l’ospitalità è una medicina che guarisce molti mali

ospitalità

via maestra delle fedi  

Christoph Theobald

“Cristo in casa di Marta e Maria” di Velàzquez

Pubblico in questa pagina un brano sul tema dell’ospitalità tratto dal libro «Lo stile della vita cristiana» del gesuita Christoph Theobald, in uscita da Qiqajon, la casa editrice della Comunità di Bose (traduzione di Valerio Lanzarini, pagine 168, euro 16).christopher-theobald-foto.1024x1024

Nato a Colonia nel 1946 e docente presso il Centre Sèvres di Parigi, padre Theobald è considerato uno dei massimi esponenti della “teologia narrativa”, disciplina le cui caratteristiche sono passate in rassegna dallo stesso autore in un altro volume di recente pubblicazione in Italia («I racconti di Dio. Pensare la teologia narrativa», traduzione di Romeo Fabbri, Edb, pagine 72, euro 7,50). Nello «Stile della vita cristiana» padre Theobald propone un raffronto sistematico fra il testo biblico e le istanze della vita quotidiana, in un orizzonte nello stesso tempo personale e comunitario.

La simmetria – legge fondamentale di ogni incontro autentico – non è un qualcosa che si acquisisce di un primo acchito, soprattutto a causa dei pregiudizi che gli uomini si impongono vicendevolmente, sia da un punto di vista sociale che religioso. Vi è perciò la necessità di attraversarli perché a un dato momento le due persone possano accedere all’esperienza di una vera simmetria, prima ancora che si possa parlare di reciprocità.

A partire da questo presupposto, l’ospitalità si presenta come un’offerta: la simmetria permette di offrire all’altro la possibilità di esprimersi e di condividere qualcosa, affinché io diventi a mia volta suo ospite.

Esponendomi all’altro, accogliendolo presso di me, nella mia casa, alla mia tavola o semplicemente sulla soglia – e a condizione che io sia vero con me stesso in questa accoglienza –, sono sempre in attesa che l’altro faccia lo stesso. Se per miracolo lo fa, io divento suo ospite ed egli mi dà ospitalità. Questa è la trama fondamentale che attraversa le Scritture, dalla figura di Abramo fino al pasto promesso nell’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). La simmetria si trasforma allora in reciprocità: «Io con lui ed egli con me».

Questa immagine dell’incontro e dell’ospitalità non è soltanto escatologica: caratterizza la figura di Gesù di Nazaret, «l’essere ospitale» per eccellenza. Essa è per ora, segna l’entrata nella «terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,8). Ogni terra può diventare terra promessa quando degli esseri vivono l’incontro fino in fondo, come ha fatto Gesù di Nazaret. (…)

La sua ospitalità è radicale, al punto che egli si annulla per permettere all’altro di trovare la propria identità: «La tua fede ti ha salvata» (Le 7,50; 8,48; eccetera). Quando si reca alla tavola di Simone il fariseo (cf. Lc 7,36-50), si tratta per lui fin da subito di un’ospitalità aperta. Nelle scene evangeliche, quasi mai Gesù si trova in un faccia a faccia. Sempre interviene un terzo: in casa di Simone, è la donna che sopraggiunge e gli bagna i piedi con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli…

In definitiva, qual è la posta in gioco di questa ospitalità? È la rivelazione di ciò che la tradizione biblica chiama «fede». Non ancora una fede esplicita in Dio, ma la fede come espressione ultima dell’essere umano, quell’atto fondamentale, del tutto elementare, che scommette sulla vita. Ne vale la pena, c’è di mezzo la vita; essa manterrà la promessa. Nessuno di noi ha scelto di esistere siamo stati tutti messi al mondo, e ciascuno deve riconciliarsi con il fatto di esistere in certe condizioni precise, di tipo sociale, culturale, nazionale, religioso, politico, con i loro limiti terribili: le disuguaglianze di ogni sorta, i confronti che esse producono, le immagini altrui che ci aggrediscono, e via dicendo. L’ospitalità è il luogo della riconciliazione con se stessi. E nessuno può farlo al posto di un altro. Ecco allora il miracolo della reciprocità. Un essere ospitale può generare in me questo atto di fede: la mia esistenza vale la pena di essere
vissuta…

A questa ospitalità radicalmente aperta viene mosso talora il rimprovero di ingenuità. Può concernere, per esempio, certi cristiani della Francia che tentano di vivere l’incontro religioso coni musulmani: non ci sarebbe per loro un prezzo da pagare, a differenza dei cristiani in Algeria, dei maroniti in Libano, o dei copti in Egitto. Ma in realtà quale che sia il contesto, il prezzo da pagare è sempre alto. Perché l’ospitalità è l’espressione ultima di una speranza di non violenza di fronte alla violenza, ora, questa violenza c’è, a tutti i livelli, non solamente tra cristiani e musulmani, ma, più in profondità, tra i concittadini di una stessa società. Il ruolo dello Stato laico è del resto quello di arginarla, di regolarla; ma non può guarirla. È qui che interviene la specificità della tradizione biblica: nel desiderio, e più ancora nella possibilità, che in esso si fa strada, di guarire la violenza attraverso l’esperienza dell’ospitalità. Ed è qui, inoltre, che compare un altro termine: la «santità», perché l’ospitalità può condurre a mettere
in gioco se stessi, fino all’offerta di sé nel martirio, come l’ha vissuto Gesù di Nazaret.

Questa medesima posta in gioco può essere resa con un termine più semplice ancora, che ricorda un’esperienza pressoché quotidiana: il «malinteso». Ogni incontro deve necessariamente attraversare
dei malintesi.

Il malinteso in un incontro ospitale può durare molto a lungo, e perfino essere alimentato da un «politicamente corretto» o da certe immagini sociali. Può portare alla violenza, quando non si vuole «intendere ». Ma può anche trasformarsi in desiderio di «intendersi». La via che conduce dal malinteso verso un’«intesa» passa per l’interrogare, e anzitutto per un «autointerrogarsi »: la messa in questione di se stessi è indubbiamente la condizione ultima di un incontro riuscito. Io sono interrogato dalla presenza dell’altro; e mi interrogo sui miei pregiudizi, sulle mie rappresentazioni, sulle mie immagini, in forza dell’inaggirabile alterità dell’altro. Che cosa intendo dell’altro in ciò che egli dice, nel rito a cui è attaccato, nel suo calendario, nelle sue feste? O nelle sue questioni più fondamentali sul piano umano: come educare i figli, come essere fedele erede di una tradizione, come vivere nella precarietà? In ultima istanza, intendo nell’altro la «fede»? E quale? Sono in grado di arrivare a dire come Gesù: «Neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (Lc 7,9)? Nella misura in cui questo interrogarmi personalmente nasce e si esprime nel mio modo di comportarmi nei confronti dell’altro, io posso sperare che lo stesso avvenga in lui. La reciprocità nell’interrogarsi può essere una maniera di accedere all’autentico incontro, in modo da intendersi a un certo livello di profondità, e dunque da superare le violenze. Perché le violenze non si trovano unicamente nell’altro: sono anche in me, e ci vuole del tempo perché possano essere riconosciute, dirsi… ed essere guarite. A ciò mira il ministero di Gesù.

lo ‘stile evangelico’ e la ‘Chiesa rabdomante’ secondo Christopd Theobald

 il vangelo della “nuova” fratellanza

intervista a Christopd Theobald 

a cura di Lorenzo Fazzini in “Avvenire” 

Christopd Theobal

 

tedesco di origine, francese di adozione, Christoph Theobald è tra i più letti e citati teologi di oggi a livello internazionale, in particolare per la sua profonda e argomentata riflessione sullo “stile” evangelico come caratteristica peculiare della presenza cristiana nel mondo. È da poco in libreria Fraternità (Qiqajon, pagine 94, euro 10,00), testo nel quale sono racchiuse due conferenze nelle quali il gesuita del Centre Sèvres di Parigi esplica il senso di questa dimensione di vita. Del resto fu papa Francesco che ne evidenziò l’importanza fin dal suo affacciarsi in piazza San Pietro, il 13 marzo di tre anni fa, quando usò, nel primo saluto da pontefice, proprio il termine “fratellanza”

Nel suo saggio lei sottolinea molto la dimensione sociale del Vangelo. La Chiesa di oggi ha ben coscienza di questo aspetto del messaggio cristiano?

«Penso che sia esistita una lunga tradizione che ha messo in risalto e in atto questo legame intrinseco tra annuncio evangelico e dimensione sociale. Forse però questo aspetto è diventato più attenuato in un’altra epoca. Mi spiego meglio. In Francia, nell’Italia settentrionale, in Germania e in Austria, tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo abbiamo visto sorgere un vero cattolicesimo sociale, ad esempio sotto Pio XI e tramite la diffusione dell’Azione cattolica. Un cattolicesimo sociale la cui metodologia è stata poi condensata nel motto “vedere, giudicare, agire” coniato dal teologo belga, poi cardinale, Joseph-Léon Cardijn. È stata questa visione dell’annuncio cristiano che ha portato alla stesura della costituzione pastorale conciliare Gaudium et spes, che ha sviluppato la questione sociale del Vangelo rispetto a diversi ambiti: famiglia, economia, politica, pace… Inoltre, durante il Concilio Vaticano II sorse quel gruppo per la “Chiesa povera e dei poveri” intorno alle figure del cardinale Giacomo Lercaro e di dom Hélder Câmara, che ha poi portato alla conferenza del Celam di Medellìn, alla scelta preferenziale per i poveri, a quella teologia del popolo di cui papa Francesco è un sostenitore. Forse, come accennavo prima, nel periodo turbolento del post-concilio, un’epoca molto controversa, c’è stato un ritorno sull’identità cristiana nei Paesi del mondo occidentale sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI intorno alla liturgia e alla catechesi. Questo, forse, è avvenuto per una certa paura del relativismo. In questo senso alcune esperienze particolari, come quelle dei preti operai e più in generale del cattolicesimo sociale, sono state messe ai margini. Con Francesco invece, sia con Evangelii gaudium che con Laudato si’, il papa torna a chiedere alla Chiesa di intraprendere la strada del cattolicesimo sociale».

Lei ha citato una certa “linea” che da Lercaro arriva a Francesco. La sensibilità di questo percorso spirituale e teologico è patrimonio comune della Chiesa di oggi?

«C’è molto da fare, e ci sono resistenze. È quello che penso veramente. Credo che ciò sia presente nell’ambito laicale così come nel clero. Quello a cui chiama papa Francesco è veramente una conversione, una mutazione di sguardo. Bisogna passare da un interesse della Chiesa che possiamo definire centripeto, per cui i pastori vogliono portare le persone dentro la Chiesa, ad uno sguardo per cui la Chiesa si mette al servizio dell’avvenire del mondo, della vita, della cultura, del futuro delle nuove generazioni. Vogliamo l’una o l’altra prospettiva? Ciò che ci chiede Francesco è una conversione che si rifà all’affermazione di Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. E come vorrei che fosse già acceso”. Francesco ci indica che il lavoro da fare è anzitutto di carattere spirituale».

In Fraternità lei usa un’espressione molto curiosa, quella della “Chiesa rabdomante”. Cosa significa?

«La formula può sembrare un po’ sorprendente e metaforica, ma vorrei spiegarla brevemente. L’annuncio del Vangelo non può più avvenire secondo l’ordine che chiameremmo “di impiantazione” dall’esterno. Un’altra prospettiva invece ci dice che l’annuncio del Vangelo è già preceduto dalla presenza discreta di Dio nel cuore della gente e del mondo. Il modo di essere della Chiesa deve seguire quello di Gesù che percorreva la Galilea e andava a cercare le faglie della società con un annuncio di vita che era già atteso dall’uomo e dalle donne di quel tempo. Non dobbiamo pensare alla missione come ad un annuncio volontaristico e di carattere istituzionale. Il Vangelo è già lì dove il cristiano arriva a testimoniarlo».

Può fare un esempio concreto di tutto questo?

«Prendiamo la lettera enciclica Laudato si’, quando il papa dice che la prima dichiarazione di Rio sull’ambiente è un testo profetico. Questo significa che il tratto di profetismo proprio del popolo di Dio era già presente nel profetismo del movimento ecologico, che non era cristiano. Come ben sappiamo, l’ecologia non l’ha iniziata la Chiesa, bensì è nata nell’alveo dei cosiddetti movimenti alternativi. Ebbene, la Chiesa ha trovato questo valore altrove, e da lì ha riletto la sua grande tradizione, così come la Scrittura, e ha elaborato una teologia della creazione che prima non aveva esplicitato in tutti i suoi aspetti».

Il termine “fraternità” può essere accostato al valore della misericordia, principio-guida del pontificato di papa Francesco?

«In estrema sintesi: sono diversi ma anche la stessa cosa. Il concetto di fraternità è evidentemente cristiano, ma la sua forza consiste nel fatto che nel tempo si è secolarizzato, in particolare a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo che diede origine alla Repubblica francese. Ma mentre i principi di libertà e di uguaglianza possono essere normalizzati in istituzioni giuridiche, la fraternità è una sorta di trascendenza immanente sulla quale non è possibile legiferare. Al cuore delle nostre costituzioni repubblicane infatti vi sono la libertà e l’uguaglianza, mentre la fraternità è qualcosa che non può diventare legge. Ecco allora il suggerimento di papa Francesco: dobbiamo operare una “mistica della fraternità”, che ci faccia vedere in tutti, in particolare negli emarginati e negli ultimi (i poveri, i disabili, gli anziani, i bambini…) la presenza di Dio. La misericordia in tal senso diventa la fraternità che va fino in fondo. E chi è capace di questo? Dio in Gesù Cristo. “Siate misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli” è un compito arduo. Ma è un invito che ci spinge ad avere un cuore docile e aperto».

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