la modernità sfida la chiesa a pensarsi in modo nuovo

 

diplomazia vaticana

Di fronte alle sfide della modernità, Mons. Albert Rouet invita a pensare la Chiesa diversamente  

fonte: J.B.in “www.cath.ch” del 18 gennaio 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)

 nelle chiesa il potere è stato sacralizzato, non è più al servizio del popolo di Dio: le strutture parrocchiali  sono centripete, tutto gira attorno al prete, i laici restano spesso come dei minorenni
così mons. Rouet, l’arcivescovo emerito di Poitiers, con la chiarezza e l’incisività che lo contraddistingue, alle ‘giornate tematiche’ sull’apostolato dei laici: occorre inventare e immaginare la chiesa diversamente
 in un mondo sempre più globalizzato, di fronte ai colpi violenti della modernità che non risparmiano la Chiesa, Mons. Albert Rouet ha invitato i partecipanti alle “Giornate tematiche” della Communauté Romande de l’Apostolat dei Laïcs (CRAL) ad “inventare ed immaginare la Chiesa diversamente” 

I circa cinquanta laici che hanno partecipato all’incontro previsto per il 18 e il 19 gennaio al Foyer franciscain di Saint-Maurice, sono stati interpellati energicamente da Mons. Albert Rouet, forte personalità che non usa rimanere nell’ “ecclesiasticamente corretto”. Nulla di più stimolante per delle giornate intitolale “Il respiro della Chiesa passa attraverso la creatività dei laici. La creatività dei laici dà respiro alla Chiesa”

Nato nel 1938 in una zona agricola, specialista di pastorale sacramentale, a lungo a contatto con i giovani – come cappellano di liceo a Parigi fino al 1968, direttore di una équipe di preti con incarichi a favore dei giovani, delegato per il mondo scolastico e universitario – Mons Rouet è stato dal 1994 al 2011 a capo dell’arcidiocesi di Poitiers, nella regione francese del Centro-Ovest. Forte della sua lunga esperienza pastorale a Poitiers, dove ha tentato l’esperienza di una chiesa di comunione nel solco del Concilio Vaticano II – proponendo una struttura diversa che evita la centralizzazione ed inventa altre modalità di esercizio del ministero presbiterale – l’arcivescovo emerito è molto sollecitato per tenere conferenze in tutte le parti del mondo. “Viaggio molto, ha confidato sabato all’Apic, e vedo che la domanda del ruolo e del posto dei laici nella Chiesa si pone ovunque in tutti i continenti. Ci sono luoghi in cui la parola è soffocata. Progressivamente, le aperture del Concilio Vaticano II riguardanti i laici sono state canalizzate, anzi spesso ristrette.

Per Mons. Rouet, in questo mondo secolarizzato “in cui siamo diventati insignificanti”, è urgente ripensare la Chiesa diversamente, non sacralizzare il potere gerarchico, ma al contrario promuovere  piccole comunità fraterne, a dimensione umana, in cui tutti si conoscono. “Come possiamo  chiamare fraternità la nostra Chiesa, mentre si continua a centralizzare a tutta forza? Gli accorpamenti di parrocchie concentrano alcuni convinti in un luogo geografico dato, ma tolgono forze vive ad altre località, che ne avrebbero invece bisogno per resistere. Se si vuole essere significativi in questo mondo, bisogna invece decentralizzare per potersi parlare tra fratelli che si conoscono. C’è una misura affinché la fraternità possa esistere!” L’arcivescovo ritiene che la Chiesa debba d’ora in avanti basarsi sui battezzati. Bisogna avere fiducia dei laici e “smetterla di funzionare sulla base di una suddivisione medioevale del territorio”.

Basandosi sui Vangeli e citando san Paolo, rileva che il prete non deve essere visto in una relazione verticale, gerarchica, ma deve al contrario costituire un legame tra i credenti, creare la comunione, la comunità. “Le strutture parrocchiali sono centripete, tutto gira attorno al prete… Il prete è visto come un capo. Si è copiata l’organizzazione civile. Se vi introducete un laico, è come se ci fossero  due coccodrilli in un pantano: il conflitto è sicuro, questione di potere! Il potere è stato sacralizzato, da qui la guerra per il potere tra clero e laici!”

Se i laici restano dei minorenni, la Chiesa non è credibile, insiste Mons. Rouet. A suo avviso bisogna quindi cambiare la logica, uscire dallo schema di potere, passare dai laici come aiutanti di un prete al centro di tutto, a delle comunità locali responsabili, costituite da un’équipe di base animatrice, con un prete a servizio delle relazioni tra i fedeli. Essendo segno di comunione, il prete è a servizio della comunione, nello specifico presiedendo l’eucaristia e i sacramenti. “La comunione non richiede che lui faccia tutto. Lo pone al punto di incontro. Per questo, le strutture devono cambiare.”

L’arcivescovo emerito constata che il problema deriva dalle strutture ereditate dalla storia: la parrocchia, nel passato, era vista come un territorio, un feudo, e il parroco vi restava fino alla morte. Prima, il numero dei preti era alto in Europa o in Canada, mentre ne mancavano in altre parti del mondo.

“Oggi, da noi, mancano preti, e la Chiesa vorrebbe mantenere le stesse strutture… Allora, si fa appello a preti che vengono da paesi sufficientemente poveri per avere un numero sufficiente di vocazioni, tutto questo per non cambiare la sacralizzazione del potere”.

“Ma è questo che ha voluto Cristo, è questo che ci dice il Vangelo?”, si chiede Mons. Rouet. E cita la Costituzione dogmatica I 2500 vescovi convenuti a Roma per il Concilio con l’idea di una Chiesa come “società gerarchica sacra” sono ripartiti “convertiti”, con l’idea di una “Chiesa sacramento del Regno”, sottolinea l’arcivescovo emerito di Poitiers. “Questa conversione dovrebbe trovare oggi la sua realizzazione sul terreno, ma ne siamo ancora lontani! Siamo davvero pronti ad attuare le intuizioni del Concilio?”. “Finché avremo ancora i mezzi, le cose non cambieranno, c’è la forza dell’abitudine, l’incapacità di pensare qualcosa di diverso da quello che si conosce. Quando, ad esempio, avremo una diocesi con solo 3 parrocchie e 5 preti, quando ciò toccherà direttamente il borsellino, allora bisognerà ben dirsi che si può fare diversamente”.




il ‘sogno’ di una chiesa meno clericale

 

grosse fragole

il teologo domenicano, F. Boespflug, professore di storia delle religioni a Strasburgo, delinea il suo ‘sogno’ di una chiesa meno clericale, che dia spazio effettivo alla donna, che metta al primo posto la parola e riveda le sue decisioni rispetto a tante bocche che ha duramente tappato

Ho un sogno: una Chiesa meno clericale

di François Boespflug*
in “www.lavie.fr” del 9 ottobre 2013

Se dovessi citare una sola priorità per la riforma in corso nella mia Chiesa, sarebbe quella di una Chiesa meno clericale nei suoi modi di fare e di parlare, di cui papa Francesco mostra l’esempio quasi ogni giorno con gioia e che dà al suo messaggio un ritorno di giovinezza, di vitalità, di semplicità evangelica e di pertinenza profetica. dare uno spazio effettivo alle donne Questo cambiamento passa innanzitutto dalla fine del monopolio clericale (o diaconale), in ogni caso maschile, sul diritto di predicare nell’ambito della liturgia, e dal diritto, per le donne formate per questo ministero (attraverso una qualificazione in bibbia, teologia e liturgia) di esercitarlo. Semplicemente non è più tollerabile dalla coscienza comune né veramente vivibile in questi tempi di crisi delle vocazioni sacerdotali il fatto che continui a dominare ancora per molto, senza la minimo prospettiva di cambiamento, la disciplina di ferro che regna in questo ambito a partire dalla riforma gregoriana. Non c’è alcun argomento teologico convincente, eccetto quello della tradizione (benché Maddalena abbia meritato il titolo di “apostola apostolorum” e ad ogni modo, come insegna san Tommaso d’Aquino, l’argomento della tradizione è il più debole di tutti dal punto di vista razionale) perché sia mantenuta questa regola, nel senso dell’adagio paolino, “che le donne tacciano nella Chiesa”. Questa affermazione, e le conseguenze che ne sono state tratte, non sono più accettabili. Altre Chiese cristiane hanno voltato pagina, non senza coraggio, e stanno alquanto meglio, e si farebbe bene a meditare sul loro esempio approfittando della loro esperienza. Sarebbe una scelta di classe che la Chiesa di Roma avesse il coraggio di consultare la Chiesa anglicana… In ogni caso, ci si può aspettare molto da una evoluzione in questo ambito ed è perfino permesso pensare che i benefici dell’apertura alle donne della predicazione liturgica produrranno frutti positivi, numerosi ed imprevedibili. Manca qualcosa all’esercizio attuale di questo ministero, che passerà tramite le donne e sarà ridato alla Chiesa tramite loro, e solo tramite loro. Si tratta di un provvedimento è di tale natura da far evolvere l’esercizio del sacerdozio stesso. Su questo piano come su tutti gli altri, dove tale evoluzione avviene, quando avviene davvero, l’incontro del maschile e del femminile ha la grande opportunità di essere feconda. È molto dannoso che la predicazione del vangelo non abbia ancora potuto beneficiare di questa sorta di fattore di umanizzazione completa che permette la condivisione del compito tra uomini e donne, come si constata che lo procura l’accesso delle donne a funzioni di responsabilità nelle imprese e in altre istituzioni. Non è affatto necessario, secondo noi, condizionare questo provvedimento all’accesso delle donne al diaconato o al presbiterato. Ogni cosa a suo tempo. Mettere al primo posto la parola Poiché la vita della Chiesa si nutre della Parola di Dio e della liturgia, metterei nella riforma al secondo posto la riabilitazione della parola durante la messa e suggerirei al papa di redigere una enciclica vigorosa sull’alleanza strutturale indispensabile, nella celebrazione dell’eucaristia, della tavola della parola e della tavola del pane, alleanza insegnata e sostenuta dal Concilio Vaticano II nel solco del rinnovamento patristico, ma che è oggi malata dell’esaltazione della presenza reale a detrimento della parola viva – un’esaltazione che risale senza dubbio alla Controriforma, se non oltre, e giunge non solo all’ostensorio, ma all’interruzione della celebrazione alla consacrazione per adorazione e alla correlativa sospensione dell’omelia. Quindi una enciclica sull’omelia sembra urgente e prioritaria, accompagnata forse da una riflessione ecclesiale di grande portata, coraggiosa e ambiziosa, sulla crisi della predicazione nella Chiesa. Bisogna finirla con una teologia dell’eucaristia che oppone sacramento e omelia come l’essenziale e l’accessorio. La maggior parte delle disaffezioni alla messa domenicale provengono non tanto da un
dubbio relativamente alla presenza di Cristo nel pane e nel vino consacrati quanto da una invincibile noia ripetuta di settimana in settimana: mentre la testa e il cuore soffrono la fame, puntare tutto sull’ostia soltanto per colmo di mancanza di nutrimento dello spirito è un controsenso teologico ed antropologico. È quindi la teologia della messa che occorre correggere in un senso che tenga conto della ricezione concreta della liturgia da parte dei fedeli e delle condizioni sine qua non della loro partecipazione prolungata e resistente, tranquilla e convinta. riabilitare i teologi Infine sogno una rivalorizzazione globale e decisa dello studio, dovere religioso numero uno degli ebrei e presto, se non si sta attenti, ultima delle preoccupazioni dei cattolici; una dichiarazione solenne sull’importanza della lettura assidua, della perizia paziente, della vita intellettuale in generale, della ricerca e del mestiere di teologo in particolare, nella vita della Chiesa. Certo è bello che l’azione cattolica, la militanza, il volontariato, la carità creativa sotto tutte le sue forme, da un lato, la preghiera, il gusto della condivisione comunitaria, la devozione, la vita interiore e la contemplazione dall’altra, abbiano conosciuto dei bei giorni da diversi decenni, in particolare grazie all’Azione Cattolica, a diversi rinnovamenti (liturgici, biblici, patristici, ecc.), al Concilio Vaticano II (1962-1965), a quello che è stato chiamato movimento carismatico (dal 1972) e all’impegno dei cristiani in diversi campi d’azione umanitari. Ma è profondamente negativo, nefasto, controproducente che la fiducia e la stima per coloro che dedicano la loro esistenza all’acquisizione di una vero saper-fare in materia di riflessione critica sulle condizioni e sui mezzi della vita cristiana e della testimonianza cristiana, abbiano conosciuto un tale crollo che ormai è corrente sentir dire e perfino leggere che non ci sarebbero più intellettuali cristiani. I teologi di mestiere (sì, sì: di mestiere!) sono sempre meno sollecitati a dare la loro opinione e le loro analisi non solo negli organi di stampa non confessionali, ma perfino nella stampa di obbedienza cristiana; così come è negativo che tanti vescovi immaginino di non doversi più consigliare con i saggi e soprattutto con i ricercatori appassionati della Chiesa (condizione necessaria, non sufficiente) e ben informati in materie come morale, finanza, politica, media, questioni interreligiose, faccende di immagini e arte, come se la loro ordinazione episcopale li avesse colmati ipso facto e durevolmente dei sette doni dello Spirito Santo. Questa tendenza larvata anti-intellettualistica nuoce sia alla qualità del dibattito nella Chiesa, che non è in buona salute, e alla pertinenza delle prese di posizione dei cristiani nei media.
Nel caso felice che i tre desideri che ho appena formulato si realizzassero, per quanto minimamente, ne conseguirebbe la de-clericalizzazione del linguaggio dell’omelia, della catechesi, delle dichiarazioni episcopali, e del tono dei preti e del loro abbigliamento. E prego lo Spirito Santo di diffondere generosamente sulla Chiesa il parlar franco, che può aiutare le evoluzioni in questo senso.
Utinam!
*François Boespflug domenicano, professore di storia delle religioni alla Facoltà di teologia cattolica di Strasburgo, autore di diverse opere religiose, tra cui Le prophète de l’islam et ses images, une question tabou (Bayard).