l’ambiguità negativa di molti termini che usiamo come neutri

Fiumi di parole

di Sergio Bontempelli e Stefano Galieni

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Ma immigrato è un termine svalutativo? E zingaro? L’etnia è una cosa che tutti hanno o solo qualcuno? E come è cambiata la connotazione di clandestino dalla canzone di Manu Chao? Attorno al fenomeno migratorio si è costruito un lessico che molto spesso carica di ambiguità negativa termini teoricamente neutri. Come immigrato, per esempio, che in certi contesti è assurto a sinonimo di soggetto potenzialmente pericoloso.

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Scegliere di non utilizzare certi termini, e di sostituirli con altri sfidando talvolta la semantica, però non è sempre la strada migliore: le parole sono il veicolo dei nostri pensieri e “truccarle”, anche se con le migliori intenzioni, rischia di portare fuori strada. A seguire, un estratto parziale di questo lessico.

Africano/a. Perduta la componente esotica del termine, si va riaffermando il suo uso coloniale, non solo in Italia. La parola diviene così sinonimo di “primitivo”, di “selvaggio”, di “nero” e, se accompagnata da un prefisso (ad esempio nord-africano) viene associata a piccola criminalità e delinquenza di strada. Dall’Africa, immenso continente di quasi un miliardo di persone e di più di cinquanta Paesi, mai considerato come pluralità di culture e di storia, si astrae un’idea di pericolosità sociale mista ad ignoto. Si immagina un mondo in cui si vive ancora nelle capanne e si balla al ritmo di tamburi.

Clandestini. Negli anni Cinquanta i giornali parlavano di “invasione di clandestini” a Roma. Non erano africani, non venivano coi barconi, e non erano nemmeno albanesi o romeni: lavoratori italianissimi, provenienti dal Meridione, non potevano prendere la residenza nella Capitale perché, secondo una legge approvata in epoca fascista, per avere la residenza serviva un contratto di lavoro regolare. Così, molti restavano a Roma, lavorando magari in nero, senza essere registrati: erano “clandestini”, una definizione che già allora evocava disprezzo. Più tardi, negli Anni Settanta, il termine è stato associato al terrorismo: il militante delle BR viveva “in clandestinità”, ed era per questo pericoloso e sfuggente. Alla fine degli anni Ottanta il vocabolo è entrato nel lessico comune per indicare i migranti irregolari, ma ha ereditato le connotazioni minacciose del passato.

Cultura, multiculturalismo, Intercultura. I migranti che sbarcavano a Ellis Island, negli Stati Uniti, erano classificati a seconda della “razza” di appartenenza. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la parola “razza” è stata screditata perché erede del lessico nazista e antisemita: così, si è cominciato a dire che gli immigrati sarebbero portatori di “culture” diverse, descritte a volte come primitive e animalesche, altre volte come esotiche, affascinanti, misteriose, tribali. Spesso ci si dimentica che ogni persona fa le sue scelte, non è un prodotto meccanico della propria “tradizione”: eppure, quando si parla di migranti, sembra che i gesti, i comportamenti, le mentalità siano dettate esclusivamente dalle “loro culture”, concepite quasi sempre come immodificabili. Da questo punto di vista, la “cultura” è usata spesso come sinonimo eufemistico di “razza”.

Etnia, etnico. Il concetto di “etnia” è un parto degli scienziati razzisti dell’Ottocento, ed poi divenuto un termine comune nel lessico coloniale: gli europei hanno classificato in rigidi compartimenti “etnici” gruppi la cui identità era assai più fluida e meno definita. Emblematico il caso del Ruanda, dove due classi sociali – gli agricoltori “hutu” e gli aristocratici “tutsi” – sono state trasformate in “etnie”, a loro volta concepite secondo una gerarchia razziale: i tutsi “quasi-bianchi”, gli hutu “più neri”, dunque inferiori. Ancor oggi, il lessico comune tende a etnicizzare i fenomeni sociali, cioè a leggerli in termini di etnie diverse, irriducibili, non comunicanti tra loro. Spesso, quelle che definiamo “etnie” sono identità mobili, fluidi, in perenne mutazione, largamente “meticciate”  e mescolate con le culture maggioritarie.

Immigrato, migrante. La mobilità umana è sempre esistita: già la Bibbia, nel libro dell’Esodo, ci parla di una grande migrazione dall’Egitto. Eppure, parole come “immigrato” e “migrante” sono relativamente recenti: secondo storici come Gerard Noiriel e Donna Gabaccia, è solo alla fine dell’Ottocento che entrano prima nel lessico giuridico, poi in quello comune. Perché? La risposta, forse, va cercata nei testi normativi dell’epoca: per esempio, l’Aliens Act inglese del 1905 (la legge che introduce per la prima volta i controlli di frontiera) definisce immigrato come “colui che viaggia in terza classe”, cioè come lo straniero povero, che si sposta in cerca di lavoro. Ancora oggi, quando si parla di “immigrati”, si allude alla povertà: quando un non-povero lascia il proprio paese, si preferisce definirlo “expat” (espatriato), o magari “cervello in fuga”.

Invasione. Lasciato in soffitta il suo utilizzo nel linguaggio militaresco, oggi sembra riguardare più quello domestico (invasi dalle formiche o dai parassiti) ma lo si adatta alle persone. Poco conta che nella realtà in un Paese di 60 milioni di abitanti siano giunte nello scorso anno 170 mila persone, in gran parte già fuggite verso altri lidi. Poco importa che il fenomeno incida per meno dello 0,2% rispetto alla popolazione: questo 0,2% è potenzialmente riconosciuto come in grado di tramutare l’Italia in un emirato, diffondere epidemie, o deformare totalmente una preesistente identità comune. La stessa fobia che si ha appunto con le formiche: chi invoca i cannoni verso i barconi spesso ha come retropensiero l’insetticida.

Rifugiato. Così come le migrazioni, anche l’esilio e la fuga esuli esistono dalla notte dei tempi. Eppure, parole come “rifugiato” o “richiedente asilo” sono invenzioni recenti: nascono con la chiusura delle frontiere, agli inizi del XX secolo. Gli Stati europei cominciano allora a sorvegliare i confini, a chiedere visti di ingresso, a respingere i migranti “indesiderabili”: ma si accorgono che tra le persone respinte vi sono anche i perseguitati politici e coloro che fuggono da guerre e violenze. Nasce così l’esigenza di distinguere gli immigrati “economici” (da allontanare, o comunque da controllare) e i “rifugiati” (da accogliere). È una distinzione, però, che serve agli Stati per tenere ben chiuse le frontiere: gli uomini e le donne abbandonano i propri paesi per motivi complessi, che possono includere sia ragioni economiche sia necessità di protezione.

Sicurezza/degrado Bei tempi quelli in cui col primo termine si indicava la necessità di aver garantite condizioni decenti di lavoro, di welfare, una prospettiva di vita futura. E bei tempi quelli in cui ad essere in degrado era un edificio malmesso e ad essere degradati erano ufficiali felloni. Da quasi 20 anni questi termini sono utilizzati, anche se non soprattutto, in ambienti progressisti per indicare realtà di marginalizzazione, vera o presunta, da cui difendersi: e, manco a dirlo, la “marginalità” è regolarmente associata alle migrazioni. Degrado e sicurezza diventano sinonimi di “allarme”, e si contribuisce a creare una percezione fondata sulla paura. Nel corso degli anni sono nati assessorati alla sicurezza, e hanno svolto un ruolo maggiore, anche politico, i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza (esautorando in parte le istituzioni elette). “Garantire la sicurezza combattendo il degrado” è divenuto slogan imprescindibile per qualsiasi amministratore.

Tratta/trafficanti. Un tempo la tratta era quella delle persone che venivano prese, comprate nei paesi di provenienza, per farne braccia da lavoro forzato: si pensi al mercato atlantico degli schiavi gestito dalle potenze europee. I “trafficanti” di allora venivano chiamati mercanti. Oggi centinaia di migliaia di persone arrivano nei paesi UE per propria volontà, per migliorare le proprie condizioni di vita: i “trafficanti” non sono più mercanti ma diventano “scafisti”, “criminali”, “sfruttatori di merce umana”. La loro esistenza viene spacciata come causa delle migrazioni, quando è invece un effetto della chiusura delle frontiere (non potendo entrare legalmente in Europa, ci si rivolge a chi organizza ingressi irregolari). Nel frattempo, nessuno si preoccupa delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti nelle campagne: nella retorica comune, è “schiavista” chi organizza il viaggio, non chi usa il lavoro forzato altrui…

Zingaro/i Non sono mai piaciuti a nessuno, inutile dirlo, per molteplici ragioni e pregiudizi. Ma per tanto tempo, il termine era associato ad una idea romantica di libertà, di rapporto con l’arcano, di rottura voluta dei legami e delle convenzioni sociali. L’immagine dello zingaro libero “figlio del vento” era anch’essa uno stereotipo, ma uno stereotipo “positivo”: oggi la parola “zingaro” è invece un insulto, un sinonimo di ladro, profittatore, violento e marginale. Da europarlamentari che li definiscono impunemente “feccia della società” a ordinanze comunali che, ignorando qualsiasi divieto di discriminazione, si riferiscono direttamente ad un indistinto mondo “zingaro” da controllare e perseguire.

Stefano Galieni e Sergio Bontempelli