la risposta alla grande violenza

l’ora della ragione e della mitezza

di Francesco Gesualdi
in “Avvenire” del 18 novembre 2015

Gesualdi

caro direttore,

dalla Francia arrivano dolore e terrore.

Umanissimo dolore e quel terrore che genera rabbia, facile a trasformarsi in odio e vendetta. Quando il sangue che scorre è il tuo, sangue dei tuoi figli e dei tuoi fratelli, vengono fuori gli istinti più atavici. Affiora la voglia di punire, di infliggere una sofferenza più grande di quella subita, per intimorire e indurre l’aggressore a non riprovarci mai più. Peccato che tutti si comportino nella stessa maniera, per cui persino gli insulti più lievi possono trasformarsi in faide e guerre fra famiglie e comunità, costellate di stupri, incendi, assassini. In una spirale senza fine. È la storia dell’umanità, che però non ha mai portato a niente di buono. E che ci insegna in tutti i modi che la violenza genera violenza, e che l’unico modo per uscirne è mettere da parte l’istinto di vendetta facendo trionfare la ragione.

Che significa abbandonare se stessi e ‘trasferirsi nell’altro’ per capire le sue ragioni. Solo presentandoci all’altro disarmati, non per imporre la nostra visione, ma per chiedergli che cosa ha contro di noi, potremo avviare quel dialogo che può mettere a tacere le armi e metterci in condizione di fare capire anche all’altro le nostre ragioni e da lì partire per trovare delle soluzioni comuni. In altre parole la pace si fa accettando che la ragione non sta solo da una parte e che anche noi possiamo aver commesso degli errori per i quali chiedere scusa. Gesù ha detto: «Chi di spada ferisce, di spada perisce» e anche in questa circostanza l’esercizio che dobbiamo fare è chiederci se per caso abbiamo procurato ferite che oggi si ritorcono contro di noi. Chi evita di pararsi dietro a un dito, sa che le vere cause del terrorismo islamico vanno ricercate in quella polveriera che viene chiamata Medio Oriente, ‘abitata’ da realtà religiose e linguistiche che hanno difficoltà a stare ancora insieme perché ciascuna con un senso di sé così intenso da rivendicare totale autonomia. Equilibri difficili, che gli occidentali a più riprese hanno contribuito a incrinare. Come se ne esce? Trovare la soluzione a un’esasperazione costruita lungo decenni di violenze a parti alterne, umiliazioni e scorrerie straniere, è tutt’altro che semplice. Ma l’importante è cominciare a mandare segnali di distensione, smettendo innanzi tutto di inviare bombardieri per assicurarsi un posto al sole, da un punto di vista militare, politico, economico. Sul piano militare, poi, c’è qualcosa che va fatto: tagliare i rifornimenti di armi a tutte le parti in causa, affinché la guerra non possa più continuare per mancanza di strumenti. E poi bisognerà accettare di parlare con tutti, per conoscere le rivendicazioni di ciascuno, il grado di consenso popolare, le vie di attuazione. Non possiamo dire ‘con loro non parliamo perché seminano morte’. In guerra tutti uccidono, e se parlare è l’unico modo per uscirne, bisogna farlo. Questa è l’ora della ragione e della mitezza. Non mi illudo che una simile strada possa portare a soluzioni immediate, ma può contribuire ad arrestare gli attacchi terroristici all’Europa. Se l’Europa dimostrasse di non perseguire progetti imperialistici, ma di lavorare disinteressatamente per aiutare i Paesi mediorientali e nordafricani a ritrovare i propri equilibri, forse sarebbe vista con occhi diversi. Se poi fosse abbastanza intelligente da lavorare sul piano interno per garantire agli immigrati di seconda e terza generazione una situazione di piena inclusione sociale, smetterebbe di allevarsi serpi in seno che magari non vedono l’ora di dare sfogo alla propria frustrazione arruolandosi nelle file dell’islamismo radicale. Ma che fare come cittadini per spingere in questa direzione? Un primo passo è informarci in maniera autonoma per sfuggire al «pensiero unico» imposto da politici e mass media. Pensare con la nostra testa, farci la nostra idea e saperla sostenere anche se controcorrente, è indispensabile per attivare quel senso del dubbio, senza il quale nessun cambiamento può prendere forma