l’irrazionalità di troppi italiani – il rapporto Censis

un paese vulnerabile, in cui cresce l’irrazionalità: per 3 milioni di italiani Covid non esiste

55esimo rapporto Censis: “Boom povertà: la pandemia accentua il senso di vulnerabilità. Giù il patrimonio delle famiglie, solo 15% ottimista sul post Covid” 

EMANUELE CREMASCHI VIA GETTY IMAGES

 

“l’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile. E poi: il 5,8% è convinto che la Terra è piatta, per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla Luna, per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone”

Lo evidenzia il 55esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese. “Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità”, si osserva nel rapporto, che vi legge “la spia di qualcosa di più profondo: le aspettative soggettive tradite provocano la fuga nel pensiero magico”.

L’indagine evidenzia ancora come per il 31,4% il vaccino sia un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano facciano da cavie. Per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici. Si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste. Dalle tecno-fobie al negazionismo storico-scientifico, fino alla teoria cospirazionistica del ‘gran rimpiazzamento’ che ha contagiato il 39,9% degli italiani, certi del pericolo della sostituzione etnica.
“L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale, sia le posizioni scettiche individuali, sia i movimenti di protesta che quest’anno hanno infiammato le piazze, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei trending topic nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive”, osserva il rapporto.

“L’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia, ma ha radici socio-economiche profonde” e “dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali” e “la fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte”. Infatti, l′81% degli italiani ritiene che oggi sia molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio; il 35,5% è convinto che non convenga impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento. Per due terzi (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in passato.

Per il 51,2%, malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato. Il Pil dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare dell′8,9% nel 2020.

Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. L′82,3% degli italiani pensa di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella propria vita in generale. Il 69,6% si dichiara molto inquieto pensando al futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani.

Boom povertà: la pandemia accentua il senso di vulnerabilità – È boom della povertà: nel 2020 2 milioni di famiglie italiane vivono in povertà assoluta, con un aumento rilevante (+104,8%) rispetto al 2010 (980.000). L’aumento è sostenuto soprattutto al Nord (+131,4%; +67,6% Centro e +93,8% Sud). Tra le famiglie cadute in povertà assoluta durante il primo anno di pandemia, il 65% risiede al Nord (21% nel Mezzogiorno, 14% al Centro). Il rapporto evidenzia anche come la pandemia abbia accentuato il senso di vulnerabilità: il 40,3% degli italiani si sente insicuro pensando alla salute e alla futura necessità di dover ricorrere a prestazioni sanitarie.

Giù il patrimonio delle famiglie, solo 15% ottimista sul post Covid – Solo il 15,2% degli italiani ritiene che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore. Per la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà”. Il Rapporto del Censis evidenzia anche il rischio di erosione del patrimonio delle famiglie. “La ricchezza complessiva delle famiglie è pari a 9.939 miliardi di euro. Il patrimonio in beni reali ammonta a 6.100 miliardi (il 61,4% del totale), depositi e strumenti finanziari valgono 4.806 miliardi (al netto delle passività finanziarie, pari a 967 miliardi, corrispondono al 38,6% della ricchezza totale). Ma nell’ultimo decennio (2010-2020) il conto patrimoniale degli italiani si è ridotto del 5,3% in termini reali, come esito della caduta del valore dei beni reali (-17,0%), non compensata dalla crescita delle attività finanziarie (+16,2%). Gli ultimi dieci anni – spiega il Censis – segnano quindi una netta discontinuità rispetto al passato: si è interrotta la corsa verso l’alto delle attività reali che proseguiva spedita dagli anni ’80. La riduzione del patrimonio, esito della diminuzione del reddito lordo delle famiglie (-3,8% in termini reali nel decennio), mostra come si sia indebolita la capacità degli italiani di formare nuova ricchezza”.

L’adattamento non basta più, alla società serve un progetto – “La società italiana è mutata e ha attraversato crisi ed emergenze con il continuo intrecciarsi di realtà emerse e sommerse, quotidiane e di lungo periodo. Oggi questo non basta più. L’adattamento continuato non regge più, il nostro complessivo sistema istituzionale deve ripensare se stesso. Siamo di fronte a una società che potrà riprendersi più per progetto che per spontanea evoluzione”.  Anche alla luce dei cambiamenti posti dalla pandemia, ”è il tempo di un cronoprogramma serio”, di “riforme strutturali” e “dell’intervento pubblico” con “scelte coraggiose”.

“La ripresa dello sviluppo è la prima strutturale richiesta che la società esprime in termini di progetto unitario”, evidenzia il Censis: “Basti guardare l’enfasi posta in questi mesi sul superamento delle più favorevoli ipotesi di crescita del Pil, la sopravvalutazione del ciclo di rimbalzo dei consumi interni, la fiducia posta nella capacità dei soggetti e dei fondi pubblici di annientare gli effetti della crisi. Tutti segnali che indicano un’aspirazione collettiva e condivisa di risalita, se non di ricostruzione”.

“La pandemia, rimescolando le carte, ha costretto il Paese a porsi di fronte alle opportunità dell’accelerazione negli investimenti pubblici e privati. È il tempo di un cronoprogramma serio, non importa se dettato dai vincoli europei – indica il Censis – È il tempo delle riforme strutturali e dei grandi eventi internazionali da preparare e ospitare in Italia. È il tempo dell’intervento pubblico, orientato da scelte coraggiose”.

“Alla parola ‘crisi’ preferiamo la parola ‘transizione’, proprio a significare che il momento più grave è ormai alle spalle, che ci siamo rimessi in cammino. Intorno a ciascun progetto di transizione (green, digitale, demografica, occupazionale) si accumulano tanti sprazzi di vitalità, tanta voglia di partecipazione, tante energie positive”, scrive il Censis, che puntualizza: “Un livello opportuno di coscienza collettiva è un ingrediente necessario alla ripresa economica e sociale, e per garantire una presenza maggiore e più efficace dell’azione pubblica. Parlare con parole nuove e affrontare con serietà le fragilità del nostro tessuto sociale è quello che serve nell’attuale dialettica socio-politica. Nell’orizzonte della ripresa si nota un’inquietudine politica, timida e incerta. Ben vengano paura e incertezza del futuro, se aiuteranno nuovi modi di pensare e costruire società e istituzioni, di riconnettere tra loro tecnica e politica, vita sociale e attività statale. Solo che il sistema politico – osserva il Censis – non si annidi in un acquietamento di pensiero, maschera di ogni poco curata transizione”.

Effetti della pandemia sugli studenti, depressione e disagi –  Sui giovani studenti “dal punto di vista psicologico, il prolungato periodo di pandemia ha provocato effetti collaterali non indifferenti”. Il Censis spiega che “l′81,0% dei 572 dirigenti scolastici di scuola secondaria di secondo grado intervistati segnala che tra gli studenti sono sempre più diffuse forme di depressione e disagio esistenziale”. Nel rapporto si evidenzia poi che “l’ultima rilevazione Invalsi ha evidenziato un peggioramento delle performance degli studenti italiani rispetto al 2019, ma sarebbe ingeneroso individuare la sola causa nella didattica a distanza”.

Il contraltare di questo scenario in cui crescono depressioni e disagi è l’affermazione dell’esigenza di relazionalità e di prossimità correlata alla rivalutazione dell’andare a scuola (89,6%). evidenzia il Censis. Il 76,8% dei dirigenti sottolinea che gli studenti vivono in una fase di sospensione, senza disporre di prospettive chiare per i loro progetti di vita. Per il 79,1% nella società è diffusa una immagine dei giovani troppo negativa, che non corrisponde alla realtà. Più che apatici, indifferenti a qualunque sollecitazione (opinione del 46,3% dei dirigenti), essi sono sottoposti a continui stimoli e informazioni, di cui non riescono a operare una selezione (78,3%). Dopo quasi due anni di pandemia, le certezze rispetto al proprio futuro hanno subito un duro colpo e per il 46,6% dei dirigenti scolastici l’atteggiamento prevalente tra i propri studenti è il disorientamento.

A proposito delle cause del peggioramento delle performance degli studenti, il Censis evidenzia che il 75,6% degli oltre 1.700 dirigenti scolastici consultati è molto (29,6%) o abbastanza (46,0%) d’accordo sul fatto che la Dad “abbia solo accentuato le difficoltà della scuola nel contrastare gli effetti negativi di bassi status socio-economici e culturali dello studente”. È molto diffusa l’opinione che il peggioramento delle performance sia conseguente a un uso della Dad basato sulla mera trasposizione online della tradizionale lezione frontale, senza una reale innovazione didattica (il 65,4% è molto o abbastanza d’accordo), mentre il 62,0% lamenta un più generale deterioramento delle competenze, solo acuito dalla necessità di fare ricorso alla Dad. Una percentuale di presidi analoga (65,3%) rimarca che con la Dad non si è riusciti a instaurare una valida relazione educativa, mentre il 59,5% imputa una responsabilità non all’uso della Dad in sé, ma al suo utilizzo in un periodo come quello pandemico, con tutto il suo portato di disagio per studenti e docenti.

Inflazione tra rischi che congiurano contro la ripresa – “Ci sono fattori di freno che congiurano contro la ripresa economica. Tutti i rischi di natura socio-economica che avevamo paventato durante la pandemia (il crollo dei consumi, la chiusura delle imprese, i fallimenti, i licenziamenti, la povertà diffusa) vengono oggi rimpiazzati dalla paura di non essere in grado di alimentare la ripresa, di inciampare in vecchi ostacoli mai rimossi o in altri che si parano innanzi all’improvviso, tanto più insidiosi quanto più la nostra rincorsa si dimostrerà veloce. A cominciare dal rischio di una fiammata inflazionistica”. A ottobre 2021 – si ricorda – il rialzo dei prezzi alla produzione nell’industria è stato consistente: +20,4% su base annua. Si registra un +80,5% per l’energia, +13,3% per la chimica, +10,1% per la manifattura nel complesso, +4,5% per le costruzioni. Il Censis evidenzia poi “il forte recupero dei consumi delle famiglie (+14,4% tra il secondo trimestre del 2020 e il secondo del 2021)”, che ”è figlio dell’allentamento delle misure di contenimento del contagio”. “Si prevede una crescita dei consumi del 5,2% su base annua, inferiore alla crescita del Pil e inadeguata a ricollocare il Paese sui livelli di spesa delle famiglie del 2019”, evidenzia il Censis. “In Italia il tasso medio annuo di crescita reale dei consumi – si precisa – si è progressivamente ridotto nel tempo, passando dal +3,9% degli anni ’70 al +2,5% degli anni ’80, al +1,7% degli anni ’90. Nel primo decennio del nuovo millennio si è attestato su un +0,2% e poi l’anno della pandemia ha trascinato in negativo la media decennale: -1,2%”.

Ancora nascite in calo, soprattutto dove è circolato più virus – “Il numero di nati sta pericolosamente scendendo anno dopo anno sotto la soglia dei 400.000. La contrazione registrata dal 2015 è a doppia cifra per tutte le regioni, a eccezione del Trentino Alto Adige. Tra il 2019 e il 2020 e il trend è continuato. A livello nazionale sono il 3,9% in meno i nati, arrivando a toccare il -4,6% nelle regioni del Nord-Est, tra le più colpite dalla prima ondata della pandemia”. I Censis evidenzia come “a diminuire di più siano le nascite nei territori in cui la circolazione del virus è stata più forte: Lombardia -5,5%, Toscana -4,8%. Ma anche i territori più periferici e le regioni più piccole, come Molise (-11,2%), Valle d’Aosta (-7,8%), Sardegna (-6,9%), Umbria (-5,9%) e Basilicata (-5,0%)”. “Le ultime previsioni demografiche restituiscono un quadro a tinte fosche. Entro il 2050 in tutta Italia la quota degli ultrasessantacinquenni salirà fino al 34%. Si avrà un aumento ancora più significativo nel Mezzogiorno, che passerà dal 26,4% del 2030 al 35% del 2050, diventando così l’area più senilizzata del Paese”, aggiunge ancora il Censis. In particolare, rileva il rapporto, “il 55,3% degli italiani imputa la principale causa dell’inverno demografico alla difficoltà di trovare una occupazione stabile, mentre il 38,4% sottolinea che le giovani donne che fanno figli sono penalizzate nella carriera professionale”. Se la pandemia è stata un “grande processo di sospensione”, con molte famiglie (6,5 milioni) che dal marzo 2020 avevano maturato un progetto di cambiamento e sono state costrette a procrastinarlo, rimodularlo o annullarlo, per poter tornare alla normalità serve ancora tempo. “Con riferimento alla scuola e all’università, più di due terzi degli italiani (il 67,2%) ritengono che ci vorrà meno di un anno per tornare alle lezioni in presenza – evidenzia il Censis -. La maggior parte dei cittadini (il 56,3%) pensa che in meno di un anno ci si sposterà senza nessuna restrizione e verrà archiviato l’uso delle mascherine e il distanziamento interpersonale. In ambito lavorativo, invece, per il 41,8% della popolazione occorrerà più di un anno per tornare alla normalità e una quota pari al 17,1% è convinta che non si tornerà mai alla situazione pre-pandemia”.

La spesa energia pesa,18% budget per famiglie più povere – “Le spese per l’energia in famiglie in difficoltà economica o con situazioni abitative non adeguate possono arrivare a incidere in maniera significativa sul budget familiare”. Il Censis spiega come nel 2018 le famiglie italiane che si trovano al di sotto della soglia di povertà impiegavano mediamente il 17,8% del proprio reddito per il pagamento delle bollette e delle altre spese di casa. Questa quota scende a meno della metà (8,1%) per le famiglie al di sopra della soglia di povertà”. “All’aumentare del reddito, diminuisce significativamente il peso della casa sul reddito familiare – spiega il Censis – e sono proprio i nuclei con maggiori fragilità a subire il contraccolpo peggiore di un aumento dei prezzi dell’energia”.

Virologi in tv? Promossi solo da metà degli italiani –  Le opinioni sulla presenza sulla ribalta mediatica degli esperti nei vari campi della medicina è positivo per oltre la metà degli italiani (54,2%): perché sono stati indispensabili per avere indicazioni sui comportamenti corretti da adottare (15,5%) o perché sono stati utili per comprendere quello che accadeva (38,7%). I giudizi sono invece negativi per il 45,8%, in quanto virologi ed epidemiologi sono stati inutili e hanno creato confusione e disorientamento (34,4%) o sono stati addirittura dannosi, perché hanno provocato allarme (11,4%).

Cresce l’uso della tv specie sul web, boom per i social – Nel 2021 la fruizione della televisione ha conosciuto un incremento rilevante dovuto alla crescita sia degli usi tradizionali, sia degli impieghi più innovativi. Aumentano sia i telespettatori della tv tradizionale (il digitale terrestre: +0,5% rispetto al 2019) e della tv satellitare (+0,5%), sia quelli della tv via internet (web tv e smart tv salgono al 41,9% di utenza: +7,4% nel biennio) e della mobile tv, passata dall′1,0% di spettatori nel 2007 a un terzo degli italiani oggi (33,4%), con un aumento del 5,2% solo negli ultimi due anni.

All’interno dei processi di ibridazione del sistema dei media, anche la radio continua a rivelarsi all’avanguardia. Complessivamente nel 2021 i radioascoltatori sono il 79,6% degli italiani, stabili da un anno all’altro. Sembra essersi arrestata l’emorragia di lettori di libri: nel 2021 sono il 43,6% degli italiani, con un aumento dell′1,7% rispetto al 2019 (sebbene nel 2007 chi aveva letto almeno un libro nel corso dell’anno era il 59,4% della popolazione). Al contrario, si accentua la crisi ormai storica dei media a stampa, a cominciare dai quotidiani venduti in edicola, che nel 2007 erano letti dal 67,0% degli italiani, ridotti al 29,1% nel 2021 (-8,2% rispetto al 2019). Lo stesso vale per i settimanali (-6,5% nel biennio) e i mensili (-7,8%). Si registra ancora un aumento dell’impiego di internet da parte degli italiani: l’utenza ha raggiunto quota 83,5%, con una differenza positiva di 4,2 punti percentuali rispetto al 2019.

L’impiego degli smartphone sale all′83,3% (+7,6%) e lievitano complessivamente al 76,6% gli utenti dei social network (+6,7%). Anche durante i giorni dell’emergenza sanitaria, i telegiornali hanno mantenuto la posizione di vertice tra le fonti informative per il 60,1% degli italiani. Sono un riferimento indiscusso per i 65-80enni (73,2%), ma anche per il 42,3% dei 14-29enni. Al secondo posto c’è Facebook, utilizzato dal 30,1% degli italiani negli ultimi 7 giorni a scopi informativi.

Divario stipendi: donne 18% in meno, uomini 12% in più – Il lavoro dipendente è ancora caratterizzato da divari retributivi. Prendendo in esame le retribuzioni degli oltre 15 milioni di lavoratori pubblici presenti negli archivi Inps, evidenzia un dato medio complessivo riferito alla giornata retribuita si attesta a 93 euro. Una donna percepisce una retribuzione inferiore di 28 euro se confrontata con quella di un uomo. La retribuzione per una donna è inferiore del 18% rispetto alla media, mentre quella di un uomo è del 12% superiore. In base all’età dei lavoratori emerge una differenza di 45 euro tra un under 30 anni e un over 54. La penalizzazione dei giovani è di 30 punti percentuali rispetto alla media e di 48 punti rispetto ai lavoratori con più di 54 anni. Ampia è anche la distanza tra la paga giornaliera di chi ha un contratto a tempo indeterminato rispetto al tempo determinato e fra full time e part time.

La giornata lavorativa del tempo indeterminato vale 97 euro contro i 65 del lavoro a termine, la retribuzione giornaliera del tempo pieno vale più di due volte quella del tempo parziale. Più in generale, evidenzia il Censis, “bassi tassi di occupazione, alti tassi di disoccupazione (soprattutto dei giovani) e ampie sacche di inattività (soprattutto femminile) sono le caratteristiche di un mercato del lavoro sempre più sclerotizzato”. Per il 30,2% degli italiani al primo posto tra i fattori che frenano l’inserimento professionale ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro (Stato compreso) offrono in cambio della prestazione lavorativa anche nei confronti di chi dispone di competenze e capacità adeguate. Al secondo posto, per il 29,9% c’è la persistenza di condizioni inadeguate per avviare un’attività in proprio, a partire dal peso dei troppi adempimenti burocratici, fino al carico fiscale che grava sull’attività d’impresa.

Con il Covid giù il tasso di attività donne: Italia ultima in Ue – “A giugno 2021, nonostante il rimbalzo dell’economia del primo semestre, le donne occupate hanno continuato a diminuire: sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, nel 2019 erano 9.869.000. Durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età lavorativa disponibili a lavorare) a metà anno è al 54,6%, si è ridotto di circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontanissimo da quello degli uomini, pari al 72,9%”. Il Censis evidenzia che da questo punto di vista l’Italia si colloca all’ultimo posto tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso di attività femminile è pari all′80,3%, e siamo distanti anche da Grecia e Romania, che con il 59,3% ci precedono immediatamente nella graduatoria.

“La pandemia ha comportato un surplus inedito di difficoltà rispetto a quelle abituali per le donne che si sono trovate a dover gestire in casa il doppio carico figli-lavoro”, spiega il Censis: il 52,9% delle donne occupate dichiara che durante l’emergenza sanitaria si è dovuto sobbarcare un carico aggiuntivo di stress, fatica e impegno nel lavoro e nella vita familiare, per il 39,1% la situazione è rimasta la stessa del periodo pre-Covid e solo per l′8,1% è migliorata. Tra gli occupati uomini, invece, nel 39,3% dei casi stress e fatica sono peggiorati, nel 44,9% sono rimasti gli stessi e nel 15,9% sono migliorati”. Guardando poi ai giovani, un’indagine del Censis evidenzia che come sia molto forte la percezione che i gangli del potere decisionale siano in mano alle fasce anziane della popolazione. Il 74,1% dei giovani di 18-34 anni ritiene che ci siano troppi anziani a occupare posizioni di potere nell’economia, nella società e nei media, enfatizzando una opinione comunque ampiamente condivisa da tutta la popolazione (65,8%). Il 54,3% dei 18-34enni (a fronte del 32,8% della popolazione complessiva) ritiene che si spendano troppe risorse pubbliche per gli anziani, anziché per i giovani.

La precarietà lavorativa sperimentata nei percorsi di vita individuali influenza il clima di fiducia verso lo Stato e le istituzioni. Il 58% della popolazione italiana tende a non fidarsi del governo, ma tra i giovani adulti la percentuale sale al 66%. I Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, costituiscono una eclatante fragilità sociale del nostro Paese. Tra tutti gli Stati europei, l’Italia presenta il dato più elevato, che negli anni continua a aumentare. Nel 2020 erano 2,7 milioni, pari al 29,3% del totale della classe di età 20-34 anni: +5,1% rispetto all’anno precedente. Nel Mezzogiorno sono il 42,5%, quasi il doppio dei coetanei che vivono nelle regioni del Centro (24,9%) o nel Nord (19,9%).

Per gli italiani la Pa digitale è irrinunciabile – Basta con le file e le richieste su
carta stampata, largo a servizi e app che permettano di ottenere certificati e documenti con un clic: è il desiderio del 38,1% degli italiani. Anche dopo la pandemia, la Pa digitale è considerata irrinunciabile. Seguono l’e-commerce (29,9%), il conto corrente online (24,3%) e l’home delivery (24,2%) come opportunità delle quali cui non si potrà più fare a meno. E’ quanto emerge dal Rapporto Censis sullo situazione sociale del Paese. Per il 20,2% è lo smart working a essere intoccabile (e il dato sale al 28,6% tra i 30-44enni). Quasi la metà della popolazione (il 48,7%) ha già attivato l’identità digitale Spid, ma i divari sociali e territoriali pesano ancora molto. Le percentuali più elevate di utenti si registrano nelle grandi aree metropolitane (59,5%) e tra le persone dotate di titoli di studio più alti (tra i diplomati e i laureati si sale al 61,6%). Invece i picchi più bassi di utenti Spid si riscontrano al Sud (40,2%) e tra gli anziani (32,1%).

Boom di richieste d’aiuto dalle donne, la casa è sempre più fortezza – “Nell’anno del Covid-19 le donne chiuse in casa hanno avuto più paura, tanto che sono cresciute in maniera esponenziale le richieste di aiuto: nel 2020 si sono registrate 31.688 chiamate al numero verde 1522 (+48,8% rispetto al 2019). Di queste, 11.653 erano vittime di violenza e 1.342 di stalking. Il trend non sembra diminuire nel 2021: nei primi tre mesi dell’anno le chiamate sono state 7.974 (+38,8% rispetto al primo trimestre 2020)”.

“Le donne raccontano di non sentirsi sicure anche fuori casa: il 75,8% ha paura di camminare per strada e prendere i mezzi pubblici la sera (per gli uomini la percentuale si riduce al 41,6%) e l′83,8% teme i luoghi affollati (la percentuale si ferma al 66,4% tra gli uomini)”, evidenzia il Censis. Ma nella società cresce anche la paura del web: “dal primo agosto 2020 al 31 luglio 2021 in Italia sono stati denunciati complessivamente 1.875.038 reati, in diminuzione del 7,1% rispetto allo stesso periodo del 2020. Nello stesso periodo i reati informatici sono stati 202.183, il 10,8% del totale, e hanno registrato un incremento del 27,3%. Gli italiani sono consapevoli che il web nasconde pericoli da cui bisogna tutelarsi”.

Sempre restando sul capitolo sicurezza, le case si sono trasformate da rifugio a fortezza: “quasi 9 milioni di italiani, il 17,4% della popolazione adulta, hanno paura di stare da soli in casa di notte. Due terzi di questi, 6 milioni, sono donne.
Non stupisce che il 90,9% degli italiani abbia almeno un sistema di sicurezza a difesa della propria abitazione. Il più diffuso è la porta blindata (65,7%), il 56,5% non tiene in casa oggetti di valore, il 37,0% ha installato un sistema di allarme, il 32,8% protegge gli accessi dalle porte o dalle finestre con le inferriate e il 30,3% ha installato una telecamera. Inoltre, il 9,6% degli italiani adulti, 4,8 milioni, dichiara di possedere un’arma da fuoco”.

Per 8 su 10 la formazione non è garanzia di lavoro stabile – C’è in Italia “un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che coinvolge anche un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire persone con livelli di istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare investimenti nel capitale umano”. Il Rapporto del Censis evidenzia che l′83,8% degli italiani ritiene che l’impegno e i risultati conseguiti negli studi non mettono più al riparo i giovani dal rischio di dover restare disoccupati a lungo e l′80,8% degli italiani (soprattutto i giovani: l′87,4%) non riconoscono una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato. Quasi un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media. Sono 6,5 milioni nella classe di età 15-64 anni, di cui 500.000 non hanno titoli di studio o al massimo hanno conseguito la licenza elementare. Anche tra i poco meno di 5 milioni di occupati di 15-34 anni quasi un milione ha conseguito al massimo la licenza media (il 19,2% del totale), 2.659.000 hanno un diploma (54,2%) e 1.304.000 sono laureati (26,6%). Considerando gli occupati con una età di 15-64 anni, la quota dei diplomati scende al 46,7% e quella dei laureati al 24,0%.

Bonus case, ma a rischio scuole e ospedali maltenuti –  “Uno degli ambiti in cui le misure espansive si sono concretizzate in modo più evidente è l’edilizia privata. Al 30 settembre 2021 gli interventi edilizi in corso o conclusi incentivati con il super-bonus 110% sono stati più di 46.000, per un ammontare di investimenti ammessi a detrazione pari a quasi 7,5 miliardi di euro (di cui il 68,2% per lavori conclusi), con un onere per lo Stato di 8,2 miliardi”. Il Censis evidenzia però anche “il rischio che una parte dello stock di abitazioni private sia oggetto di un generoso intervento di riqualificazione energetica (nonché di valorizzazione economica) a carico della collettività, mentre molti asset pubblici (dalle scuole agli ospedali) permangano in uno stato di cattiva manutenzione”. Il boom degli ultimi mesi nell’uso del super bonus, evidenzia il Censis, è legato alla crescita della quota relativa ai condomini, che oggi è pari solo al 13,9% degli interventi (la percentuale era del 7,3% a febbraio), ma rappresenta poco meno della metà dell’ammontare complessivo (il 47,7%), dato che l’importo medio dei lavori nei condomini si attesta intorno ai 560.000 euro, contro i circa 100.000 euro degli interventi su singole unità immobiliari.

Da ritardo politiche attive rischio strozzatura Pnrr – “Il basso impegno nella formazione continua e il ritardo nell’adozione di efficaci politiche attive del lavoro rischiano di rappresentare una strozzatura per il perseguimento degli obiettivi di crescita previsti dal Pnrr”. “Tra il 2012 e il 2020 la partecipazione alla formazione continua delle persone di 25-64 anni è passata dal 6,6% al 7,2%, con un incremento di soli 8 decimi di punto. Nello stesso periodo la media per l’Unione europea è aumentata di un punto, dall′8,2% al 9,2%. Le imprese italiane di minore dimensione accedono poco ai fondi per la formazione finanziata: lo fa solo il 6,2% delle Pmi contro il 64,1% delle aziende che contano più di 1.000 dipendenti”, spiega il rapporto, evidenziando criticità anche sull’altra gamba su cui poggiare la realizzazione degli obiettivi del Pnrr, cioè la possibilità di disporre di un sistema coerente di politiche attive del lavoro: “oggi i centri pubblici per l’impiego in Italia riescono a entrare in contatto soltanto con il 18,7% delle persone in cerca di occupazione.

A livello europeo la percentuale sale al 42,5%, con punte del 63,6% in Germania e del 60,3% in Svezia”. Le attese degli italiani sul futuro del lavoro: rischio precarietà e fiducia nell’attuazione del Pnrr. L’emergenza sanitaria ha avviato un nuovo ciclo dell’occupazione. Il 36,4% degli italiani ritiene che la crisi si sia tradotta in una maggiore precarietà (tra le donne la percentuale sale al 42,3%).
Il secondo effetto è l’esperienza del lavoro da casa e la possibilità di conciliare le esigenze personali con quelle professionali: lo pensa il 30,2% degli italiani (e il 32,4% delle donne). Cresce l’aspettativa nel futuro, soprattutto per il 27,8% della popolazione che considera le risorse europee e il Pnrr elementi in grado di garantire occupazione e sicurezza economica per i lavoratori e le famiglie.
Basse retribuzioni, disoccupazione, disaffezione al lavoro. Bassi tassi di occupazione, alti tassi di disoccupazione (soprattutto dei giovani) e ampie sacche di inattività (soprattutto femminile): sono le caratteristiche di un mercato del lavoro sempre più sclerotizzato. Per il 30,2% degli italiani al primo posto tra i fattori che frenano l’inserimento professionale ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro (Stato compreso) offrono in cambio della prestazione lavorativa anche nei confronti di chi dispone di competenze e capacità adeguate. Al secondo posto, per il 29,9% c’è la persistenza di condizioni inadeguate per avviare un’attività in proprio, a partire dal peso dei troppi adempimenti burocratici, fino al carico fiscale che grava sull’attività d’impresa.

I divari retributivi nel lavoro dipendente. Prendendo in esame le retribuzioni degli oltre 15 milioni di lavoratori pubblici presenti negli archivi Inps, il dato medio complessivo riferito alla giornata retribuita si attesta a 93 euro. Una donna percepisce una retribuzione inferiore di 28 euro se confrontata con quella di un uomo. La retribuzione per una donna è inferiore del 18% rispetto alla media, mentre quella di un uomo è del 12% superiore. In base all’età dei lavoratori emerge una differenza di 45 euro tra un under 30 anni e un over 54. La penalizzazione dei giovani è di 30 punti percentuali rispetto alla media e di 48 punti rispetto ai lavoratori con più di 54 anni. Ampia è anche la distanza tra la paga giornaliera di chi ha un contratto a tempo indeterminato rispetto al tempo determinato e fra full time e part time. La giornata lavorativa del tempo indeterminato vale 97 euro contro i 65 del lavoro a termine, la retribuzione giornaliera del tempo pieno vale più di due volte quella del tempo parziale.
L’utilità sociale delle libere professioni. Dal 2008 al 2020 il lavoro indipendente in Italia si è ridotto di 719.000 unità, passando da quasi 6 milioni di occupati a poco più di 5 milioni (-12,2%). Nello stesso periodo il lavoro dipendente, nonostante le ripetute crisi, è aumentato di oltre mezzo milione di occupati: +532.000 (+3,1%). Nel periodo considerato le libere professioni sono aumentate (+241.000 occupati: +20,9%). Ma tra il 2019 e il 2020 il saldo finale per i liberi professionisti porta un segno negativo, con una riduzione di 38.000 occupati.
Ma resta intatto il loro appeal. Il 40,0% degli italiani definisce la libera professione un’attività prestigiosa, che fa valere le competenze acquisite e l’impegno dedicato allo studio. Per il 34,1% si tratta di un lavoro utile, importante per la collettività.

Il Covid è business: metà dei sequestri riguarda dispositivi antivirus – “Dei 16.638.268 articoli contraffatti sequestrati nel 2020 dalla Guardia di Finanza e dall’Agenzia delle Dogane, in diminuzione del 39,1% rispetto al 2019, ben 8.327.879 possono essere classificati come dispositivi anticovid”. Il Censis spiega che “si tratta soprattutto di mascherine, guanti monouso, tute e termometri. I dati relativi ai pezzi sequestrati nel 2020 testimoniano la presenza di traffici significativi di dispositivi di protezione, igienizzanti, termometri contraffatti e non sicuri, e la ancora più pericolosa vendita online di falsi medicinali per il Covid-19″. “Se ai dispositivi contraffatti si aggiungono gli oltre 46 milioni di dispositivi medici che sono stati ritirati dal mercato perché ritenuti non sicuri, che rappresentano il 61,2% del totale dei pezzi non sicuri sequestrati nel corso del 2020 – osserva il Censis -, è ancora più evidente quale sia stato il peso del Covid-19 sul mercato dell’illecito”.

Il rapporto evidenzia anche “la resilienza alla pandemia degli imprenditori stranieri”: “Durante la pandemia, in risposta alla mancanza di lavoro dipendente, i migranti hanno continuato a mostrare la loro vitalità. Tra il 2019 e il 2020, a fronte di una riduzione degli imprenditori italiani dell′1%, quelli stranieri sono aumentati dell′1,9%, spiega il Censis, aggiungendo che a fine dicembre 2020 risultano essere 463.048. Di questi, 376.264 provengono da Paesi extracomunitari. L’aumento dei titolari di impresa stranieri, a fronte di una riduzione degli italiani, prosegue anche nel primo semestre del 2021. A fine giugno gli imprenditori stranieri sono 465.352 (+1,8%) e rappresentano il 15,5% del totale”.