l’ “exofobia” prodotto dell’antipolitica

exofobia

quella paura
nata dall’antipolitica

chi è schiavo della sua fobia non ammette i propri limiti,
anzi esige un ripiegamento da parte di tutti

(LaPresse)

Si parla spesso di «paura», un’emozione assurta alla ribalta della cronaca politica, che finisce per giustificare anche gli insulti più rozzi, i comportamenti più offensivi, le reazioni improntate alla violenza. «Se sono violento, è perché ho paura. Cerca di capirmi. Punto». Sennonché un termine irrigidito – come «paura» – offusca e copre, non aiuta a chiarire. Più che addentrarsi negli imponderabili sentimenti del singolo, occorre interrogarsi sul significato di una parola così abusata, che nasconde uno scenario complesso.

Paura di che cosa? La risposta immediata è: «degli innumerevoli pericoli che attendono chiunque metta appena il piede fuori di casa». Minacce di ogni genere, più o meno imminenti, più o meno velate, ma, soprattutto, non sempre reali. D’altronde chi ha mai vissuto un’esistenza priva di rischi? Si dovrebbe allora parlare piuttosto di una «fobia» che ha preso e catturato molti, un timore, abitato da fantasmi e spettri, che diventa insofferenza, fino a tradursi in un’intolleranza assoluta. Fobia verso tutto ciò che è fuori o che viene da fuori: exofobia. Così si può chiamare quell’avversione per ciò che è oltre e altro, quell’orrore per l’esterno e l’estraneo. Ecco il sigillo di quest’epoca dei flussi ultraveloci, dei traffici globali, dei ritmi vorticosi, che avrebbe dovuto essere la più aperta e si rivela invece così irrimediabilmente chiusa. L’exofobia è l’esito di una reazione negativa, evidente in una politica ridotta a polizia preventiva, il risultato della vana e prepotente pulsione di chi aspira a restare immune, esorcizzando ogni mutamento, scongiurando ogni alterazione. A tutti i costi.

Non si tratta tanto di indifferenza, quanto di volontà di immunizzarsi. Si chiude la porta all’altro, bandito, scacciato, cancellato, perché potrebbe infettare. E con l’altro non si intende solo lo straniero, chi viene da fuori, ma anche chi va fuori, chi osa varcare le frontiere, chi guarda oltre. La mobilità è vista con sospetto, quasi fosse una colpa. Meglio fermarsi entro i confini nazionali, anzi regionali e provinciali, meglio restare nel proprio paese. Fuori è corruzione ovunque. Ecco perché – sia detto per inciso – il fenomeno politico della corruzione finisce per assumere dimensioni grottesche in quei movimenti che assecondano questa visione exofobica. Il male scaturirebbe dall’esterno, il bene dall’interno. Sennonché l’interno si assottiglia sempre di più e rischia di implodere minacciato da tutto ciò che è diverso. Le vecchie dicotomie negro-bianco, donna-uomo, immigrato-autoctono, trovano formule attuali.

Ma la novità sta in questo: che l’ingenuità, prima innocente, adesso è diventata maligna. Chi non sa distanziarsi da sé, chi non vuol sporgersi oltre il suo piccolo orto, sfoggia con rancore la propria ignoranza del mondo, ne fa il vessillo di una fantomatica integrità, la bandiera di una nuova concezione del mondo, quello del luogo su cui poggia i piedi. Guai a criticarlo! Guai a mostrare alternative, a indicare vie diverse, a testimoniare altre forme di vita. Potrebbe infuriarsi, lasciarsi andare a qualche insolenza contro gli altruisti incalliti, i buonisti sprovveduti, che non hanno ancora capito come vanno le cose. Eppure, la cultura è distacco da sé, estraneità. Colto non è chi ha immagazzinato un sapere, bensì chi riconosce sé nell’altro.

Ma il novello cattivista che, come suggerisce l’etimologia di «cattivo», è prigioniero di sé, schiavo della sua fobia, anziché ammettere i propri limiti, esigerebbe un ripiegamento a oltranza di tutti, una sorta di prigionia nazionale. Gliel’ha insegnato l’antipolitica, quest’anticultura che ha fatto dell’exofobia la propria chance e il proprio cardine.