, come sottolinea il teologo brasiliano Alberto da Silva Moreira, «la grande domanda per i cristiani non è sapere dov’è Dio nella sofferenza, ma perché mai le persone non si ribellano contro l’ingiustizia e il male che le colpiscono, poiché avrebbero Dio dalla loro parte».

proponiamo ampi stralci dell’intervento di Torres Queiruga.

Ripensare la teodicea

ripensare la teodicea 

Andrés Torres Queiruga 

 

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

 

La teodicea attuale non può evitare il duro interrogativo della sofferenza. Ma, prigioniera com’è del suo retaggio culturale, sembra incapace di dare risposte. Il suo orizzonte è confuso, fino alla contraddizione. Di fronte alla sfida moderna, essa condivide con la critica atea un presupposto mitico, premoderno: dare per scontata la possibilità di una creazione senza sofferenza, di un mondo-senza-male. Nascosto nel dilemma di Epicuro, tale presupposto continua ad alimentare la sua forza devastatrice. Una volta smascherato criticamente, diventa evidente il suo anacronismo, viene disciolta la sua logica e smontata la sua validità.

Allora risulta possibile una teodicea veramente attuale, che a) colloca il problema all’interno delle esigenze e delle possibilità della cultura laica o secolare, b) preserva il “mistero”, mostrando il suo vero posto nella risposta religiosa, c) riscatta la coerenza della fede in un Dio buono e onnipotente e d) recupera l’intenzione centrale del messaggio biblico e la logica profonda che, nonostante tutto, ha sempre abitato la teologia tradizionale.

I/ IL DILEMMA DI EPICURO, UNA SFIDA PREMODERNA

Il dilemma di Epicuro – «Se Dio può evitare il male e non lo fa perché non vuole, allora non è buono; se vuole e non lo fa perché non può, allora non è onnipotente …» – è antico quasi quanto la filosofia e ha rappresentato sempre una dura sfida per la religione. È sorto in una cultura precedente la rivoluzione della Modernità. Allora era normale dare per scontati tanto la possibilità mitica di un mondo paradisiaco e senza male, quanto i continui interventi divini o demoniaci. La scoperta dell’autonomia del mondo, che obbliga a studiare i problemi analizzando la sua struttura e il suo funzionamento, mostra che la finitudine (…) implica due fondamentali conclusioni: 1) che il paradiso è impossibile, per la stessa ragione per cui lo è un cerchio-quadrato o un triangolo-rettangolo-equilatero su una superficie piana; 2) che è necessario cercare all’interno del mondo le cause di quanto in esso avviene. La conclusione fondamentale risulta evidente: il dilemma contiene un pregiudizio che lo rende assurdo. Sarebbe come argomentare che Dio non è buono perché, potendo, non vuole fare cerchi-quadrati; o che non è onnipotente perché, volendo, non può fare ferri-di-legno (l’esempio del triangolo dimostra che vedere il non senso può risultare difficile all’interno di realtà complesse; per cui può passare inosservato che un mondo-senza-male sarebbe un mondo-finito-infinito).

L’Antichità ha potuto fare suo quel dilemma, perché il pregiudizio non era avvertito culturalmente e in quel contesto la fede religiosa era pacificamente accettata: il pagano Epicuro, che lo ha proposto, continuava ad ammettere gli dèi; e Lattanzio, che lo ha divulgato, rimaneva cristiano. Nella Modernità invece la situazione risulta paradossalmente ambigua. La sensibilità culturale moderna percepisce con forza la contraddizione; Bayle e Voltaire, pur non divenendo atei, hanno preannunciato la crisi; Hume si è spinto oltre, e Büchner pronuncerà infine la sentenza: la sofferenza è la “roccia dell’ateismo”. Anche la sensibilità religiosa percepisce la contraddizione, e nasce la “teo-dicea”.

Lasciare irrisolto il dilemma costituisce una evidente incongruenza. Di più per la fede, che lo accetta, ma cerca di eluderne la logica: come credere che Dio sia infinitamente buono e potente, se, essendo possibile, non vuole o non può creare un mondo-senza-male? Incongruente lo è parimenti per l’ateismo moderno: con quale logica quest’ultimo dà per scontata la possibilità di un mondo-senza-male? E come fa a rispettare l’autonomia del mondo, se nega Dio a motivo del fatto che non interviene interrompendo le leggi fisiche durante il terremoto di Lisbona oppure annullando la libertà umana durante la Shoah?

II/ UNA PARTENZA GIUSTA, FATALMENTE SPRECATA

È curioso: proprio all’apice della sfida si è intuito l’inganno e si è cominciato a dare la vera risposta. Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) e il vescovo William King (1650-1729) – costui ingiustamente poco studiato, sebbene già elogiato da Leibniz – hanno percepito la contraddizione e hanno proposto un’impostazione culturalmente laica. Prima di andare a cercare la spiegazione in cielo, hanno cominciato a osservare la terra: il male è inevitabile a motivo della costituzione finita del mondo. Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio. Essi hanno denunciato, pertanto, un’impossibilità essenziale e costitutiva. Nell’Essai de Théodicée Leibniz argomenta che il male nasce da una impossibilità creaturale: «Dio attribuisce tanta perfezione alle creature, quanta ne può ricevere l’universo» (§ 335); «Dio infatti non poteva darle [alla creatura] tutto senza fare di essa un Dio» (§ 31).

All’epoca era inevitabile la contaminazione teologica del linguaggio. Oggi invece risulta possibile – ed ermeneuticamente obbligato – riscoprire, al di là dei limiti del testo, la forza laica del significato, che avviava – anche assegnando il nome di teodicea – una nuova tappa. Purtroppo, la critica di ciò che era accessorio ha impedito la percezione di ciò che era fondamentale: la teologia ha continuato a rimanere ancora prigioniera del fondamentalismo biblico e tradizionale (…). È stata un’autentica catastrofe culturale: sprecata questa occasione, il presupposto mitico del rnondo-senza-male ha continuato a rimanere vigente.

Non del tutto però (…). Sono apparse teorie che, come quelle ireneane (dal filosofo e teologo del II secolo Ireneo,  secondo cui la crescita spirituale richiede il libero arbitrio e l’esperienza del male, ndr), difese da John Hick (1922-2012), e quelle del processo, a partire da Alfred North Whitehead (1861-1947), ne riconoscono l’“impossibilità” e cercano nuove strade. Significativamente, Whitehead, senza far riferirnento a Büchner, parla del male come “roccia” del problema, anziché dell’ateismo. E Schubert M. Ogden (n. 1928) arriva a definirlo “pseudoproblema”, poiché «nasce soltanto sul presupposto di alcune premesse del teismo cristiano classico, che sono incoerenti anche al di fuori del problema del male».

Il compito attuale consiste nel rendere tematicamente esplicita la portata di questa intuizione fondamentale, evitando che la persistenza implicita del fantasma del mondo-senza-male continui a contaminare il problema.

III/ LA TEODICEA NEL MARASMA DELLE INCONGRUENZE

Come il rivelatore in un processo chimico, non appena si scopre il presupposto del mondo-senza-male, si chiarisce il quadro teodiceico: la confusione appare come conseguenza inevitabile. Schematizzando, bisogna distinguere due orientamenti fondamentali: teorie che riconoscono espressamente la logica del dilemma e teorie che, pur senza dirlo, la presuppongono.

Le prime, per rigettare l’ateismo, modificano radicalmente l’idea di Dio. Tre casi riferiti all’Olocausto lo dimostrano in modo esemplare, e la loro chiarezza logica ci risparmia tanti discorsi. Hans Jonas nega l’onnipotenza, poiché Dio non ha potuto impedirlo; David Blumenthal nega la bontà, poiché, potendo, non volle impedirlo (è buono, ma crudele e non “onnibenevolente”); Jean-Pierre Jossua, evitando conclusioni tanto estreme, nega la comprensibilità. (…).

Il secondo orientamento, meno radicale, evita conseguenze così drastiche. Ma il suo disagio risulta evidente: nega la conseguenza, ma non può spezzarne la logica. E le risposte manifestano la tipica ambiguità delle “soluzioni insoddisfatte”: tendono logicamente verso uno dei poli estremi, ma rimangono a metà strada.

Al suo interno, la reazione più emotiva riconosce l’impasse, negando la legittimità della teodicea in tre modi. 1) È impossibile e non necessaria, per inconsistenza logica e perché Dio non ha bisogno di difesa (senza avvertire che non si tratta di giustificare la realtà di Dio, ma la nostra idea: non si giustifica il sole quando si rifiuta il geocentrisrno). 2) È smobilitante, poiché la comprensione “giustifica” il male e paralizza l’azione (mentre la diagnosi, lungi dal giustificare la malattia, incoraggia a lavorare per la terapia). 3) È nociva e anche “eretica”, “blasfema” e “diabolica”, insistendo su ciò che conduce a una visione teista, complice o colpevole delle disgrazie naturali e dei crimini umani (rendendo tale concetto una caricatura realmente offensiva per coloro che continuano – per noi che continuiamo – a parlare di un Dio creatore, libero, amorevole e salvatore).

Più numerosa è la posizione di chi, sforzandosi di mantenere integra la fede biblica, modifica i termini della questione senza arrivare alla negazione. Ma glielo impedisce il presupposto del mondo-senza-male.

1) Si afferma l’onnipotenza, ma si parla di un Dio “sofferente”: posizione rispettosa e corretta, quando nega l’impassibilità divina; ma inconsistente, quando cerca di giustificare il male, includendo Dio in esso. Poiché, in tal caso, o si trascendentalizza ed eternizza il male in Dio, come è stato argomentato contro Moltmann, oppure si include Dio nella nostra miseria, rendendolo incapace di salvarci, come hanno evidenziato Rahner e Metz. Il ricorso, così antico, alla kénosis incorre nella stessa ambiguità (se è funzionale, implicherebbe “non vuole”; se ontologica, porterebbe al “non può”). Lo stesso avviene quando si argomenta con la croce (non sempre distinguendo dovutamente tra Gesù e Dio), esponendosi all’accusa cinica che non ha senso condividere il dolore che era possibile evitare in precedenza.

2) Mettere in discussione la bontà risulta più difficile; ma, con un certo sostegno fondamentalista, si può arrivare a parlare del “lato oscuro” di Dio o a mantenere categorie come “ira” o “castigo”; come pure si cerca un equilibrio impossibile, affermando energicamente la bontà e l’onnipotenza nel momento in cui, prendendo alla lettera determinati testi biblici, si attribuisce a Dio anche causalità diretta nel male.

3) La incomprensibilità è un argomento frequente e molte volte giustificato, ma non sempre sfugge al rischio di coprire con il “mistero” divino contraddizioni logiche molto umane. Inoltre, permane latente l’influenza di un biblicismo diffuso che, basato soprattutto sul libro di Giobbe, tratta con lo stesso valore testi di epoche diverse. Talvolta serve da argomento per delegittimare la teodicea, interpretando come definitivo il “silenzio” finale di un libro che si sviluppa negando certamente il retribuzionismo deuteronomico, ma che non raggiunge ancora la pienezza evangelica.

Forse però niente spiega l’enorme influsso del pregiudizio meglio di due esempi che, provenendo da grandi teologi come reazioni profondamente rispettose, risultano dei sintomi molto rivelatori. Il primo, citatissimo, è di Romano Guardini, che sul proprio letto di morte confidò a un amico: «Sono pronto a presentarmi al cospetto del Giudice divino e a rispondere alle sue dornande sulla mia vita; ma anch’io avrei da porre alcune domande al Giudice: domande sul dolore dei bambini innocenti». Il secondo è di Karl Rahner che, ponendo espressamente la domanda: «Perché Dio permette (lässt) che soffriamo?», finiva col rispondere che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale».

IV/ ATTUALIZZARE LA TEODICEA

Partire dall’impossibilità di un mondo-senza-male non solo chiarisce le difficoltà, ma ci permette anche di rinnovare l’impostazione.

Prima di tutto, situa la domanda al suo giusto livello, eliminando il falso problema (Ogden) di porla immediatamente all’interno della religione. Ripeto: sarebbe come mettere in discussione la bontà o l’onnipotenza di Dio perché non vuole o non può fabbricare ferri-di-legno. L’unica dornanda sensata non è: perché Dio non elimina il male? Bensì: perché crea il mondo nonostante il male inevitabile? Detto più concretamente: vale la pena esistere? Hanno senso la storia e il mondo? Come si vede, è una domanda pre-religiosa, radicalmente umana, perché il male – fisico o morale, attivo o passivo – costituisce una sfida per tutti, credenti o non credenti.

Questo ci obbliga a compiere un ulteriore passo, che ristruttura l’intero approccio: prima della teodicea propriamente detta, tutti dobbiamo affrontare la sfida comune. Allora ogni posizione appare come risposta particolare a una domanda universale. Il discorso teodiceico esige così una triplice struttura.

1) La ponerologia (dal greco ponerós, “male”), una trattazione sull’origine del male, che elabora sistematicamente la conclusione, qui solo indicata: la finitudine rende impossibile un mondo-senza-male, svelando il carattere inevitabile della sua apparizione, come sfida per tutte le risposte.

2) La pistodicea (da pístis, “fede” in senso ampio, e dikein, “giustificare”) è il riconoscimento della comunità generica di tutte le posizioni, trasformate in risposte specifiche, che devono “rendere ragione” di se stesse (…). Tutte sono discutibili e “misteriose”; propriamente chiamate ad affrontare insieme la sfida comune, sostituendo lo spirito di polemica con quello di dialogo, critica e collaborazione.

3) La teodicea tradizionale appare nella sua specificità di “pistodicea cristiana”: una tra le altre, con uguale onere di prova e identico diritto di difesa. Ritengo che allora, debitamente attualizzata, non solo può negare il “fallimento” sentenziato ed evitare il marasma reale; ma può anche garantire la sua logica, senza rinunciare al mistero, e può ripensare la tradizione, recuperandone i valori.

V/ LA LOGICA DELLA TEODICEA

Nel constatare la fattualità assoluta del male come possibilità inerente alla finitudine, essendo la condizione (…) della stessa esistenza, l’interrogativo posto alla religione non può essere perché Dio non elimina il male – significherebbe negare il mondo -, ma come Dio lo affronta e lo combatte. Si chiariscono così questioni estremamente decisive.

1) Si ristabiliscono nella loro piena luce tutti gli attributi divini: lungi dal metterli in discussione, il male – smascherato come inevitabile – sottolinea la tenerezza infinita della bontà divina, basata sulla fedeltà incrollabile della sua onnipotenza. Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariarnente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio. Sostenuta dall’onnipotenza, la creazione smentisce l’obiezione superficiale di una qualche “irresponsabilità” divina, poiché fonda una speranza realista la quale, rispettando l’autonomia creaturale e supportando il lavoro della storia, assicura che Dio ha l’ultima parola: la stessa morte è vinta… (1Cor 15,26). (…).

Ciò non significa che il ristabilimento della coerenza dispensi la pistodicea cristiana – come pure quella atea o agnostica! – dall’affrontare le sue difficoltà specifiche. (…). Come (…) l’obiezione radicale: se la liberazione piena risulta possibile escatologicamente, perché non ora? (…). La fede deve affrontarla. E io credo che possa farlo mostrando come, dopo la rottura della “finitudine-storica” dopo la morte, si possa realizzare pienamente la dialettica dell’amore, dove il “tuo” di Dio si fa “mio” della creatura. La teodicea trova qui – come tutta la teologia – il mistero della pienezza escatologica.

2) Quando l’impossibilità del mondo-senza-male viene presa realmente sul serio, si produce una specie di kehre o capovolgimento di tutta la questione. Di fronte alla “logica-per”, si instaura una rigorosa “logica-nonostante”: nonostante le apparenze, Dio è presente; nonostante il male, il mondo vale la pena. Segnaliamo tre conseguenze di particolare rilievo.

a) Permette di eliminare la tenace “contaminazione teleologica” che tocca anche le teodicee che, come quella “ireneana”, pur riconoscendo la inevitabilità del male, tendono a ricadere nella logica-per: per rendere possibile la libertà o la realizzazione umana (…).

b) Risponde all’obiezione dei mali “orrendi” o senza-senso (grandi catastrofi, morte di bambini innocenti). La sua umanissima forza emotiva è indubitabile, ma essa poggia su un’occulta congiunzione tra il presupposto del mondo-senza-male e la contaminazione teleologica. (…). Ogni male è ingiustificabile e privo di senso, non per questo o quell’aspetto, ma in se stesso, semplicemente come male: una crepa nella creazione (Büchner), alla stregua di un genocidio. Se fosse possibile, nessun male dovrebbe esistere; e certamente Dio non potrebbe volerlo. Dio vuole il mondo per se stesso, unicamente per il suo bene e nonostante il male. Il male, qualunque male, è pura fattualità senza giustificazione esterna; compare solo perché la sua possibilità coincide con la possibilità stessa del mondo. Creare o non creare: questa è l’unica questione. Poiché ha creato per amore, ogni azione di Dio è salvifica, di lotta contro il male. E se ha deciso di creare, è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente vincerlo.

c) Chiarisce il fenomeno particolarmente grave della denuncia contro Dio. Partendo dal giustissimo principio che nella preghiera si può esprimere di tutto, esiste – a volte quasi come una moda teologica – una diffusa tendenza a giustificare la denuncia e la protesta, non solo “di fronte” a Dio, ma anche “contro” Dio. La giustezza dell’indignazione, però, non deve nascondere – per quanto si invochi Giobbe – la sua profonda ambiguità, non solo perché logicamente svia e spreca contro “Dio” l’energia della protesta contro il male, ma soprattutto perché sul piano teologico risulta insopportabilmente ingiusta di fronte all’infinito amore divino. Protesta il bambino contro la madre che passa notti al suo capezzale o l’adulto ammalato contro il medico che si sacrifica cercando di curarlo? L’espressione con cui Karl Barth, per temi meno delicati, deplorò in Silesius alcune «pie insolenze (frommen Unverschämtheiten)», rappresenta un sano avvertimento di fronte a espressioni che possono oscurare l’unica certezza: che Dio è sempre al nostro fianco contro qualsiasi tipo di male. La liturgia del Venerdì santo contiene la migliore teologia: «Popolo mio, che male ti ho fatto? In che ti ho provocato? Dammi risposta!».

VI/ RECUPERARE I VALORI DELLA BIBBIA E LA TRADIZIONE

I rinnovamenti possono essere visti come negazione o sottovalutazione del passato. Non è sempre così, e certamente non lo è in questo caso. Al contrario: quanto da noi proposto permette di recuperare valori che, essendo, propriamente evidenti nella Bibbia e nella tradizione, sono rimasti nascosti a causa di fattori culturali.

1) Anzitutto,  fa risplendere l’intenzione più evidente ed elementare della Bibbia, il cui filo rosso è la compassione divina per le sofferenze umane, con l’appello – di Dio a noi, non di noi a Dio! – a collaborare contro il male: «Non è forse questo che significa conoscermi?» (Ger 22,16), dicono i profeti; «Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste» (Lc 6,36), dice Gesù. In effetti, l’ipotesi che Dio, se volesse, potrebbe eliminare il male, non risulta soltanto incongruente: è qualcosa di molto più grave, poiché priverebbe di senso il nucleo del messaggio biblico, puntandolo tutto su qualcosa che si sarebbe potuto conseguire semplicemente volendolo prima.

2) Precisa il significato autentico della croce, troppe volte interpretata “al rovescio”, isolando il destino di Gesù dal nostro, come se il suo fosse un mezzo per dimostrare la compassione divina. La verità è più semplice e più divinamente realista. In Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti: per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci. Le teologie che parlano di “castigo”, “pagamento del riscatto” o di “conflitto tra Dio e Dio” dimostrano un’ambiguità pressoché teologicamente intollerabile.

3) Riscopre e legittima la logica implicita della tradizione quando confessa la bontà e l’onnipotenza, nonostante il dilemma irrisolto accompagni come un’ombra d’insoddisfazione logica la teodicea tradizionale. Lo ha potuto fare perché la (sub) coscienza di una logica più profonda perpetuava la certezza che “doveva pur esistere” una spiegazione. Questa logica esiste ed è rigorosa, poiché poggia sulla fiducia: se Dio è amore infinito, profondamente compassionevole verso la nostra sofferenza, il male “dev’essere” inevitabile, sebbene (ancora) non sappiamo spiegarlo. Vedere una madre curva sul suo bambino malato dimostra, con logica rigorosa, che lo curerebbe se solo fosse possibile. (…). Isaia lo ha intuito: anche se la madre dimenticasse il suo figlio, Dio no (Is 49,15). (…).

Ho chiamato tale processo “via corta della teodicea”. L’astrazione del ragionamento non dovrebbe dimenticare la sua umanissima profondità, che ha alimentato e continuerà ad alimentare le valli oscure della vita (Sal 22). Quando vengono meno i ragionamenti, rimane sempre lo sguardo verso la croce; quando l’angoscia o la colpa minacciano, vi è la fiducia, poiché (…) quando la sofferenza sembra prevalere, né morte né vita, né altezza né profondità… potranno separarci dall’amore di Dio (Rm 8,35-39). (…).

Confesso che questa via mi stupisce ogni giorno di più, e sicuramente sarà sempre l’ultima risorsa nelle grandi crisi. A differenza del passato, però, il crollo dell’evidenza socio-culturale e la comparsa dell’obiezione atea obbligano oggi a completarla con la “via lunga”. Questo lavoro è in corso, incoraggiando numerosi tentativi. (…).

4) Il recupero di valori non si limita a questo aspetto fondamentale, ma permette di rivisitare temi assai decisivi. Cominciando dalla struttura stessa della storia della salvezza. Tradizionalmente, suppone una cosa fondamentale: il male non viene da Dio. Ma la possibilità del “paradiso” svia l’interpretazione, (…) presentando il Dio del perdono come un giudice ingiustamente e smisuratamente implacabile, che castiga una mancanza umana con tutto l’orrore del male.

Avendo più spazio, si potrebbero riesaminare temi del tutto decisivi, come (…) il modo di interpretare la provvidenza, l’elezione, il miracolo, la preghiera di domanda. Quest’ultima, in particolare, proprio per i grandi valori a cui si associa, possiede un’efficacia terribile nell’alimentare l’immaginazione che Dio può, ma non sempre vuole; che abbiamo bisogno di ricordarglielo, di convincerlo, a volte con sacrifici e per mezzo di intercessori… e non sempre otteniamo. La conseguenza è un’immagine rimpicciolita di Dio e, spesso, culturalmente scandalosa (mentre scrivo queste righe, leggo di una convocazione di preghiera per chiedere la pioggia).

VII/ DIO CONTRO LA SOFFERENZA: DALLA “ROCCIA DELL’ATEISMO” AL DIO ANTI-MALE

(…). Dal momento che il grande volto del male è la sofferenza, una teodicea viva deve educare la sensibilità, plasmando le reazioni emotive e le abitudini linguistiche, per imprimere nelle coscienze e nella cultura il volto vero di Dio: sempre a nostro fianco contro la sofferenza. Deve eliminare i fantasmi blasfemi di un “dio” che determina la morte, manda o permette la malattia (ha senso dire che una madre “permette” la malattia di suo figlio?) o anche le catastrofi o i genocidi: non solo gli atei hanno domandato dov’era Dio ad Auschwitz e perché ha taciuto o consentito! Ricordare queste cose è ingiusto per molti credenti, e certamente duro per tutti; ma più duro e ingiusto sarebbe continuare senza affrontare tali questioni che toccano il cuore stesso della fede.

La teologia è oggi in condizioni di farlo. Interrotta l’ipoteca premoderna (…), è possibile una teodicea religiosamente autentica e culturalmente legittima. Dio è il go’el, l’avvocato della causa umana in un mondo tormentato dalla sofferenza individuale e dalla tragedia collettiva. La teodicea deve mostrare che la sofferenza, dall’essere “roccia dell’ateismo”, può trasformarsi in rivelazione di Dio come l’Anti-male.