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GAZA

“ho colpito civili per puro piacere”

KAFAR AZZA, ISRAEL - JULY 28: An Israeli soldier sits on a tank on July 28, 2014 near Kafar Azza, Israel. As Israel's operation "Protective Edge" in Gaza continues, the international community struggles to find a truce agreement. (Photo by Andrew Burton/Getty Images)

Gruppo di soldati riuniti di fronte a un carro armato a Gaza

Ariè fa parte della sessantina di soldati che hanno accettato di testimoniare per l’Ong Breaking the Silence sul soggetto dell’operazione “Margine di protezione”, condotta nell’estate del 2014 nella striscia di Gaza. Ariè ha confidato al mondo la sua esperienza come tiratore a bordo di un carro armato. La sua testimonianza è confermata in numerosi punti dalla stessa Ong

«Sono tiratore a bordo di un carro armato. Ho seguito una formazione classica di quattro mesi, poi altri quattro di formazione specialistica. C’è molto balistica, calcolo delle distanze, esercizi pratici. Sei tu che controlli l’arma, occorre essere calmi e precisi. C’è un pulsante che permette di accendere il cannone. Quando si accende, significa che si è vicini al bersaglio. La regola elementare è: non si scherza, si spinge quel tasto solo se si deve sparare. Per farlo, serve l’ordine del comandante. Diventa istintivo. Ho anche appreso che tutto va messo a rapporto. Ho appreso a scannerizzare un paesaggio, da sinistra verso destra, e fare rapporto. La decisione di sparare è successivamente presa da un superiore. 
Quando sono stato chiamato nel luglio del 2014, siamo stati riuniti nel Golan (nord di Israele). Abbiamo atteso che i camion arrivassero, poi siamo partiti verso sud, in prossimità della striscia di Gaza. Abbiamo cominciato a preparare i carri. Nessuno ci ha parlato della missione. Tutto è sfogato, discutiamo tra soldati, parliamo delle nostre paure, condividiamo i nostri pensieri. Un generale si avvicina e ci dice: “Domani sera, entriamo nella striscia di Gaza. Dobbiamo, pensare alle nostre famiglie. È per loro che lo facciamo, per la loro sicurezza”. Ci ha parlato delle regole. “C’è un cerchio immaginario di 200 metri intorno alle nostre forze. Se vediamo qualcosa all’interno dobbiamo ucciderlo”.

Esplosione nel cuore di Gaza

Ero l’unico a trovare tutto questo bizzarro: “Se una persona vede un carro e non fugge, non è innocente deve essere uccisa”. Ai suoi occhi, non c’erano civili. Se qualcuno era in torto, doveva essere ucciso. Il margine di manovra era ampio. Dipendeva da me e dal mio comandante. Non indagavamo sul bersaglio come mi era stato insegnato durante la formazione. Era più tipo: vedo qualcosa di strano dalla finestra, quella casa è troppo vicina, ho voglia di sparare. “Ok!”, diceva il comandante. Era questa la catena di decisione nella nostra unità.Avevamo mitragliatrici calibro 50 e i 7-62, per le zone aperte. Non abbiamo mai visto umani vicini a noi, tranne nel caso in cui tornavano a casa in sicurezza. Ci vedevano, continuavano ad avanzare. Avevamo paura di possibili attentati kamikaze. Ho preso la mitragliatrice sparando vicino a loro per intimidirli, perché avevamo paura anche noi. Anche se i soldati politicamente di destra erano dispiaciuti per i civili, eravamo in mezzo a loro e ai combattenti di Hamas. Che i combattenti vadano a farsi fottere! Abbiamo sempre paragonato Hamas con lo Hezbollah libanese, che è visto come l’élite. Hamas, ci fa paura lo stesso. Vittime del conflitto a Gaza

Non ho mai visto un combattente di Hamas. Si spostano nei tunnel. Entri in una zona aperta, e di colpo, ti sparano sopra. Ti giri, e non c’è più nessuno. E poi ci sono i cecchini sui tetti. Ne ho ucciso uno. Il cecchino è un semi-combattente. Spesso, vediamo persone sui tetti, che parlano al telefono. Verifichiamo se siano uno dei nostri e poi sparavamo. È successo molto spesso nella mia zona. Non potevamo prendere rischi.Sparavamo sui palazzi ma non era permesso sparare su quello delle Nazioni Unite. Nemmeno puntare il cannone nella loro direzione, poteva partire un colpo per sbaglio. Stessa cosa per l’ospedale o la centrale elettrica e i palazzi internazionali. Ci serviva l’autorizzazione per rispondere.Siamo entrati nella Striscia di Gaza il 19 luglio. Cercavamo dei tunnel di Hamas costruiti tra Gaza e Israele. Dovevamo distruggere le infrastrutture di Hamas e causare danni importanti al paesaggio, all’economia e alle infrastrutture per far pagare il prezzo più alto ad Hamas. Ufficialmente, ci dicevamo di dover evitare vittime civili ma nello stesso tempo dovevamo fare più danni possibili. Ero l’unico nel mio battaglione che era turbato dalla cosa. Tutti gli altri dicevano: “Dobbiamo farlo, o loro o noi, finiremo per essere uccisi altrimenti”. Era veramente triste. Tentavo di capire perché. Forse sono più maturo di loro, o è semplicemente la mia educazione. Molti cercavano solo di sopravvivere, giorno per giorno.Siamo entrati nella notte a Gaza, era molto caotico. C’erano molte discussioni in radio. Avevamo paura. Dopo qualche ora nelle quali sparavamo senza mai essere stati sparati, la mia vigilanza era meno stretta. Un giorno abbiamo tentato di uscire dal carro armato perché avevamo un problema al motore. In quell’istante diversi proiettili hanno sfiorato il mio orecchio e mi sono gettato a terra. La prima settimana uscivamo solo per pisciare e una volta ci siamo fatti un caffè. Dormivamo nel carro armato. Faceva un caldo terribile, non avevamo aria condizionata.


Siamo entrati all’interno della striscia di Gaza. Ci dividevamo e partivamo per missioni di qualche ora, verso il sud e verso Al-Bourej. Ho visto un tunnel di attacco di Hamas. Era talmente largo che praticamente poteva entrarci un carro. Ho anche visto piccoli tunnel a Juhor ad-Dik, sotto un palazzo che ospitava una farmacia della CroceRossa. Siamo rimasti in quella zona due settimane e mezza. La maggior parte del tempo, i carri pattugliavano la zona. Avevamo molta paura delle incursioni di Hamas.

Per tutta l’operazione, i tiratori nei carri armati erano felici di poter sparare dato che non potevano farlo normalmente poiché costa troppo. Io l’ho fatto solo a sei riprese durante la ma formazione. Era una buona occasione per verificare le nostre competenze. Durante l’operazione ho sparato 20-25 volte dal carro.

Nella terza settimana, ci eravamo appostati in un luogo in cui vedevamo la strada per Salaheddine, la grande arteria che attraversa la striscia di Gaza da nord a sud. La gente circolava perché era in una zona fuori dal conflitto. Eravamo in tre nel carro. Ci siamo detti: “Ok vediamo chi colpisce un veicolo o una bicicletta”. Il comandante ha detto: “Ok, rendetemi fieri!”. Il mio carro armato era datato 1980, non poteva raggiungere i bersagli spostandosi velocemente. Dovevo calcolare tutto nella mia testa in cinque secondi per anticipare la traiettoria. E non vedevo una parte della strada. C’era un ciclista. Lo abbiamo puntato con la mitragliatrice calibro 50. Ho sparato davanti e dietro, senza colpirlo. Ha iniziato a pedalare più veloce di Armstrong. È l’episodio del quale mi vergogno di più.

Quando ho lasciato Gaza, ero triste di quello che era successo. Ma ero sollevato di tornare alla vita civile. La maggior parte dei componenti della mia compagnia sono di destra. Considerano Breaking the Silence come un’organizzazione antisionista. “Crimini di guerra?” Sono grandi parole. Ma ho la percezione di aver fatto cose orribili sul piano internazionale. Ho colpito civili, solo per il gusto di farlo.

Ho provato a parlarne. Ma nel mio ambiente, nessuno vuole sentire queste cose. “Sei un eroe, hai fatto quello che dovevi…”. Anche i miei mi hanno detto la stessa cosa. Lì, tutto il sistema dei valori era capovolto. La gente per strada mi diceva che ero un eroe. Io, ero seduto all’interno di un carro armato tutto il giorno. Mi sono abituato a sparare. Non avevo una finestra. Il mio mondo a Gaza, era una scatola di 20 centimetri. Vedevo tutto attraverso un mirino, con una croce. Avevo la consapevolezza di fare qualcosa di male. Non c’era legge. Certo non è che stupravamo donne o uccidevamo bambini. Ma potevamo sparare su palazzi vuoti o sparare su una strada. Se uccidevamo qualcuno, potevamo avere qualche complicazione. Ma niente di più.