al cuore del mistero natalizio

SE DIO SI FA UMANO

di ENZO BIANCHI

Bianchi

Al cuore della nostra fede c’è il mistero dell’incarnazione di Dio: Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, il quale è nato, ha vissuto, è morto quale umana creatura nella storia e in mezzo all’umanità. Tuttavia, questa fede che noi confessiamo non sempre ci appare in tutte le sue conseguenze: ripetiamo che Dio si è fatto uomo, ma poi non approfondiamo, non osiamo dare alla carne di Gesù il peso che merita, la realtà che essa è in un corpo umano.

Innanzitutto, dire che Dio si è incarnato significa dire che non si è fatto uomo in generale, non ha semplicemente unito la natura umana alla sua qualità di Figlio di Dio, ma che è diventato un uomo “singolare”, preciso. E questo è avvenuto nascendo da Maria di Nazareth – “nato da donna”, scrive san Paolo (Gal 4,4) – ma cresciuto nel mondo a poco a poco, costruendosi in una persona plasmata dalla famiglia natale, dalle esperienze vissute, dalle contraddizioni affrontate, dal bene e dal male che ha dovuto riconoscere nel mondo e tra gli esseri umani. Dovremmo dire non solo che Dio si è incarnato, ma Dio si è umanizzato! Non facciamo letture cariche di supposizioni o di ipotesi psicologiche – tanto praticate oggi, ma svianti e sovente insensate – atteniamoci invece ai vangeli.

La venuta del Figlio di Dio che rinunciava al privilegio della sua condizione di Dio, spogliandosi degli attributi divini, non poteva avvenire se non in una famiglia credente e povera tra quelli che erano gli anawim, i “curvati”, i poveri che aspettavano la salvezza solo da Dio. E sua madre, Maria, e suo padre secondo la legge, Giuseppe, accolgono Gesù e lo mettono al mondo dandogli quell’amore e quella fiducia indispensabili a un bambino per crescere.

Anche nel rapporto filiale con Maria e Giuseppe, Gesù ha vissuto fatiche, difficoltà, contraddizioni… Certo, Maria era una donna che viveva dell’obbedienza alla parola di Dio, e Giuseppe è detto “uomo giusto”, dunque erano dei buoni genitori, ma questo non risparmia a Gesù le difficoltà quotidiane che si incontrano crescendo in una famiglia umana. In questo modo Gesù si umanizza come ogni essere umano e la sua personalità viene plasmata dalle relazioni con quei precisi parenti (“fratelli e sorelle di Gesù”), in quel preciso villaggio di Nazareth, con quanti frequentavano la sua famiglia e l’officina del carpentiere Giuseppe. Così è cresciuto umanizzandosi, imparando a “diventare un uomo”, a plasmare la sua personalità con il bagaglio ricevuto (la natura) e la storia in cui era immesso (la cultura). Dio, suo Padre, ha saputo rispettare la crescita autonoma di Gesù, senza mai fargli mancare l’ispirazione, la grazia, la fedeltà. La Lettera agli Ebrei lo dice con chiarezza: “Gesù imparò attraverso le sofferenze patite l’obbedienza filiale” (Ebr 5,8).

Purtroppo in molti cristiani questa immagine di Gesù veramente umano, umanissimo, è assente perché la sua qualità di Dio pare potersi affermare solo a scapito della sua qualità umana. L’umanizzazione di Dio ci scandalizza, e d’altronde questa è una verità solo cristiana, aborrita dai monoteismi, sia quello giudaico che quello dell’islam. Resta la verità dei vangeli: Gesù non è stato uomo per finta, non era solo simile a noi, era “della nostra stessa pasta”, come dicevano i primi padri della chiesa. E se i vangeli non ci parlano di Gesù nella crescita e nella giovinezza è perché non c’era nulla da dire, essendo la sua vita così ordinaria e quotidiana. Tuttavia non si finisca per pensare che questa umanissima condizione di Gesù gli impedisse di ascoltare Dio in un modo personalissimo, unico, come unica era la sua venuta nel mondo: unica ma sempre umanissima. “Cresceva in sapienza, in taglia e in grazia presso Dio e presso gli uomini” (Lc 2,52) e quindi sapeva afferrare nella sua esistenza umana ciò che Dio Padre voleva da lui, anche quando Giuseppe e Maria non lo capivano.

 
 

 



le tre ‘nascite’ o ‘venute’ di Gesù

NATALE

le tre nascite di Gesù

di Enzo Bianchi

La festa di Natale si avvicina e molti cristiani si apprestano a celebrarla, preparando anche i festeggiamenti che essa tradizionalmente richiede. In questa lunga vigilia che ormai è sempre più anticipata, e di conseguenza prolungata, per ragioni commerciali, non certo ‘spirituali’, si levano alcune voci critiche verso il consumismo, che scaturisce dall’ebbrezza connessa alle feste; altre voci richiamano l’attenzione sui poveri, sui senza casa, simboleggiati nei presepi; per altri ancora il Natale è l’occasione di una guerra culturale contro quelli che non sono cristiani; per altri, infine, il modo di vivere questa festa è epifania della stupidità che rinuncia a simboli e segni per non mettere in imbarazzo chi è estraneo alla fede cristiana. Sembra che la vigilia, anziché essere un tempo di preparazione e di maggior consapevolezza di ciò che si celebra, sia un pretesto per altre preoccupazioni.

Va anche registrata una forte caduta della qualità della fede, perché il popolo cristiano, non educato ma anzi sviato, non sa più cosa sia veramente il Natale e cosa è chiamato a celebrare. Lo dimostra la vulgata che ormai si è imposta: «Aspettiamo che nasca Gesù bambino… Ci prepariamo alla nascita di Gesù… Gesù sta per nascere: venite, adoriamo!». Espressioni, queste, prive di qualsiasi qualità di fede adulta e secondo il Vangelo. Perché? Perché Gesù è nato una volta per sempre a Betlemme, da Maria di Nazaret, dunque non si deve più attendere la sua nascita: altrimenti si tratterebbe di un’ingenua regressione devota e psicologizzante che depaupera la speranza cristiana, oppure di una finzione degna della scena di un teatro, non della fede cristiana!

Non ci si prepara alla Natività di Gesù Cristo, perché a Natale – come recita la liturgia – si fa memoria ( commemoratio, dice l’antico martirologio) di un evento del passato, già avvenuto «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4). Cosa dunque si celebra a Natale da autentici cristiani? Si fa memoria della nascita di Gesù, della nascita da donna del Figlio di Dio, della «Parola fatta carne» (cf. Gv 1,14), umanizzata in Gesù di Nazaret. A Natale, inoltre, volgiamo i nostri sguardi alla venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi perché, secondo la promessa che ripetiamo nel Credo, «verrà a giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine».

Tutto l’Avvento ha il significato di preparazione a questo evento finale della venuta gloriosa di Gesù Cristo, non alla nascita del santo bambino. Infine, a Natale ogni cristiano deve vivere e celebrare la nascita o la venuta del Signore Gesù nel suo cuore, nella sua vita. La grande tradizione della chiesa cattolica, fin dagli antichi padri d’oriente e d’occidente, ha meditato su queste tre nascite o venute del Signore, e proprio in base a questa consapevole percezione dovuta allo Spirito i sacramentari gelasiano e gregoriano introdussero le tre messe di Natale: notte, aurora e giorno. Sono poi stati soprattutto i padri cistercensi del XII secolo a sostare maggiormente sul mistero del Na- tale come giorno delle tre nascite di Cristo: Bernardo di Clairvaux per primo distingue, medita e commenta queste tre nascite, e subito dopo i suoi discepoli, Guerrico di Igny e Isacco della Stella.

Facile la meditazione sulla prima venuta di Gesù, quella dell’incarnazione, illustrata dai ‘vangeli dell’infanzia’ di Matteo e di Luca (cf. Mt 1-2; Lc 1-2): è un evento che si compie nell’umiltà, perché Gesù nasce da Maria nella campagna di Betlemme, non avendo trovato i suoi un alloggio nel caravanserraglio. Di questa nascita avvenuta quando Cesare Augusto era imperatore ed Erode re di Galilea, non si accorgono né i potenti né gli uomini del culto e della legge: sono pastori, poveri coloro ai quali Dio dà l’annuncio della nascita del Messia, il Salvatore.

I nostri presepi la rappresentano bene, ma questo ‘memoriale’ di un evento avvenuto nella storia autorizza la lettura di due ulteriori nascite-venute del Signore. In primo luogo la venuta del Signore nella gloria alla fine dei tempi: colui che è venuto nell’umiltà della carne fragile e mortale degli umani verrà con un corpo spirituale, glorioso, vincitore della morte e di ogni male, per instaurare il suo Regno. Questa è la parusia, la manifestazione di Gesù quale Signore di fronte a tutta la creazione. L’Avvento insiste soprattutto su questa venuta per chiederci di vigilare, di essere pronti, di pregare per affrettarla, perché egli viene e viene presto! Purtroppo a tale venuta si fa sempre meno cenno nella chiesa e la predicazione spesso è muta su questo tema. Eppure ciò è decisivo per la fede: se Cristo non viene nella gloria quale giudice e instauratore definitivo del Regno, allora vana è la nostra fede, vana la nostra affermazione che egli è risorto, miserabile la nostra vita di sequela (cf. 1Cor 15,19).

Purtroppo nella vita secolare della chiesa attraversiamo raramente periodi di ‘febbre escatologica’ e quasi sempre restiamo nel torpore di chi è spiritualmente sonnambulo e non attende più nulla. Non è un caso che Ignazio Silone, questo grande cristiano, a chi gli chiedeva perché non entrasse a far parte della chiesa, dal momento che aveva ritrovato una fede profonda in Gesù e nel Vangelo, rispose: «Per far parte di quelli che dicono di aspettare il Signore, e lo aspettano con lo stesso entusiasmo con cui si aspetta il tram, non ne vale la pena!». Infine, il Natale è l’occasione per rinnovare la fede nella terza nascita di Gesù: la venuta di Gesù in noi che può avvenire ogni giorno, hic et nunc, qui e adesso. Il cristiano sa che il suo corpo è chiamato a essere dimora di Dio, tempio santo.

Ecco allora l’importanza che il Signore Gesù venga, nasca in noi, nel nostro cuore, in modo che la sua vita sia innestata nella nostra vita, fino a poter dire nella fede: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). È una venuta che ciascuno di noi deve invocare – «Marana tha! Vieni, Signore Gesù!» (1Cor 16,22; Ap 22,20) -, deve preparare, predisponendo tutto per l’accoglienza del Signore che viene nella sua Parola, nell’Eucaristia e nei modi che egli solo decide, in base alla sua libertà e alla potenza dello Spirito santo. Occorre essere vigilanti, in attesa, pronti, con il cuore ardente come quello della sentinella che aspetta l’aurora. Qui occorrerebbe ascoltare san Bernardo che ci parla delle «visite del Verbo, della Parola», in cui il Signore Gesù Cristo viene in noi: evento spirituale, nascosto, umile, ma sperimentabile.

Ecco solo due stralci delle sue meditazioni: «Conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta nascosta si colloca infatti tra le altre due, che sono manifeste. Nella prima il Verbo ‘è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini’ (Bar 3,38)… Nell’ultima venuta ‘ogni carne vedrà la salvezza di Dio’ (Lc 3,6) e ‘volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto’ (Gv 19, 37; cf. Zc 12,10). La venuta intermedia è invece nascosta… Nella prima venuta, dunque, ‘venne nella carne’ (1Gv 4,2) e nella debolezza, in questa intermedia viene ‘in Spirito e potenza’ (Lc 1,17), nell’ultima ‘verrà nella gloria’ (Lc 9,26) e nella maestà… Quindi questa venuta intermedia è, per così dire, una via che unisce la prima all’ultima: nella prima ‘Cristo’ fu ‘nostra redenzione’ (1Cor 1,30), nell’ultima ‘si manifesterà come nostra vita’ (Col 3,4), in questa… è nostro riposo e nostra consolazione». ( Discorsi sull’AvventoV, 1); «Confesso che il Verbo mi ha visitato più volte. Benché sia spesso entrato in me, non l’ho mai sentito entrare. Ho sentito che era là, mi ricordo della sua presenza… Ma da dove sia venuto nella mia anima, o dove sia andato nel lasciarla, da dove sia entrato e uscito, confesso che oggi ancora lo ignoro… È solo grazie ai moti del mio cuore che mi sono reso conto della sua presenza… Finché vivrò, non cesserò di invocare, per richiamare in me il Verbo: ‘Ritorna!’ (Ct 2,17). E ogni volta che se ne andrà, ripeterò questa invocazione, con il cuore ardente di desiderio». ( Discorsi sul Cantico dei cantici LXXIV, 5-7)

Ecco il vero Natale cristiano: noi ricordiamo la tua nascita a Betlemme, Signore, attendiamo la tua venuta nella gloria, accogliamo la tua nascita in noi, oggi. Per questo il mistico del XVII secolo Angelo Silesio poteva affermare: «Nascesse mille volte Gesù a Betlemme, se non nasce in te… tutto è inutile».

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primati di vergogna!

“le crociate hanno provocato più morti dell’Isis”

Enzo Bianchi

 

enzo biANCHI Gli attentati di Parigi hanno riaperto il problema, quanto mai serio, del rapporto mai semplice, del mondo islamico con quello occidentale. Si tratta di una relazione delicata.

ne parla il priore di Bose Enzo Bianchi.

 Bianchi stigmatizza fermamente chi in nome del suo Credo sparge sangue:

“Io sono convinto che oggi nell’ Islam esiste certamente una frangia radicale, estremista e violenta. Questa parte radicalizza ogni discorso e strumentalizza la religione a fini che nulla hanno a che spartire col sacro”.

ma, sottolinea Enzo Bianchi, l’islam nel suo insieme non è violento e ricorda che ogni religione, compresa quella cristiana, ha scritto pagine nere:

“Pensate che i cristiani siano venuti meno a questa brutta  tradizione? Le guerre di religione e le crociate che non furono passeggiate di salute hanno fatto morti ugualmente e probabilmente più dell’ Isis, dunque occorre imparzialità ed equilibrio”.




fare memoria dei morti: il 2 novembre

Bianchi

 

memoria dei morti

2 novembre

commento di E. Bianchi

Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.

Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.

Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.

La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.

E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12).

Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.

La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

 
 



la ‘parrhesia’ di p. E. Bianchi

‘parrhesia’ di un monaco

colloquio con Enzo Bianchi

Bianchi

a cura di Luigi Guglielmoni
in “Settimana” n. 36 del 18 ottobre 2015

Enzo Bianchi, 72 anni, laico, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, è noto per le sue conferenze, i suoi articoli e i suoi libri. Prima papa Benedetto e ora papa Francesco lo hanno convocato in importanti eventi e organismi di Chiesa. Gli abbiamo sottoposto alcune domande:

Caro priore, lei è stato invitato da papa Benedetto XVI a ben due sinodi mondiali dei vescovi, sulla parola di Dio e sulla nuova evangelizzazione. Cosa le è rimasto di quella esperienza? E cosa è passato di quelle proposte nel popolo di Dio? Non le pare che la scadenza biennale sia troppo ravvicinata e rischi l’inconcludenza pastorale?

Papa Benedetto XVI, che mi aveva conosciuto, quando era ancora cardinale, in occasione di seminari sul concilio Vaticano II, per due volte mi ha voluto come “esperto” ai sinodi mondiali dei vescovi, su due temi molto correlati tra loro. Ho seguito i lavori con convinzione e dando il mio contributo non solo nella discussione all’interno dei circoli linguistici (avevo scelto il gruppo francese), ma anche preparando tracce per gli interventi di alcuni padri sinodali che volevano prendere la parola pubblicamente nel dibattito. È stata per me un’esperienza molto importante: ho potuto ascoltare le diverse voci delle Chiese locali e mi sono persuaso che, sempre di più, le regioni culturali e linguistiche mostreranno nella Chiesa la loro diversità e ricchezza. Ricordo, inoltre, che gli interventi puntuali di Benedetto XVI, espressi al mattino in forma di lectio divina, erano vere “perle” per un rinnovamento della teologia della Parola e della sua “corsa nel mondo” (cf. 2Ts 3,1). Misurare quanto questi sinodi abbiano inciso sulla vita delle Chiese locali non è facile, e in ogni caso richiede una risposta diversificata. Sono testimone, per fare solo un esempio, che, nella Chiesa francese, essi hanno avuto notevoli ricadute: in diverse diocesi si è presa la decisione di formare alla lectio divina i cattolici “quotidiani”, quelli coinvolti nella sequela nella vita ordinaria, e si è aperta una profonda ricerca su forme e stili possibili in vista di una nuova evangelizzazione. In Italia mi sembra che non vi sia stato un particolare impegno in una recezione dei sinodi che rinnovasse la pratica di fede e raggiungesse i cattolici ordinari, quelli che frequentano la chiesa la domenica, e neanche sempre. Certamente occorrerebbe valutare la frequenza dei sinodi, soprattutto se i temi sono molto diversi e non direttamente coniugabili tra loro. Si ha l’impressione che l’anno della vita consacrata sia stato “contratto” dal sinodo sulla famiglia, dall’annuncio del giubileo sulla misericordia, dall’ostensione della sacra sindone, dai programmi pastorali delle singole Chiese locali… Va riconosciuto che, negli ultimi decenni, la Chiesa sembra temere l’ordinarietà della vita cristiana, e per questo si decidono iniziative diverse e frequenti, si vogliono “eventi” sempre nuovi. Si assiste ad una sorta di bulimia di “assemblee al lavoro”, che certamente sono anche necessarie, ma a condizione di essere “assimilabili” dal popolo di Dio. Questa tendenza va in parallelo a quella che si manifesta nella vita liturgica: inventare giornate o domeniche (della misericordia, del ringraziamento, della pace ecc.), come se si avesse timore della vita ordinaria. A me, monaco, viene da pensare ai padri del deserto che, a volte, vivevano la sequela di Cristo, addirittura per lunghi periodi, senza vita sacramentale, come è avvenuto per sant’Antonio e san Benedetto: sorriderebbero al vedere l’attuale moltiplicazione di iniziative, alle quali i cristiani non riescono neppure a stare dietro… L’anno della vita consacrata ha fatto le spese di questa situazione. È ormai alla fine, e pochi se ne sono accorti, anche tra i religiosi: vi è stato qualche incontro specifico, e nemmeno in tutte le diocesi, ma nessuna meditazione sul fatto che la vita religiosa sta scomparendo, con un conseguente mutamento profondo della vita della Chiesa cattolica. Ormai le suore sono una presenza rarissima, con un’età media molto alta che non consente loro di incidere in modo significativo sulla vita ecclesiale, e le vocazioni religiose sono quasi scomparse per certe forme di vita. Eppure, nessuno sembra preoccuparsene, come se questa fosse la volontà di Dio di fronte alla quale c’è solo la nostra impotenza.

L’enfasi retorica e l’apologetica sono tutte dedicate  alla famiglia, ma quale messaggio la Chiesa dà oggi a quanti sono chiamati a lasciare la famiglia in vista del regno di Dio (cf. Mc 10,29- 30 e par.)?

Confesso che, a volte, piango nel pensare a questa diminutio della vita religiosa e a questa quasi scomparsa dei monaci. Ho creduto e credo in questa forma di sequela, non migliore della sequela ordinaria, ma necessaria come segno escatologico, come memoria evangelica nella storia. Ma vedendo che oggi la Chiesa non presta attenzione ad essa, confesso che me ne vado da questo mondo nella sofferenza… L’invecchiamento del clero e la scarsità di vocazioni nei seminari, la crescente presenza di clero di altri paesi e l’avvio delle unità pastorali, i cambiamenti sociali e culturali… ripropongono la centralità della preparazione spirituale-culturale-pastorale dei futuri presbiteri e della formazione permanente degli attuali pastori. Sì, mancano i preti, e le vocazioni, almeno nelle regioni del nord e del centro Italia (come nel mio Piemonte), sono crollate e ormai rarissime: ci sono diocesi che non ordinano più nemmeno un presbitero all’anno! Vi è poi un problema di qualità dei candidati, non solo dal punto di vista culturale e intellettuale ma soprattutto di umanità. A causa dell’angoscia pastorale dettata dalla mancanza di presbiteri, si ordinano troppo facilmente candidati che non hanno una postura di saldezza, una capacità di discernimento, una maturità umana, a volte neppure una capacità di parola, tutti doni essenziali per essere pastori nel popolo di Dio. È vero che l’attuale società mostra molte fragilità, ma si faccia attenzione: i candidati sono presi dalla società, ma poi occorre farli crescere, prepararli e, alla fine, compiere un discernimento assolutamente necessario. In caso contrario, avremo una Chiesa con un numero considerevole di pastori senza qualità umana per stare in medio populi Dei, pastori funzionari con indole impiegatizia, e a volte pastori affetti da un pericoloso narcisismo clericale. Qui occorre una svolta. Ripeto, innanzitutto in termini di discernimento dei candidati, poi nella loro preparazione integrale, umana e cristiana. Occorre, inoltre, fortemente incoraggiare e dare forma a vite comuni di presbiteri, non forgiate sul modello monastico ma compatibili con una vita pastorale, in mezzo al gregge. Troppi presbiteri sono soli e ciò li induce spesso a compensazioni affettive che li pongono in gravi e patologiche contraddizioni con la vocazione e gli impegni assunti davanti alla Chiesa. Si arrivi poi alla convinzione dell’importanza di una formazione continua, lungo tutta la vita, perché occorre non smettere mai di cercare, studiare e pensare in un lavoro non solipsistico ma fatto “insieme”, in una situazione sinodale, con il vescovo, gli altri presbiteri e l’intera comunità cristiana. La vita del presbitero, pur nella necessità di portare la croce dietro al Signore Gesù, deve essere una vita umanamente bella, una vita buona, segnata dal bene, e una vita che conosca la beatitudine, dunque beata.

Papa Francesco viene sempre più percepito come il “parroco del mondo”. In alcune interviste e articoli, lei pare preoccupato della notevole popolarità del papa. Ce ne può spiegare il motivo?

Papa Francesco è un grande dono del Signore alla Chiesa cattolica e alle altre Chiese, perché si è fatto semplicemente voce del Vangelo con parrhesía, convinzione, simpatia verso l’umanità. In realtà, la sua parola si mostra, ogni giorno di più, dotata di una teologia vera, profonda, per nulla debole, anche se semplice nella formulazione, in modo che tutti possano ascoltarla e comprenderla. Ogni giorno incontro gente che mi dice con semplicità: “Siamo contenti che ci sia papa Francesco!”. Si tratta di donne e uomini cattolici, ma anche di cristiani non cattolici e sovente di persone che si definiscono non religiose. Devo riconoscere che ascolto critiche al papa più negli ambienti clericali che tra i non praticanti… La sua notorietà lo ha reso un leader mondiale, soprattutto dopo il suo viaggio a Cuba e negli Stati Uniti. Sembra che tutti possano fare riferimento a lui. Ma io mi sento di dire che, anche se questa approvazione è buona, non si deve essere sicuri che ciò possa continuare. La folla, come ci ricorda anche il Vangelo, muta repentinamente il suo atteggiamento! Oggi ci sono molti adulatori del papa, che millantano rapporti con lui, lo esaltano in pubblico e lo denigrano in privato. E poi molti, pur di conservare la posizione e il posto che avevano nella Chiesa prima di Francesco, con ipocrisia si proclamano fedeli a un papa che dice esattamente il contrario di quello che essi dicevano e imponevano agli altri, a costo di censurare  voci diverse dalla loro. È uno degli spettacoli più tristi: mancanza di libertà nel cristiano, mancanza di parrhesía, di franchezza e di coerenza, mancanza di una postura che obbedisca in primo luogo alla parola di Dio, e quindi alla coscienza dove essa si rivela. Io vado dicendo che, se il papa continua per questa strada, in cui dà il primato al Vangelo, si troverà presto di fronte a un’opposizione, perché le potenze demoniache si scatenano con più forza quando nella vita di un cristiano appare la croce di Cristo. Non può essere diversamente perché – come ha affermato Gesù – «non c’è discepolo che sia più del maestro» (Mt 10,24; Lc 6,40), non c’è vero cristiano che non segua Gesù fino al rigetto, all’opposizione, alla persecuzione. Ad alcuni il tema della carità pare preponderante oggi nella vita della Chiesa, forse a discapito dell’identità di fede, dell’appartenenza ecclesiale e dell’evangelizzazione. Qual è la sua valutazione? No, il tema della carità non può essere mai ritenuto negativamente preponderante nella vita della Chiesa, a meno che la carità non sia un “fare nostro agitato”, perché la carità è il fine della vita cristiana. La carità è un lasciare che l’amore di Cristo effuso nei nostri cuori diventi amore reale, concreto, pratico nella vita. Papa Francesco ha detto recentemente che «è amando gli altri che si impara ad amare Dio» (veglia di preghiera per la famiglia in preparazione al sinodo, 3 ottobre 2015), e io ho sempre detto e scritto che solo chi ha fede nell’umanità, nei fratelli e nelle sorelle che vede, può ricevere il dono della fede in Dio e che «solo chi ama il fratello che vede può amare Dio che non vede» (cf. 1Gv 4,20). Amare Dio, infatti, significa innanzitutto fare la sua volontà (cf. Gv 14,15; 1Gv 5,3), cioè osservare “il comandamento nuovo” (cf. Gv 13,34; 15,12), che non chiede neppure di amare Cristo, ma di amarci gli uni gli altri del suo stesso amore.

Lei collabora da trent’anni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, di cui è anche consultore e membro del Consiglio del comitato cattolico per la collaborazione culturale con le Chiese ortodosse e orientali. Quali strade si stanno percorrendo oggi?

Collaboro da decenni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e l’anno scorso ne sono stato nominato consultore da papa Francesco. È un organismo in cui si lavora bene, con un desiderio di percorrere vie di comunione con le altre Chiese e comunità cristiane; è un luogo privilegiato per conoscere la vita reale e i problemi delle altre confessioni cristiane. Oggi per il Consiglio è determinante l’impulso ecumenico dato da papa Francesco, il quale ha messo in pratica l’ecumenismo anche verso comunità cristiane così lontane dalla forma della Chiesa cattolica che sovente non erano tenute sufficientemente in considerazione. Il Consiglio lavora per i dialoghi bilaterali tra le Chiese, soprattutto per il dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, e per la preparazione dell’anniversario dei cinquecento anni della Riforma (2017), affinché sia per cattolici e riformati un’occasione per interrogarsi sul primato del Vangelo nella vita delle Chiese e per vivere gesti di riconciliazione in vista dell’unità. Certo, l’ecumenismo si è fatto complesso, perché molti non lavorano più per una comunione reale e visibile tra le Chiese, ma solo perché le Chiese riconoscano le diversità attuali: ma questo sarebbe vivere in una separazione resa “indifferente”, dal punto di vista teologico e sacramentale!

Cosa si aspetta dal giubileo sulla misericordia, tema non facile nella pratica cristiana quotidiana e nella cultura odierna?

Sono intervenuto più volte sul tema della misericordia, nelle diverse diocesi italiane dove i vescovi mi hanno chiamato in occasione di assemblee diocesane o di incontri in preparazione al giubileo. D’altronde, credo di essere stato il primo a scrivere lo scorso anno sull’Osservatore romano, prima ancora dell’annuncio dell’anno santo straordinario, un articolo sul primato della misericordia che intravedevo come continuità tra il papato di Francesco e quello di Giovanni XXIII. Sì, la misericordia vissuta dalla Chiesa è decisiva per sradicare dalle nostre menti e dai nostri cuori l’immagine di un Dio perverso e ridargli la sua vera immagine, quella da lui rivelata a Mosè con la proclamazione del suo Nome santo (cf. Es 34,6-7) e quella che di lui ci ha rivelato definitivamente Gesù Cristo (cf. Gv 1,18). Gesù Cristo è l’immagine visibile dell’invisibile misericordia divina: egli ha sempre fatto misericordia, non ha mai giudicato, castigato, e a tutti quelli che andavano da lui ha concesso la remissione dei peccati. In questo la Chiesa deve conformarsi a lui, imitarlo, perché tutti  vedano il volto di Dio, un Padre con il cuore di Madre. Il vero problema è che la misericordia scandalizza, e scandalizza innanzitutto noi cristiani. Quante volte, leggendo nei vangeli gli incontri di Gesù e l’annuncio della sua misericordia, io stesso sono stato tentato di dire: «Così è troppo!». Davvero, noi siamo scandalizzati dalla misericordia di Gesù, mostrata senza se e senza ma, e ci dimentichiamo che egli è morto non perché si opponeva alla Legge di Mosè, non perché aveva commesso crimini, né perché si era opposto al potere imperiale romano, ma è stato condannato per la sua misericordia verso i peccatori pubblici, verso le prostitute, gente di scarto.

Come inserire nel vissuto quotidiano delle comunità cristiane il convegno ecclesiale nazionale di Firenze? Cosa si attende?

Quanto al convegno ecclesiale nazionale di Firenze, mi sento di dire che non ho visto molta convinzione nella sua preparazione, almeno nelle Chiese del nord Italia. I più non sanno che cosa in esso si farà, ma ne sono a conoscenza solo pochi degli addetti ai lavori e gli invitati possibili o reali. Difficile dire che cosa mi attendo. Mi pare che assomigli tanto agli ultimi due convegni nazionali (Palermo 1995, Verona 2006), dai quali mi chiedo cosa sia uscito per la Chiesa in Italia. Anche papa Francesco ne ha criticato la formula, dicendo che sono sempre le stesse persone a intervenire e che non c’è quel confronto, quel dialogo che oggi si richiede in ogni istituzione che voglia essere sinodale. Vorrei appunto che la Chiesa italiana entrasse in uno stato sinodale, che magari celebrasse un sinodo anche solo per interrogarsi sul primato del Vangelo nelle vite delle nostre Chiese e delle nostre comunità. Non abbiamo bisogno di nuovi documenti, di una relazione di un teologo accompagnata da quella di un sociologo, che saranno dimenticate subito dopo… Abbiamo bisogno di poco: di chiederci che cos’è il Vangelo per noi, per le nostre comunità, di interrogarci su quale Vangelo narriamo agli altri con la nostra vita. In ogni caso io e la mia comunità preghiamo perché ogni assemblea cristiana sia attenta allo Spirito Santo che, secondo la promessa, aleggia ed è presente dove i cristiani sono riuniti nello stesso luogo (cf. Lc 24,49; At 1,8; 2,1-11): è responsabilità dei cristiani ascoltarlo e lasciare che trasformi la loro mente, oppure farlo aleggiare inutilmente sopra le loro teste.




i veri nemici sono quelli che ha più vicini

la misericordia di papa Francesco crea scandalo nella chiesa

Papa Francesco

papa Francesco

La Repubblica, 14 ottobre 2015
di ENZO BIANCHI

Il termine “apocalisse” non indica, come molti intendono, qualcosa di catastrofico, bensì un “alzare il velo”, una ri-velazione, l’emergere di una realtà inaspettata o nascosta. Per questo ciò che sta avvenendo non solo in questi giorni sinodali ma dall’inizio del pontificato di Francesco è un’apocalisse che fa conoscere situazioni che paiono impossibili e svela la verità delle coscienze e dei cuori, sovente nascosta dietro adulazioni, ipocrisie di linguaggio e di comportamento. Che cos’è in gioco in questo confronto sinodale che a volte appare un’aspra battaglia? Non ciò che la chiesa crede in obbedienza al vangelo. In particolare non è in gioco la dottrina cattolica sull’indissolubilità del matrimonio cristiano – e di questo papa Francesco più volte si è dichiarato garante – e nemmeno è in gioco un patteggiamento della chiesa, e in primo luogo dei pastori, circa la famiglia oggi, la sua crisi, le ferite che può registrare nelle storie di amore, la sua fragilità come le sue riuscite sempre incompiute e contraddette. No, in gioco è la dimensione pastorale, l’atteggiamento da assumere verso chi ha sbagliato e verso la società contemporanea. E in questo senso proprio la chiesa, che ha accolto i sacramenti dal Signore e crede in essi con obbedienza, per esserne ministra ha il compito di determinarne la disciplina rinnovandola e rendendola più fedele al vangelo compreso sempre meglio nella storia grazie all’azione dello Spirito santo.

Va detto con chiarezza: ciò che scandalizza è la misericordia! Sembrerebbe impossibile, ma non possiamo dimenticare che Gesù non è stato condannato e messo a morte perché si era macchiato di qualche crimine secondo il diritto romano, né perché aveva smentito la parola di Dio contenuta nelle legge e nei profeti, bensì per il suo comportamento troppo misericordioso che rompeva le barriere erette dai giusti incalliti contro i peccatori pubblici: annunciava infatti il perdono, senza far ricorso a una giustizia retributiva e punitiva, amava frequentare prostitute e peccatori noti come tali e stare alla loro tavola. Il suo modo di comportarsi ha rivelato che la misericordia non è un correttivo per mitigare la giustizia, non è neppure un soccorso per chi non conosce la verità: la giustizia di Dio è sempre misericordia anzi, è la misericordia che stabilisce la giustizia e rende splendente e non abbagliante la verità. I nemici di Gesù erano esperti della santa Scrittura (scribi) e uomini “religiosi” che confidavano in se stessi e nel loro comportamento scrupolosamente osservante.

È dunque rivelativo che un’opposizione analoga emerga anche contro papa Francesco e il cammino che tenta di tracciare per la chiesa, l’esodo verso le periferie esistenziali di un’umanità sofferente e mendicante amore, tenerezza, compassione in un mondo sempre più duro, sempre più incapace di prossimità e di fraternità. Ho già avuto modo di scriverlo fin dai primi passi di questo pontificato: se il papa sarà fedele al vangelo troverà opposizione, persino rigetto e disprezzo perché non potrà essere di più del suo Signore. L’ha profetizzato Gesù semplicemente leggendo le proprie vicende e quelle dei profeti prima di lui.

Ciò che stupisce è proprio che chi nei confronti dei papi precedenti non avanzava critiche o contestazioni ma semplicemente poneva loro domande, veniva subito additato come “non cattolico”, mentre oggi, grazie alla libertà che Francesco ha voluto assicurare al dibattito, alcuni arrivano a sospettare che lui permetta di lasciar manipolare un confronto che nella chiesa dovrebbe sempre essere ascolto dell’altro, eloquenza delle proprie convinzioni senza accanimento, riconoscimento che il successore di Pietro, il papa “fa strada insieme” (syn-odos) ai vescovi ma presiedendo la loro comunione con un carisma e un mandato proprio che proviene dal Signore stesso.

Siamo tornati al tempo del concilio, alle contestazioni più o meno manifeste, alle mormorazioni contro Giovanni XXIII e Paolo VI, ma questo non deve spaventare. Nella sua storia, la chiesa ha conosciuto ore più critiche, anche se indubbiamente queste vicende non offrono una testimonianza di parresia e di comunione fraterna. Stupisce che questa contestazione venga proprio da chi papa Francesco ha voluto tenere vicino a sé nel governo della chiesa o incaricare di aiutarlo per tracciare un cammino di riforma delle istituzioni. Ma questo dato rivela chi è l’attuale papa: non è un pontefice che scarta chi sa diverso da lui, chi ha sensibilità molto differenti, non è un “regnante” che emargina chi ha altre ottiche pastorali. Tutti possono costatare questo suo atteggiamento che certo gli nuoce e gli rende faticoso il suo servizio alla chiesa. D’altronde nella chiesa c’è chi vorrebbe che papa Francesco fosse solo una breve parentesi, chi afferma che “questo papa non gli piace”, chi lo considera “debole nella dottrina”, chi non ama il suo ecumenismo che vuole abbracciare tutti i battezzati e non creare muri nei confronti dei non cristiani e degli uomini e delle donne del mondo.

Per scelta di Benedetto XVI ho partecipato a due sinodi e non vedo in quello in corso una procedura radicalmente diversa, se non per l’invito di papa Francesco alla parresia e per una metodologia diversa pensata a servizio di questa libertà di parola: pubblicare il riassunto della discussione senza fornire i nomi dei singoli intervenuti e le frasi da loro pronunciate, per esempio, consente di non classificare i vescovi in tradizionalisti e innovatori, in conservatori e liberali sulla base di affermazioni apodittiche che non riflettono l’incidenza avuta dal confronto e dal dialogo nel corso del dibattito. Le diversità infatti sono legittime, soprattutto in un’assemblea veramente cattolica, in cui i vescovi sono portavoce del loro popolo, custodi della fede inculturata in una regione precisa che non sempre appare contemporanea ad altre.

Esser “servo della comunione” per papa Francesco è arduo, ma i cattolici credono anche che su di lui c’è la promessa fatta a Pietro da Gesù stesso: “Ho pregato perché la tua fede non venga meno e tu conferma i tuoi fratelli!”. Questa è un’ora di apocalissi nella chiesa e non sarà l’ultima: ognuno si assuma le proprie responsabilità nei confronti della comunione cattolica e, più ancora, nei confronti del vangelo al quale dice di voler obbedire.

 




il commento al vangelo della domenica

commento al Vangelo della ventiseiesima domenica del tempo ordinario (27 settembre 2015) di p. Alberto Maggi e di p. Enzo Bianchi:

 

 

  9, 38-43.45.47-48

[In quel tempo] Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi assicuro, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

CHI NON E’ CONTRO DI NOI E’ PER NOI

  SE LA TUA MANO TI E’ MOTIVO DI SCANDALO, TAGLIALA

il commento di p. Maggi:

p. Maggi
Gesù aveva dato ai suoi discepoli la capacità di liberare dai demòni, cioè di liberare da quelle ideologie che impediscono di accogliere il messaggio della Buona Notizia. Ebbene, non solo essi non ne sono capaci, ma tentano, con arroganza, di fermare quelli che lo fanno.
Infatti, scrive l’evangelista presentandoci Giovanni – Giovanni, insieme al fratello Giacomo, è stato soprannominato da Gesù “figlio del tuono”, in aramaico “Boanerghes” (3,17), che dà l’idea del tuono, per il loro fanatismo, per le loro intemperanze, per la loro violenza – che si rivolge a Gesù dicendo: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome”. “Nel nome di Gesù”, non significa usare la formula del nome di Gesù, ma identificandosi con Gesù.  
“E glielo abbiamo impedito”, e sentiamo la motivazione, “perché non ci seguiva”. Non può dire “perché non seguiva te”, perché agisce nel nome di Gesù, ma “non seguiva loro”. Loro pretendono che tutti i seguaci di Gesù facciano parte del gruppo dei discepoli.
Ebbene, Gesù amplia l’orizzonte della sua comunità e dice “Non glielo impedite” – ed è imperativo  “perché non c’è nessuno che agisca con forza” – è questo il significato del termine adoperato – “nel mio nome” , cioè identificandosi con me, “e subito possa parlar male di me”.
“Chi non è contro di noi è per noi”. Quindi Gesù ammette che ci possano essere suoi discepoli anche se non appartengono al gruppo che pretende di avere il monopolio del suo insegnamento. E poi Gesù invita anche i discepoli a identificarsi con lui: infatti dice: “chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua, nel mio nome” – quindi invita anche loro ad identificarsi con lui, perché loro non lo sono ancora  – “non perderà la sua ricompensa”.
La presenza di Gesù e del Padre è la ricompensa di chi lo accoglie.
Ma poi, subito dopo Gesù di fronte a questo attacco di Giovanni con il quale il discepolo aveva addirittura interrotto il suo importante discorso sul servizio, ecco che Gesù li ammonisce. “Chi scandalizza”, cioè chi è di inciampo “uno solo di questi piccoli”.
Chi sono questi piccoli? Il testo greco ha il termine Micron  che non indica i bambini; indica le nullità, le persone emarginate, gli insignificanti della società. “Che credono in me”, quindi non sono bambini; sono persone adulte che hanno dato adesione a Gesù, ma sono persone senza importanza.
Ebbene, le parole di Gesù sono terribili, sono tremende: se uno di voi mi fa inciampare una di queste persone che credono in me, queste persone che hanno sentito parlare di questo messaggio di amore e invece vedono che tra di voi c’è rivalità, queste persone che hanno sentito parlare di un messaggio di fratellanza e invece vedono che tra voi ci sono divisioni –  ebbene le parole di Gesù sono tremende – “è meglio per lui che gli venga messa al collo una macina”, e poteva bastare, invece Gesù precisa  “da mulino”.
C’erano due tipi di macina, una domestica, quella girata dalla donna, e quella da mulino, che serviva per il frantoio ed era pesante, “e sia gettato nel mare”. Perché Gesù dà queste indicazioni? Gesù dice che questo individuo deve scomparire definitivamente e, per assicurarsi che scompaia definitivamente, deve essere gettato nel mare, ma con una macina enorme – da mulino – fissata al collo. Perché? Gli ebrei avevano il terrore di morire affogati; credevano che se si moriva affogati non c’era speranza di risurrezione.
Allora Gesù dice che non basta gettarlo nel mare questo qui, perché poi il corpo può tornare a galla, allora bisogna evitare che il corpo torni a galla per poi essere seppellito. Quindi le parole di Gesù sono davvero tremende.
E poi Gesù dà una serie di avvisi alla sua comunità e dice: “Se la tua mano”, poi parlerà del piede e dell’occhio; la mano indica l’attività, il piede la condotta, l’occhio il criterio con il quale si osservano le cose della vita, “ti è motivo di scandalo”, cioè è motivo di inciampo per te, se fai un’attività che ti fa   inciampare, Gesù è radicale “tagliala! E’ meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con due mani andare nella Geènna”.
Cos’è questa Geènna? “Gêhinnôm” significa Valle di Hinnom; era ed è un burrone, a sud del tempio di Gerusalemme, che al tempo di Gesù veniva usato come discarica dei rifiuti. Questi rifiuti venivano continuamente ammucchiati e poi bruciati per eliminarli completamente. Quindi Gesù dice: “è meglio che, anche se doloroso, ti togli qualcosa che ti impedisce la pienezza di vita, piuttosto che finire nell’immondezzaio di Gerusalemme”.
E così via, Gesù parla del piede, parla dell’occhio. Ed ecco la finale; dice “E’ meglio per te tutto questo, anziché essere gettato nella Geènna”, e Gesù qui cita il finale del libro di Isaia (66,24):“dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”.
Gesù non sta parlando di un castigo dopo la morte, tutt’altro. La finale del libro di Isaia illustra la pena per gli israeliti che erano stati infedeli. La maniera per eliminare i cadaveri era duplice: da una parte c’era la putrefazione, e dall’altra la cremazione. Ebbene qui il profeta le mette insieme, “il loro verme non muore”, quindi la putrefazione è completa, e “il fuoco non si estingue”, quindi la cremazione è completa.
Significa la distruzione totale. O si entra con Gesù nella pienezza della  vita, o, quando arriva la morte fisica, questa trova un corpo svuotato di vita ed è quella che nell’Apocalisse (2,11; 20,6.14; 21,8) si chiama “la morte seconda”, la fine totale dell’esistenza.

 

Il Signore conosce i suoi 

il commento di p. Bianhi

Bianchi

 

Il testo evangelico di questa domenica si presenta composito, riportando una serie di parole di Gesù appartenenti a contesti diversi ed eterogenei, eppure legate da alcune espressioni ricorrenti: “nel tuo/mio nome”, “scandalizzare”. Mi soffermerò dunque unicamente sull’episodio dell’esorcista che compie azioni di liberazione pur non seguendo Gesù.

Gesù sta continuando il cammino verso Gerusalemme insieme ai suoi discepoli, ma il clima comunitario non è pacifico. Egli fa annunci della sua passione e i discepoli non capiscono (cf. Mt 9,32) o si ribellano, come Pietro (cf. Mc 8,31-33); quando, in assenza di Gesù, viene chiesto ai discepoli di guarire un ragazzo epilettico, forse giudicato posseduto da uno spirito impuro, essi si mostrano incapaci di liberarlo dalla malattia (cf. Mc 9,14-29); infine, tutti i Dodici si mettono a discutere su “chi tra loro fosse più grande” (Mc 9,34). Sì, ormai tra Gesù e la sua comunità vi è distanza, incomprensione. Se il passo di Gesù è sempre convinto, con uno scopo preciso che gli richiede una radicale obbedienza, quello dei discepoli è invece incerto e sbandato. Nel vangelo secondo Marco tutto il viaggio verso la città santa sarà caratterizzato da questa tensione tra Gesù e i suoi, dall’incomprensione da parte di tutti, nessuno escluso.

Ed ecco, puntualmente, un nuovo episodio che attesta tale stato di cose: Giovanni, il fratello di Giacomo, uno dei primi quattro chiamati (cf. Mc 1,16-20), uno dei discepoli più intimi di Gesù, testimone privilegiato della sua trasfigurazione (cf. Mc 9,2), vede un tale che scaccia demoni, compie azioni di liberazione sui malati nel nome di Gesù, pur non facendo parte della comunità, dunque non seguendo Gesù con gli altri discepoli. Allora si reca da Gesù e dichiara risolutamente: “Lo abbiamo visto fare ciò e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Cosa c’è in questa reazione di Giovanni? Certamente uno zelo mal riposto, ma uno zelo che rivela un amore per Gesù, una gelosia nei suoi confronti: se uno usa il nome di Gesù, dovrebbe seguirlo e dunque fare corpo con la sua comunità… Mescolato a questo sentimento vi è però anche uno spirito di pretesa, il pensiero che solo i Dodici siano autorizzati a compiere gesti di liberazione nel nome di Gesù; c’è un senso di appartenenza che esclude la possibilità del bene per chi è fuori dal gruppo comunitario; c’è la volontà di controllare il bene che viene fatto, affinché sia imputato all’istituzione alla quale si appartiene.

Sono qui ritratte le nostre patologie ecclesiali, che a volte emergono fino ad avvelenare il clima nella chiesa, fino a creare al suo interno divisioni e opposizioni, fino a fare della chiesa una cittadella che si erge contro il mondo, contro gli altri uomini e donne, ritenuti tutti nello spazio della tenebra. Dobbiamo confessarlo con franchezza: negli ultimi trent’anni il clima della chiesa è stato avvelenato in questo modo e tale malattia non è ancora stata vinta. Vi sono movimenti ecclesiali che si ergono a giudici degli altri, che si ritengono una chiesa migliore di quella degli altri. Vi sono cristiani che, con certezze granitiche, giudicano gli altri fuori della tradizione o della chiesa cattolica e aspettano di poter ascoltare da parte dell’autorità ecclesiastica condanne verso quanti non somigliano a loro o non fanno parte del loro movimento, che cede a tentazioni settarie. Non possiamo negare che molti hanno dovuto soffrire e sentirsi figli bastardi, poco amati da una chiesa che privilegiava altri in quanto militanti, facili e ben disposti a essere ingaggiati in battaglie contro il mondo.

Guai alla comunità cristiana che pensa di essere chiesa autentica, guai all’autoreferenzialità e all’autarchia spirituale, atteggiamenti di chi pensa di non avere bisogno delle altre membra, perché si crede lui il corpo di Cristo (cf. 1Cor 12,12-27). Cristo è Signore, è il Signore di tutta la chiesa e lui solo conosce i suoi (cf. 2Tm 2,19): non spetta dunque ai suoi, o ai pretesi suoi, giudicare altri come zizzania, fino a tentare di estirparli (cf. Mt 13,24-30). Cristo trascende le frontiere di ogni comunità cristiana e può operare il bene in molte forme attraverso la potenza del suo Spirito santo, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8). Nella chiesa, purtroppo, si soffre di questa malattia dell’“esclusivismo” e facilmente non si riconosce all’altro la capacità di compiere il bene, di operare per la liberazione dell’uomo dai mali che lo opprimono.

Papa Francesco in questi pochi anni di pontificato è tornato più volte a denunciare questi mali ecclesiastici, chiedendo soprattutto ai cristiani appartenenti ai movimenti di imparare a camminare insieme agli altri cristiani, non separati, non al di sopra, non con itinerari in opposizione. La diversità è ricchezza, è multiforme grazia dello Spirito che rende policroma la chiesa (cf. Ef 3,10), la sposa del Signore, la rende più bella. Se uno fa il bene in nome di Cristo, questo bene va innanzitutto riconosciuto, non negato, e poi occorre avere fiducia in lui: se compie il bene in nome di Gesù, potrà forse subito dopo parlare male di lui? “Chi non è contro di noi è per noi”, chiosa lo stesso Gesù. Ovvero, egli esorta ad accettare di non essere i soli a compiere il bene, ad accettare che altri, diversi da noi, che neppure conosciamo, possano compiere azioni segnate dall’amore. Si tenga anche presente che vi sono molti che sembrano seguire Gesù, profetizzare, scacciare demoni e compiere miracoli nel suo nome (cf. Mt 7,22), che magari hanno anche una pratica di ascolto delle sue parole e una pratica sacramentale eucaristica (“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza”: Lc 13,26). Tutti costoro, però, risulteranno estranei al Signore, che dirà loro: “Non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me, voi che avete operato il male!” (Mt 7,23; cf. Lc 13,27).

La vera domanda che dobbiamo porci non è dunque: “Chi è contro di me, contro di noi?”, bensì: “Sono io, siamo noi di Cristo?”. Scrive l’Apostolo Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23). Ovvero: se non siamo di Cristo, se non abbiamo i suoi “modi” (cf. Didaché 11,8) e il suo pensiero (cf. 1Cor 2,16), non siamo nulla: non abbiamo sale in noi stessi, ma siamo come il sale insipido (cf. Mc 9,50), che “serve solo ad essere gettato via e calpestato” (Mt 5,13). La nostra responsabilità è quella di lottare ogni giorno contro noi stessi, non contro presunti nemici esterni, perché niente e nessuno può impedirci di vivere il Vangelo, se non noi!




i due amici

il ricordo dell’amico

Bianchi: il mio amico padre Arturo, profeta «cosmico»

era stato insignito del titolo di «Giusto tra le nazioni» e nel memoriale di Yad Vashem in Israele è ricordato come «salvatore non solo della vita di una persona, ma anche della dignità dell’umanità intera». E fratel Arturo Paoli è stato proprio questo: un uomo, un cristiano, un fratello, un prete «giusto» in mezzo ai suoi compagni di umanità.

Giusto non della giustizia umana – per salvare vite umane non ha esitato a infrangere leggi disumane, ha conosciuto processi e tribunali, è sfuggito a chi voleva “giustiziarlo”… – ma di quella giustizia secondo Dio che non è mai disgiunta dalla misericordia, dal cuore per i miseri, dalla benevolenza verso il prossimo, a cominciare dai più piccoli, dagli indifesi, dalle vittime della storia che sono sempre vittime di altri uomini: un giusto testimone di quella giustizia misericordiosa che ha nome Gesù Cristo, il Giusto sofferente in un mondo ingiusto.

Del resto, già un suo professore all’università lo aveva definito «uomo cosmico» e la sua tempra verrà poi plasmata nel crogiolo del deserto del Sahara, dilatandone la profonda cattolicità – cioè la capacità di pensare e vedere la realtà nella sua dimensione universale – e facendo di lui un cristiano mite e tenace come solo i miti sanno essere, fino all’ultimo a servizio di quei poveri nei quali sapeva di poter trovare il volto di Gesù che tanto cercava.

Così scriveva pochi anni fa: «Guardate il vecchio dalla riva; avete tempo, potete anche dialogare con lui perché l’acqua scorre molto lentamente… Non temete: l’Amico lo tiene per mano, soavemente o con energia, e non lo lascerà fino all’incontro con l’Infinito». Ora quest’incontro è giunto e mi piace ricordare in quest’ora gli ultimi dialoghi avuti con fratel Arturo, quando nel gennaio e poi a maggio dello scorso anno sono passato a trovarlo nella sua pieve per custodire e alimentare ancora una volta la lunga e fedele amicizia che ci univa.
Era appena stato ricevuto in udienza da papa Francesco, e nei suoi occhi vivacissimi e dalle sue parole pacate e insieme appassionate emergeva la gioia per la nuova primavera che vedeva sbocciare.

Una primavera che alla sua età ormai non immaginava più di poter ancora gustare e un gesto di comunione che non osava più sperare, anche se il vescovo di Lucca Castellani gli aveva mostrato affetto e stima. In quelle occasioni mi chiese anche l’ultima edizione dell’ufficio di Bose per poter continuare a pregare con la nostra Preghiera dei giorni, come ormai faceva da decenni.

Sentii ancora una volta il suo cuore palpitare di amore per il Signore Gesù, mentre ci dicevamo l’un l’altro in profonda sintonia: «Il Vangelo è solo Gesù Cristo, e Gesù Cristo è solo il Vangelo!». Era stato il Vangelo a spingerlo a vivere con gli ultimi, il Vangelo lo aveva chiamato in Sardegna tra i minatori del Sulcis, il Vangelo lo aveva inviato in Argentina tra i boscaioli di Fortín Olmos, il Vangelo lo spinse a scrivere il Dialogo della liberazione che avrebbe ispirato anche la teologia di Gustavo Gutierrez. Vero itinerante di terra in terra, come i missionari del Nuovo Testamento, perseguitato e poco compreso dai poteri mondani, non cessò mai di essere un testimone “mite” del Vangelo.

Il cammino spirituale di fratel Arturo è stato il percorso di un profeta, sovente non ascoltato od osteggiato e perfino ferito, come quando, rientrato ultranovantenne in Italia, gli fu impedito di prendere la parola in una marcia nazionale per la pace organizzata da Pax Christi. È sempre stato un uomo schietto, senza arroganza, ma con la rappacificata e solidale consapevolezza di un’identità umana e cristiana cercata e trovata nel confronto aperto con il sempre possibile non-senso dell’esistenza.

«L’identità – ebbe modo di scrivere – è per me la scoperta di stare al mondo fra gli altri come un essere necessario. Se io non esistessi, all’umanità mancherebbe qualcosa nel suo cammino verso la meta del suo essere vera. Sì, all’umanità sarebbe mancato qualcosa di prezioso. Noi ringraziamo il Signore per averci donato di camminare accanto a questo uomo di Dio, rimasto giusto e vigilante fino all’ultimo, grande testimone del Vangelo e difensore dei poveri, grande dono per la Chiesa e per l’umanità. Davvero fratel Arturo è stato un segno del Vangelo di Cristo per tutti noi! A me viene a mancare un amico, un fratello e quel suo sorriso che era come il sorriso di Gesù: mite, accogliente, magnanimo.

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il cibo è vita quando è condiviso, altrimenti è veleno e morte

perché il pane quotidiano deve essere un diritto di tutti

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 19 maggio 2015

Bianchi

Omnia sunt communia: questa affermazione, risalente ai padri della chiesa, è stata la bandiera della rivoluzione di Thomas Müntzer (1489-1525), la “rivoluzione dei contadini”. Dal 1968 riappare periodicamente – così anche poche settimane fa a Milano, in occasione dell’inaugurazione di Expo 2015 – come scritta di protesta. Si può essere sorpresi dalla predicazione ecclesiastica degli ultimi decenni, muta sui temi della giustizia e dell’equità, ma questa affermazione era stata ripresa dal concilio Vaticano II: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità… L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni» ( Gaudium et spes 69). Il cibo, che ci dà la vita e senza il quale moriamo, è la prima realtà che va necessariamente condivisa. Oggi siamo consapevoli dell’ingiustizia regnante, dell’assoluta mancanza di equità nella distribuzione delle risorse del pianeta. Si pensi solo che meno del 20% della popolazione possiede l’86% della ricchezza mondiale. La diseguaglianza planetaria, a partire dall’ingiusta ripartizione del cibo, dovrebbe farci provare vergogna. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri dai ricchi dovrebbe inquietarci, perché una tale situazione può solo preparare una rivolta dei poveri, una guerra – dai nuovi connotati, ma sempre guerra – tra i privilegiati da un lato e, dall’altro, i bisognosi che non solo ricevono sempre meno aiuti e sono sempre più abbandonati a se stessi, alla miseria, all’ignoranza, alle regressioni tribali che generano violenza tra gli stessi poveri, ma che vengono anche defraudati delle loro terre e delle ricchezze che vi si trovano. I ricchi oggi diventano più ricchi e i poveri più poveri, cresce il numero delle persone obese nel ricco occidente, mentre gli abitanti dell’emisfero sud, dell’Africa, continuano a morire di fame o di malnutrizione. Purtroppo negli ultimi venticinque anni si sono imposti e regnano “dogmi economici” che favoriscono i ricchi e aumentano l’ingiustizia nella società. L’idolo della crescita economica che si pretende inarrestabile; il consumo, anch’esso pensato sempre in aumento per soddisfare una ricerca di felicità falsata; la concezione della naturalità della diseguaglianza, che sarebbe vantaggiosa per tutti: questi sono diventati dogmi poco contraddetti e invece sempre capaci di rendere idolatre e alienate le masse. Per la fede ebraica e cristiana, in ogni caso, Dio è la presenza che non solo chiede equità, ma la impone, «ricolmando di beni gli affamati e rimandando i ricchi a mani vuote» (cf. Lc 1,53), mentre attualmente si crede alla mano invisibile del mercato, pensata come l’artefice assoluto del benessere del pianeta: idolatria, avrebbero gridato i profeti e i padri della chiesa! Abbiamo perduto il senso della grande e decisiva nozione cristiana del bene comune e, con esso, ogni urgenza di giustizia e di equità. La terra è di Dio e su di essa noi siamo solo ospiti e pellegrini ( cf. Lv 25,23); la terra è stata affidata a tutta l’umanità perché fosse lavorata, custodita e potesse dare le risorse necessarie per la vita di tutti gli abitanti del pianeta, umani e animali. Il cibo, il pane, secondo la metafora che lo rappresenta, è di tutti e per tutti. Diceva il pensiero cristiano: «Il “mio” e il “tuo”, queste fredde parole, introdussero nel mondo infinite guerre… Un tempo i poveri non invidiavano i ricchi perché non c’erano poveri, essendo tutte le cose comuni» (Giovanni Crisostomo, Omelia su 1-Cor 1-1,19 2). Ecco da dove sorgono il contrasto, l’inimicizia, la violenza… Oggi è urgente che gli umani riscoprano la communitas la quale, sola, può aiutare i tentativi di equa redistribuzione delle ricchezze del pianeta; è urgente che ritrovino l’idea di bene comune, per la felicità della convivenza; è urgente che si esercitino alla “con-vivialità”, alla condivisione del cibo per ritrovare i legami sociali, la possibilità di instaurare una fiducia reciproca che si traduce in responsabilità l’uno verso l’altro. Non mi dilungo a declinare l’istanza della condivisione del cibo, ma è facile comprendere che non significa solo l’atto finale dello spezzare il pane insieme, seduti alla stessa tavola, bensì  anche il rispetto del lavoro del produttore di alimenti, il riconoscimento del lavoro dei contadini, la sostenibilità sociale ed ecologica, l’instaurazione di un mercato equo e solidale e, all’inizio dei processi, l’affermazione della proprietà comune delle risorse naturali come l’acqua e la destinazione della terra a quanti la lavorano. Il cibo, dunque, è tale quando è condiviso, altrimenti è veleno per chi se lo accaparra e morte per chi non ce l’ha. Il mondo, purtroppo, sembra diviso tra chi non ha fame perché ha troppo cibo e chi ha fame perché non ne ha. In virtù di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… Il paradosso dell’abbondanza in cui credevamo di vivere, con la crisi economica di questi ultimi anni ha mostrato che la miseria può essere tra di noi e colpire qui, nelle nostre terre, uomini e donne che vivono tra la penuria e la fame, faticando ad avere ciò che è necessario per vivere e dovendo così ricorrere all’aiuto di istituzioni caritative. Ripeto, qui in mezzo a noi! Condividere il cibo dovrebbe essere condizione essenziale per poterlo assumere con sapienza e per renderlo causa di festa, trasformandolo da cibo quotidiano in banchetto. Mai senza l’altro, neppure a tavola! Nel Padre nostro non sta scritto: «Dammi oggi il mio pane quotidiano » – suonerebbe come una bestemmia! – ma «Dacci, da’ a tutti noi il pane di ogni giorno (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), e così ti potremo chiamare “Padre nostro” e non “Padre mio”»! Permettetemi di ricordarlo: se il pane, bisogno comune, pane per tutti, non è condiviso, allora «le pain se lève», «il pane insorge, si alza in rivolta». Questo è il grido delle rivoluzioni per la mancanza di pane e la fame dei poveri: lo era nel medioevo ma lo è ancora ai giorni nostri (come dimenticare la scintilla che ha scatenato la rivolta tunisina un paio d’anni fa?). Vigiliamo dunque e, soprattutto, decidiamoci a una conversione, a un mutamento dei nostri comportamenti verso il cibo: dobbiamo combattere gli sprechi, sentire come un furto il buttare via il cibo, assumere uno stile di sobrietà, fare le battaglie politiche ed economiche necessarie affinché il cibo sia sempre condiviso. E subito, nel quotidiano, dove ci troviamo, dobbiamo dare da mangiare a chi ha fame, aiutandolo con denaro o invitandolo alla nostra tavola. Sulla condivisione del cibo – dice Gesù – saremo giudicati degni di vivere oppure maledetti, consegnati alla morte: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35.42). Il rapporto tra sapienza umana e cibo non può eludere il problema della fame e dunque chiede, anzi reclama con forza la condivisione.




il commento al vangelo di p. Maggi, p. Bianchi e p. Agostino

 

SEI STATO FEDELE NEL POCO, PRENDI PARTE ALLA GIOIA DEL TUO PADRONE! 

maggi

commento al Vangelo della domenica trentatreesima  del tempo ordinario (16 novembre) di p. Alberto Maggi:

Mt 25,14-30

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

Con Gesù il rapporto con Dio, con il Padre, cambia. Non più servi del Signore, ma figli del Padre. Ma un’idea sbagliata di Dio può rovinare l’esistenza della persona e impedire il passaggio da servo a figlio.
Sentiamo cosa ci scrive Matteo nel suo vangelo, capitolo 25, dal versetto 14 al 30. Gesù sta parlando del regno, del Regno dei Cieli. “Avverrà infatti come a un uomo che, partendo, chiamò i suoi servi …”, nel mondo orientale tutti i dipendenti di un personaggio importante vengono chiamati servi anche se, come in questo caso, si tratta di funzionari di alto rango.
“… E consegnò loro i suoi beni.” Questo signore non lascia i suoi beni in custodia, ma li trasferisce. Il verbo “consegnare” utilizzato dall’evangelista, significa un “dare” senza poi riprendere. “A uno diede cinque talenti”. Il talento era una misura di valore molto importante, un talento oscillava tra i 26 e i 36 Kg d’oro; un talento corrispondeva circa a 6.000 denari, cioè a 20 anni di salario di un operaio, quindi una fortuna.
Ebbene “a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno”, letteralmente “la forza”. Il signore, il padrone conosce i suoi funzionari e sa le loro capacità. “Colui che aveva ricevuto cinque talenti subito andò a impiegarli”, e lo stesso fa quello che ne aveva ricevuti due. Il primo ne guadagna altri cinque, e l’altro ugualmente raddoppia, ne guadagna altri due, agiscono da signori, come se il talento fosse loro.
“Colui invece che aveva un solo talento…”, attenzione non è che con un solo talento riceva poco, ma ripeto un talento sono circa 30 Kg d’oro o 20 anni di paga di un operaio, quindi un’enorme fortuna, ma costui rimane servo, non si sente signore. “… andò a fare una buca nel terreno”. Seppellendo questo talento è come se seppellisse la propria vita, ma lo fa anche perché, secondo il diritto rabbinico, se uno seppelliva il denaro che gli era stato dato, in caso di furto, non era tenuto a restituirlo.
Quindi prende tutte le precauzioni, lui non crede nella generosità del suo padrone “e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi viene …” l’evangelista parla al presente, a rappresentare un’azione che continua nella comunità di Gesù, “e volle regolare i conti con loro”. Non viene per farsi restituire quello che lui aveva donato, ma vedere che cosa ne hanno fatto.
“Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: ‘Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. Ebbene a questo punto il signore, il padrone, non chiede indietro quello che lui aveva dato, ma gioisce ed escama: “’Bene … “, e questa esclamazione assomiglia a quella del creatore nel libro del Genesi quando Dio, il creatore, ammira la sua opera, “’Servo buono e fedele – gli disse il suo padrone – sei stato fedele nel poco … “’, dice nel poco, ma si tratta di un’enormità, una fortuna immensa, 150 Kg d’oro, una fortuna straordinaria, e il padrone dice che era poco.
“’Ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”’. Lo invita a far parte di tutte le sue sostanze, di tutta la sua vita e lo fa passare dalla condizione di servo a quella di padrone, libero come lui. Ugualmente per quello che ne aveva ricevuti due. Invece è diversa la situazione per colui che aveva ricevuto un talento.
“Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e gli disse: ‘Signore, so… ‘”, lui ragiona in base a quello che sa, ma è una conoscenza sbagliata. “’… so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso’”, ma questa è un’immagine distorta che non viene
giustificata dalla narrazione. Nella narrazione vediamo un padrone non generoso, ma follemente generoso, che non solo non vuole indietro l’enorme fortuna che ha lasciato ai suoi funzionari, ma addirittura li fa parte di tutto il suo patrimonio, di tutta la sua vita.
“’Ho avuto paura’”. Ecco qui dove vuole arrivare l’evangelista, un’immagine distorta di Dio, la paura di Dio può essere fatale per la persona, che ha paura di agire per timore del rimprovero, o di sbagliare. Dirà Giovanni  nella prima lettera “Nell’amore non c’è timore. Chi teme non è perfetto nell’amore”.
“’Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento…’”, mentre gli altri se ne sono impossessati e hanno agito liberamente, costui è rimasto servo, e sottolinea “’… sotto terra: ecco ciò che è tuo’”. Non l’ha mai considerato proprio. Ed ecco la reazione del padrone. “Il padrone gli rispose: ‘Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato’”, omette la definizione “uomo duro”,”’ e raccolgo dove non ho sparso …’”, il padrone non è d’accordo con l’immagine che il servo ha di lui, è un’immagine distorta.
“’Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse’”. La paura di sbagliare, nell’individuo, ha paralizzato la sua azione, la sua crescita. Ed ecco la sentenza. “’Toglietegli dunque il talento… ‘”, non ha saputo che farsene, era una fortuna e non l’ha saputa usare, anzi per lui questa fortuna che il signore gli aveva dato era diventata motivo di angoscia, di ansia e preoccupazione. Allora il signore gli dice “è inutile che la tieni, “’… e datelo a chi ha i dieci talenti.’”.
Questo individuo non viene punito per aver fatto qualcosa di male, semplicemente non ha fatto nulla. Ed ecco la sentenza, “’.. perché a chiunque ha…’”, questo verbo avere lo abbiamo già trovato nel vangelo di Matteo nella parabola dei quattro terreni, e indica produrre, colui che produce, “chiunque ha”, cioè chiunque produce e fa fruttare ciò che gli viene dato, “’… sarà nell’abbondanza; ma a chi non oha, verrà tolto anche quello che ha.’”
Chi produce amore riceve da parte del Padre una grande, maggiore capacità d’amare. Chi invece non ama, chi non dirige la propria vita per gli altri, questa si atrofizza e rimane senza nulla. “’E il servo inutile …”, inutile perché non ha saputo che farsene di questa fortuna, “’… gettatelo fuori nelle tenebre’”. In realtà c’è già perché seppellendo il talento ha seppellito se stesso, “’…  là sarà pianto e stridore di denti’”.
“Pianto e stridore di denti” è un’espressione equivalente un po’ al nostro italiano “strapparsi i capelli”. E’ la disperazione per aver fallito la propria esistenza.

La parabola dei talenti

XXXIII domenica del tempo Ordinario A
Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

Mt 25,14-30

La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli uomini, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male…
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza (tanto meno a quella economica o finanziaria), non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso la comunità cristiana che sovente è tiepida, senza iniziativa, contenta di quello che fa e opera, paurosa di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno neppure leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere rende cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
E allora leggiamo con intelligenza questa parabola la cui prospettiva – lo ripeto – non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni che egli ha fatto a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua – cinque lingotti di argento a uno, due a un altro –, affinché la facciano fruttare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa.
“Dopo molto tempo” – allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) – il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, … entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Viene infine quello che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti: “Da quando mi hai fatto fiducia, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Luca; cf. Lc 19,22) il servo confessa di avere un’immagine del Signore che si è fabbricata: un padrone che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato…
Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio e pigro. Malvagio perché hai obbedito all’immagine del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato”. Lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”.
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
 

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agostino

La parabola dei talenti

la parabola commentata da p. Agostino Rota Martir a partire dal suo luogo di ‘osservazione e lettura’ del vangelo: la condivisione della sua vita in un campo di rom

Ogni essere umano e’ portatore e messaggero di talenti. Tutti lo sono, non solo quelli che riteniamo per bene, affidabili, seri, responsabili Agli occhi di Dio lo e’ anche chi è considerato un “buono a nulla”, il carcerato, l’accattone, il clandestino, il fannullone?

Ecco, mi chiedo “quell’uomo in viaggio” (le parabole di Gesu’ quasi sempre trattano di uomini in viaggio, in movimento) affiderebbe i suoi beni anche a quest’ultima categoria?

Li consegnerebbe a un Rom, a un migrante appena sbarcato a Lampedusa, ad un tossico, ad una famiglia sfrattata, a un mendicante, ad un uomo del tutto normale, come il mio vicino di casa?  

Consegnare tutti quei talenti (che non sono certo briciole!), solo a chi e’ affidabile, con tutte le credenziali al loro posto (anche se oggi su pochi metteremmo la nostra mano sul fuoco), caro Signore “viaggiatore misterioso” rischi ben poco, vai sul sicuro: troppo comodo e questo non è da Te.

Quindi immagino che Gesu’ nel raccontare quest’altra parabola, intendesse includere proprio tutti, compresi quei servi che noi senz’altro avremmo d’istinto scartato, proprio per la loro inaffidabilità.

Sì, mi piace vederlo così: un Dio che consegna le chiavi di casa sua e tutto quello che ci sta dentro, proprio a tutti, anche ai Rom del campo abusivo sotto casa sua, al servo svogliato e un po’ fannullone, al malato di mente, a chi ha perso il lavoro e non riesce più a reagire, al vecchio che vive di soli ricordi, anche a quel giovane che spreca il suo tempo a inseguire fantasie illusorie, al detenuto schiavizzato e abbruttito dal sistema carcerario disumano..

Chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.”

E’ vero, e’ un Dio che fa piovere (talenti) sui buoni e sui malvagi, cioè offre cammini di santità proprio a tutti, anche a quelli che poi lo deluderanno.

E’ un Signore a cui piace il rischio di dar fiducia alle persone, di scommettere sulla loro creatività e ingegnosità. Anche se questo, lo farà passare agli occhi di tanti come un ingenuo, un “buonista” come si sente ripetere tanto ai nostri giorni a tipi come lui.

E poi, siamo così sicuri che la “contabilità” di Dio, coincida sempre secondo i nostri calcoli?

Gli ultimi saranno i primi.”

“Fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.”

 

Di certo è che i talenti degli ultimi in genere, sono sepolti da una valanga di sospetti e diffidenze: quasi impossibile notarli. Invece i talenti dei cosi detti bravi, sono sempre illuminati a vista, abbagliano così tanto che a volte, ci impediscono di vedere tutto attorno.

Ma Dio non si lascia ingannare dai nostri bagliori, sa vedere perle (talenti) che brillano anche sotto il letame della storia.

Spesso chi sa di essere “bravo/a” sente il bisogno di verniciare di Dio i suoi talenti (come fa spesso la cantante Vip suor Cristina), chi invece sa di non contare niente, li vive in silenzio e in umiltà, come se si vergognasse di coinvolgere Dio nella sua “insignificante vita”, temono di sporcarLo.

Invece, e’ proprio così che facciamo felice Dio. “Bene, servo buono e fedele.. prendi parte alla gioia del tuo padrone.”

Si, e’ bello riconoscere e gioire per i talenti messi a frutto grazie alla nostra esistenza e il nostro impegno, ancora più bello scoprirli vivi e luminosi anche là dove nessuno si degna di guardare e con stupore incrociare lo sguardo di Dio proprio dentro queste vite.

 

Campo Rom di Coltano (PI) – 13 Novembre 2014