il commento al vangelo della domenica

CHIEDETE E VI SARA’ DATO  

 

commento al vangelo della domenica diciassettesima del tempo ordinario (24 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

L’unica preghiera insegnata da Gesù, il Padre Nostro, ci è giunta in tre versioni differenti tra loro. Questo perché gli evangelisti non intendevano trasmettere le parole esatte di Gesù, ma il suo profondo significato.
 Del Padre Nostro abbiamo quindi una versione in Matteo, la più lunga, poi una versione più breve, questa di Luca che ora commenteremo al capitolo 11, e poi nel primo catechismo della chiesa che si chiama Didaché, una parola greca che significa “insegnamento”.
Ma pur essendo differenti queste tre versioni tutte contengono un mistero che adesso cercheremo di affrontare. Allora vediamo questa unica preghiera insegnata da Gesù e vediamo la sua importanza. Gesù ai discepoli che gli chiedono di insegnare loro a pregare dice: “Quando pregate, dite: “Padre …” Verso Dio non si rivolge usando quei formulari cerimoniali liturgici in cui Dio veniva esaltato con tutti i suoi nomi (tipo “altissimo”). No. Gesù si rivolge a Dio chiamandolo Padre, perché questo è il rapporto che lui è venuto ad inaugurare con i suoi: la relazione di un padre con un figlio.
E teniamo presente che in quella cultura il padre è colui che trasmette la vita, quindi è la fonte della vita. E la prima richiesta che si fa: “Sia santificato il tuo nome”. Il verbo “santificare” ha il significato di consacrare, separare, ma quando è rivolto a Dio significa riconoscere quello che è.
Allora la prima richiesta che la comunità dei credenti rivolge al Padre è “venga riconosciuto questo tuo nome”, cioè che la gente ti conosca come un Padre, e in questo brano del vangelo Gesù dirà che il Padre fa incontro ai bisogni dei suoi figli, il Padre addirittura li precede perché il Padre ha a cuore la vita e la felicità dei suoi figli. Allora la comunità chiede questo tuo nome, con il quale noi ti abbiamo conosciuto e che stiamo sperimentando – Padre – venga riconosciuto.
L’altra petizione: “Venga il tuo regno”. “Venga il tuo regno” non ha il significato di chiedere qualcosa che non c’è e quindi deve venire, il significato del verbo è “si estenda, si allarghi questo tuo regno”. Il regno, il regno del Padre c’è già. Gesù, nel proclamare le beatitudini, aveva proclamato beati i poveri perché di essi è il regno di Dio. Il regno di Dio non è l’aldilà, ma una società alternativa dove al posto di accumulare per sé si condivida generosamente con gli altri, dove al posto di comandare si serva.
Allora, attraverso la fedeltà alle beatitudini, la comunità chiede che si estenda questa esperienza del regno. E qui in mezzo c’è un versetto di difficile traduzione, perché contiene una parola greca che nella lingua greca semplicemente non esiste. E’ quello che noi traduciamo con “dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano”. L’evangelista scrive – cerco di tradurre letteralmente dal testo – “il pane nostro quello …” e poi c’è questa parola greca che nella lingua greca non esiste … “dallo a noi ogni giorno”.
San Girolamo, il primo traduttore del vangelo, di fronte a questo termine che non c’è nella lingua greca, fece una scelta. Nel vangelo di Matteo lo tradusse con “super-super-stantialem”, che significa un pane che va al di là della sostanza. Nel vangelo di Luca invece lo tradusse con “quotidiano”. Poi la chiesa nella versione liturgica ha scelto la versione di Matteo, ma anziché super-super-stantialem, difficile da pronunciare e da comprendere, ci ha messo quotidiano.
E’ una scelta che provoca tanti danni, perché con questa scelta sembra quasi che si debba chiedere a Dio il pane da mangiare, il pane che nutre gli uomini. No, il pane che nutre gli uomini è compito degli uomini procurarlo e condividerlo con chi non ne ha. Questo è un pane speciale perché viene richiesto a Dio. Probabilmente la traduzione “super-super-stantialem” era quella esatta. Chi è questo pane? Questo pane è la presenza di Gesù al centro della comunità, come è al centro del Padre Nostro, Gesù come   alimento, come parola che alimenta la vita e come pane, il pane dell’Eucaristia che dona la forza di vivere questa parola. Quindi non si richiede il pane. Gesù aveva detto: “Non vi affannate, non state in ansia su cosa mangerete o cosa berrete! A queste cose pensano i pagani. Se viene richiesto a Dio è perché è la presenza del Signore come alimento di vita.
Poi la clausola “e perdona”, cioè letteralmente cancella, “a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo” – cancelliamo – “a ogni nostro debitore”. Dio ci perdona, ma il suo perdono diventa efficace e operativo nel momento che si traduce in perdono per gli altri.
Poi l’ultima delle invocazioni, anche questa tradotta male, specialmente in Matteo, ha provocato tanti problemi … il famoso “non ci indurre in tentazione”! Ora la traduzione ha migliorato. “Non abbandonarci alla tentazione”, letteralmente alla prova.
Qual è questa prova alla quale la comunità chiede di non essere abbandonata? E’ la prova nella quale ha fallito. Gesù nell’orto degli ulivi aveva chiesto ai discepoli: “Pregate per non entrare nella prova, per non cedere alla prova”. La prova era quella di Gesù che veniva catturato come un malfattore, che finiva assassinato come un delinquente, come un maledetto da Dio, una prova che ha messo in crisi la comunità. Allora Gesù chiede in questa preghiera alla comunità di chiedere di rimanere forti nel momento della prova, nel momento di questa tentazione.
Poi il brano si conclude con la piena fiducia nel Signore e soprattutto con un aspetto molto importante: l’unica cosa che Gesù garantisce che sarà data è normalmente quella che meno si chiede nell’elenco, nelle liste delle preghiere. Infatti il brano si conclude dicendo: “Se voi dunque, che siete cattivi”, non per dire che siamo cattivi, ma per paragonare la bontà del Padre al nostro atteggiamento verso gli altri dice che siamo cattivi, “sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo (letteralmente Spirito Santo senza l’articolo, perché non dà la pienezza dello Spirito Santo, ma Spirito Santo nella misura con cui la persona è in grado di accoglierlo) a quelli che glielo chiedono!».
Ecco è l’unica cosa che Gesù garantisce che il Padre darà. Spirito Santo. A che serve questo Spirito? Lo Spirito è la forza dell’amore di Dio che serve per realizzare il disegno d’amore del Padre su ognuno di noi. Perché Dio non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro il suo Spirito, l’energia interiore che fa comprendere la strada da percorrere.