la relazione di Tomáš Halík al C.C.I.T. 2019 a Trogir in Croazia

Evangelizzazione: un incontro reciproco fra pellegrini

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Il filosofo polacco Jósef Tischner1 inizia il suo saggio sulla fede in tempi di crisi con un racconto riguardante il conflitto tra un parroco e un artista, che aveva l’incarico di creare una pala d’altare per la nuova chiesa del santo fratel Albert Chmielowský.

Secondo le idee e le aspettative del parroco, nell’immagine, il santo fratel Alberto avrebbe dovuto tenere una pagnotta sopra le teste dei poveri e distribuire loro delle fette di pane. L’artista invece voleva dipingere il santo chinato davanti a un povero mentre dal povero avrebbe dovuto come trasparire la figura di Cristo.

Agli occhi dell’artista – ed è evidente che Tischner lo comprende e prova simpatia per lui – la rappresentazione del santo che si china verso il povero e gli dona il pane dall’alto e non sta davanti a lui, rivela il trionfalismo della Chiesa. Tischner (nel suo saggio) continua poi con una riflessione sul rapporto tra magistero e fede. Noi invece prendiamo un’altra direzione nell’interpretazione.

Entrambe le concezioni dell’immagine – fratel Albert, il santo, che distribuisce il pane ai poveri o fratel Albert, il santo, che scopre Cristo nei poveri che egli serve e proprio attraverso il servizio che presta – entrambe le concezioni rappresentano in effetti due modi di comprendere la Chiesa e il cristianesimo. Nel primo caso la Chiesa si autocomprende come proprietaria di Cristo, della verità e della fede, e per questo motivo può dare “dall’alto” ciò che già “le appartiene”. Questa modalità sembra essere logica: tu puoi distribuire solo ciò che possiedi, questa tuttavia è la “logica di questo mondo”. La “logica del regno di Dio” così come noi la leggiamo nel vangelo è qualcosa di diverso, è paradossale. Non si tratta solo del fatto che “a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto ciò che ha” ma si tratta di “chi non rinuncia a tutto ciò che ha non entrerà nel Regno di Dio”.

Una alternativa alla concezione della Chiesa come una Chiesa proprietaria, che possiede, è l’ideale di una Chiesa concepita come una “communio viatorum”, una comunità di pellegrini. È un cristianesimo che è un cammino, che deve continuamente riscoprire Cristo. Soprattutto quando i discepoli di Gesù, dopo l’annuncio e l’esempio del loro maestro, si mettono al servizio dei bisognosi, allora essi nei poveri incontrano Cristo. Loro lo scoprono proprio in quel povero, in quel nullatenente. Cristo viene proprio in quel “niente”. Niente, la povertà, il non possedere nulla, il non trattenere nulla – questo ci ricorda Meister Eckhardt – è quella porta attraverso la quale la pienezza viene nel mondo e che non assomiglia a nulla nel mondo.

Nel racconto del vangelo gli apostoli dopo la risurrezione, davanti alla tomba vuota sono stati invitati a ritornare nella loro patria, in Galilea. “Lì lo vedrete”. Oggi noi cristiani nella ricerca del Cristo vivente siamo chiamati a tornare a quelle forme del cristianesimo che spesso ricordano tombe vuote, “sepolcri e monumenti sepolcrali di Dio2”, siamo inviati al mondo dei bisognosi. Lì lo vedrete, lì lo incontrerete. Questa è la Galilea di oggi dove si può vivere il mistero della risurrezione e della vita nuova.

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Cristo, la verità, la fede, accadono (si realizzano) in quell’incontro, in quell’atto del donare, del servire, dell’uscire da se stessi – la Chiesa è nella situazione di colui che riceve solo se dà. In Cristo il donare e il ricevere sono strettamente indivisibili. Non si tratta solo del “tu non hai nulla che non abbia ricevuto” ma, ancora più radicalmente si tratta del “non hai altro che quello che hai donato”. Ricordiamoci dell’affermazione di Cristo a proposito del tesoro nel cielo.

Quando io parlo della “Chiesa possidente (proprietaria)” non penso alla proprietà della Chiesa che è stata spesso oggetto di critica nel corso storia, ovvero alla Chiesa ricca e potente, che possedeva molti beni materiali e che era strettamente legata al potere; tutto ciò per fortuna, in gran parte del mondo, fa parte di un passato che non ritorna. Io penso piuttosto alla ricchezza essenzialmente spirituale della Chiesa: la Chiesa “ha” il Vangelo, i sacramenti, i carismi, la successione apostolica, la dottrina, la conoscenza – essa ha Cristo, ha la verità…

Io non ho per nulla intenzione di negare questa pretesa alla Chiesa, al “Corpo mistico di Cristo”. Tuttavia è necessario chiedere: quale carattere ha questo possedere? E noi cristiani che rapporto abbiamo con questa ricchezza spirituale?

A volte mi viene in mente che noi non ci lasciamo istruire abbastanza dalla parabola dei talenti che sono stati assegnati (cfr Mt 25,14-30). A chi ha sotterrato con ansia tutto ciò che gli era stato dato, che non voleva distribuirlo, che neanche per un momento voleva rinunciare a ciò che gli era stato dato, che non voleva rischiare di perdere il talento, a questa persona fu infine tolta tutta questa sicurezza che aveva protetto con cura e gli fu tolta con umiliazione. Solo coloro che hanno donato, distribuito, quei valori che erano stati loro assegnati, che li hanno “investiti”, rischiando anche di perderli, solo questi hanno agito correttamente.

Non è che spesso la Chiesa assomiglia a quel giovane ricco, il quale si atteneva ai precetti, tuttavia non era in grado di rinunciare alla sua ricchezza, alle sue sicurezze? In molte parti del Vangelo, Gesù afferma che solo colui che ha rinunciato a tutto ciò che ha è libero per diventare un suo discepolo. Forse tutto questo riguarda non solo i beni materiali; anche la nostra ricchezza spirituale può essere una parte di quelle sicurezze alle quali noi dobbiamo rinunciare per essere liberi per un cammino ulteriore, liberi per la fede, liberi per la via del discepolato.

Sì, certamente, noi cristiani da secoli doniamo molto – attraverso l’insegnamento e la predicazione, il lavoro sociale e caritativo e attraverso tutto questo sicuramente diffondiamo il bene – tuttavia non è che spesso lo facciamo un po’ come quel fratello santo Albert nell’immaginazione del parroco, cioè dall’alto? Noi doniamo “del nostro superfluo”. Tuttavia agli occhi di Gesù trova grazia solo una povera vedova che dona prendendo dal poco che ha, dalla sua povertà.

Solo se noi saremo poveri riusciremo veramente a donare, saremo capaci di donare. Solo quando la nostra fede e le sue sicurezze saranno divenute così piccole, e poco appariscenti come un chicco di senape, allora noi riusciremo a portare a compimento i grandi doni di Dio3. La forza di Dio risalta innanzitutto nella debolezza umana; solo quando avremo il coraggio di ammettere le nostre debolezze e anche di accettarle, solo allora riusciremo ad aprire la porta all’azione della potenza di Dio (affinchè si manifesti l’effetto della potenza di Dio). Questo vale anche per le sicurezze teologiche: solo quando, come l’apostolo Paolo, riusciamo ad ammettere che la nostra conoscenza delle cose di Dio è solo parziale, come nei misteri, come in uno specchio, solo quando noi faremo questo la risposta a quei misteri si avvicinerà e lo specchio non sarà più cieco. Solo quando noi diventeremo consapevoli, con tutte le conseguenze, di essere in cammino e non già arrivati al traguardo, allora il nostro cammino non sarà più un girovagare in circolo, in un circolo vizioso, in un circolo diabolico, con un ripetersi senza uscita. Se il chicco di grano non muore non porta frutto.

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Papa Benedetto pronunciò, durante un viaggio nella Repubblica Ceca nel settembre 2009, delle parole meritevoli di attenzione: “Qui mi viene in mente la Parola che Gesù ha citato dal profeta Isaia, ovvero: il tempio di Gerusalemme dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (Is 56,7; Mc 11,17). /…/ Un luogo di preghiera per tutti i popoli, si pensava quindi ad un luogo di preghiera per uomini che conoscono Dio, per così dire, solo da lontano; si pensava a coloro che sono insoddisfatti dei loro dei, miti e riti, a coloro che sanno riconoscere ciò che è puro e ciò che è grandioso, anche se per loro Dio rimane il ‘Dio ignoto’ (At 17,23). Loro dovrebbero poter pregare il Dio sconosciuto e in questa maniera essere messi in contatto con il vero Dio, anche se nel buio. Io penso che la Chiesa dovrebbe costruire questa specie di ‘cortile dei gentili’ ancora oggi. Dovrebbe creare cioè un luogo dove possono sostare, trovare un appiglio (legame) quegli uomini che si rivolgono a Dio anche se non lo conoscono, anche se non hanno ancora trovato l’accesso al mistero, mistero di cui la vita interna della Chiesa è servitrice”.

Queste parole inizialmente mi hanno riempito di entusiasmo e di un sentimento di soddisfazione. È già da molto tempo che io vedo il senso del mio impegno complessivo nella Chiesa proprio in questo, nel creare uno spazio, un luogo per coloro che non si sentono a casa e che soprattutto non si sentono a casa nei banchi della chiesa e nelle definizioni ecclesiastiche e che, tuttavia, ciononostante possono percorrere con noi almeno una parte del cammino. Io sono profondamente convinto che la Chiesa, se non vuole diventare una setta, non deve preoccuparsi solo di coloro che “si identificano completamente con lei” ma dovrebbe anche fare spazio a coloro che non condividono completamente con lei il loro credo, la loro fede; fare spazio a coloro che cercano, a coloro che difendono in maniera gelosa “il proprio Dio” e che tengono le distanze dalla Chiesa, dalla prassi odierna e dalla “religione organizzata”. L’idea che la Chiesa ha bisogno di un certo contatto con le persone che credono a un “Dio ignoto” o con coloro che si orientano vagamente (confusamente) a “un qualche cosa” che “ci trascende”, questa idea è estremamente importante per il futuro della Chiesa e in un certo modo anche per il futuro di tutta la nostra civiltà.

Tuttavia dopo un certo tempo sono stato preso dal dubbio riguardo a quella metafora di Joseph Ratzinger. Non è che dietro questa metafora del “cortile dei gentili” si nasconde una certa concezione trionfalistica della Chiesa, simile a quella che Tischner e l’artista polacco sentivano che c’era dietro al progetto del parroco di fare un’immagine del santo fratello Albert che distribuiva il pane “dall’alto”? Non è che dietro a questa comparazione, sia pure in senso buono, della Chiesa con il tempio di Gerusalemme si nasconde qualcosa di molto pericoloso?

La Chiesa deve veramente assomigliare a quella costruzione altamente ambiziosa “dentro” la quale ha luogo l’azione sacra, a un grande santuario accuratamente sorvegliato, che è fisicamente diviso: riservato ai sacerdoti, anzitutto, poi agli uomini del popolo eletto, dopo ancora alle donne e alla fine ai “non circoncisi”? Non era proprio questo tipo di religione, rappresentata attraverso il tempio, oggetto della continua critica dei profeti e soprattutto di Gesù stesso? Non è stato proprio Gesù a dire, di quel tempio che fa gioire gli occhi dei devoti, che non rimarrà pietra su pietra (anche se proprio per queste dure parole egli pagò con la condanna a morte davanti al sinedrio)? E questa profezia di Gesù non si è già compiuta da molto tempo? Non ha già la “magnificenza di Dio” abbandonato il tempio? E non hanno proprio mostrato già Gesù, Paolo e l’autore della lettera agli Ebrei che non dobbiamo cercare più Dio nel tempio perché egli è definitivamente uscito dal tempio – e andato certamente molto oltre il cortile dei gentili? Non sottolinea il Vangelo che con la morte di Gesù “il velo del tempio si squarciò in due”?

La Chiesa, oggi, è in una situazione in cui si può permettere di aprire “il cortile dei gentili” o è piuttosto in una situazione in cui dovrebbe recarsi in maniera umile nei “cortili dei gentili” per tentare di rivolgere la parola ai “gentili/pagani” nella loro lingua, usando il loro linguaggio, come fece ad esempio Paolo nell’Areopago?

Non è solo il tempio di Gerusalemme a trovarsi oggi in rovina – così come aveva previsto la profezia di Gesù – bensì anche l’edificio del tempio del cristianesimo. Quella “civiltà cristiana” che brillava di oro ed era ben fortificata, in maniera tale che risvegliava una particolare ammirazione, giace oggi in rovina. D’altra parte negli odierni cortile dei gentili i banchetti dei venditori e dei commercianti sono assediati in maniera animata e vivace come nei tempi passati; c’è una grande quantità di “merce religiosa” disponibile rapidamente e a buon mercato. La domanda è grande e l’offerta svariata.

Non siamo oggi nella situazione che di quel “tempio” sublime, forma della religione cristiana, rimane solamente il “muro del pianto”?

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A mio parere, il secondo elemento rischioso di quella metafora del papa, è il mettere a confronto colui che è alla ricerca di religioso oggi, colui che adora “il dio sconosciuto”, con il pagano devoto del tempo di Gesù. Chi sono coloro per i quali oggi la chiesa dovrebbe aprire il “cortile dei gentili”?

Sono coloro che oggi venerano un “dio sconosciuto” i pagani devoti, come ai tempi in cui il tempio di Gerusalemme esisteva ancora e Paolo predicava ad Atene? O sono piuttosto gli ex cristiani e i “post-cristiani” (quindi i figli e i nati successivamente rispetto alla “cultura cristiana”) che la Chiesa di oggi non solo dovrebbe convincere di ciò di cui (anche se senza successo e in maniera vana) Paolo ha tentato di convincere i suoi ascoltatori nell’areopago? Ovvero convincerli che il “dio sconosciuto” che loro cercano e professano, a noi è ben conosciuto in Cristo, rivelatosi in tutta la sua pienezza sulla croce e nella risurrezione di Gesù di Nazaret e che loro possono incontrare ancora oggi nella Chiesa?

Il cristianesimo di oggi ha quei simpatizzanti come li aveva l’ebraismo ai tempi di Gesù? Chi sono, come bisogna chiamarli, come bisogna capirli, come bisogna comunicare con loro?

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Se noi vogliamo veramente rivolgerci a coloro che sono in ricerca, dovremmo evidentemente farlo non come coloro che in maniera generosa aprono “il cortile dei gentili” (perché loro stessi hanno il diritto di cittadinanza all’interno del santuario), non dovremmo farlo come coloro che davanti a loro si chinano (dall’alto in basso) come faceva il santo fratello Albert nella versione del parroco. Se vogliamo veramente incontrare coloro che sono effettivamente in ricerca in maniera credibile allora questo incontro deve essere un incontro reciproco tra pellegrini – non un incontro fra coloro che posseggono e coloro che stanno morendo di fame, fra coloro che sanno e coloro che cercano, fra coloro che sono già arrivati al traguardo e coloro che stanno ancora girovagando. Se noi consideriamo gli altri “fratelli separati”, riveliamo spesso di essere inconsapevolmente nel ruolo del vecchio fratello coraggioso e virtuoso – quindi in quel ruolo nei confronti del quale Gesù ci mette in guardia nella parabola del figliol prodigo (cfr. Lc 15,11-32).

Dei molti simboli e metafore bibliche la Chiesa, quando si definì nell’ultimo Concilio, ha messo in evidenza soprattutto l’immagine veterotestamentaria del “popolo di Dio in cammino”. Tuttavia i cristiani di oggi non sono solo una “comunità di pellegrini”. I cambiamenti incisivi del mondo di oggi relativizzano tutti i confini e costringono una grande quantità di persone da diverse parti della terra e con diverse visioni del mondo, a lasciare la loro casa e a varcare i confini delle loro tradizioni. La necessità di andare d’accordo e di evitare i conflitti noi l’abbiamo collegata fin dai tempi dell’illuminismo con la parola tolleranza; oggi dovremmo forse parlare di una “solidarietà tra pellegrini”.

Io suppongo che questa nostra solidarietà di cristiani possa implicare il fatto che noi rinunciamo al monopolio della conoscenza di Cristo – nel senso che rinunciamo a quella sicurezza a priori data dalla convinzione che noi abbiamo già conosciuto Cristo pienamente, che noi lo possediamo e per questo lo possiamo offrire agli altri. Dio è un mistero insondabile, inesauribile. La fede, la convinzione della Chiesa che Gesù Cristo è Dio, è “di essenza divina”, che è “uno con il Padre” e così via, mi porta ad essere persuaso che io non ho “a mia disposizione” Cristo in ogni momento della mia vita, cosa che mi porterebbe a pensare che non mi rimanga altro da scoprire ancora su di lui, che lui non sia più per me un mistero inesauribile, un invito a un nuovo incontro ed a una scoperta infinita.

Forse “il cortile dei gentili” può essere anche per noi il luogo dove possiamo scoprire Cristo in maniera più profonda e incontrarlo – e proprio negli altri. E questa via ci può portare ancora più avanti, al di là del “cortile dei gentili” che è circoscritto al tempio. Forse questa via ci porta dai veli squarciati del tempio e dalle tenebre del venerdì santo, verso Emmaus, dove ci cadono le bende dagli occhi e dove solo quando noi “spezziamo il pane” con gli altri si crea la situazione in cui “Cristo av-viene” (cioè si fa esperibile in mezzo a coloro che credono), la situazione in cui noi possiamo fare esperienza di lui, sia gli uni che gli altri (cfr. Lc 24,13-35). Sulla via verso Emmaus, Cristo compare nella forma di un “pellegrino sconosciuto”.

Scoprire Cristo negli altri – questa esortazione non riguarda solo i poveri che aspettano il nostro pane. Secondo il Vangelo di Matteo, Cristo nell’ultima cena svela la sua presenza incognita con queste parole: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e senzatetto e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito; malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36). Cosa può significare l’esortazione, l’invito ad accogliere quelli che sono stranieri e senzatetto?

Forse ciò significa anche che l’altro, sia esso di “altra confessione”, sia un “pagano” o un “ateo”, per me non è un oggetto della mia missione al quale io posso dare Cristo e la fede come qualcosa che – a differenza di lui – “posseggo” già. Forse Cristo viene verso di me anche in colui che percorre altre vie rispetto alle mie, colui che per me è un “pellegrino straniero e sconosciuto”.

Per molti secoli i cristiani hanno ritenuto che ci fosse un’unica conversazione sensata e veramente auspicabile con un “pagano”: una conversazione che portava alla sua conversione, che lo conduceva alla soglia della Chiesa e che culminava nel dialogo di ammissione al percorso del catecumenato:

Cosa chiedi alla Chiesa di Dio?”.

La conoscenza di Cristo”.

E perché vuoi conoscere Cristo?”

Per diventare suo discepolo”.

Immaginiamoci per un momento uno scambio di ruoli: Ora sono gli altri, i “pagani”, a chiedere ai cristiani: Cosa volete da noi? E sono i cristiani che questa volta rispondono loro: “La conoscenza di Cristo”. “E perché volete conoscere Cristo?”. “Per diventare suoi discepoli”.

Senza dubbio la Chiesa è chiamata a predicare, a battezzare, a distribuire i sacramenti, a donare ciò che essa ha già ricevuto da Cristo. Contemporaneamente è tuttavia anche chiamata a cercare sempre Cristo, a cercarlo nell’altro, a incontrarlo come un pellegrino sconosciuto, a stupirsi della sua grandezza incessante e indicibile e della sua ricchezza inesauribile; questa ricchezza si cela in tante maniere così nascoste – noi dobbiamo continuamente diventare suoi discepoli.

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Nel corso della storia, i cristiani hanno imparato a tenere le distanze dalle concezioni di Dio che sono umane, troppo umane; non è giunto il tempo di mettere in dubbio le concezioni e le immagini tramandate che i cristiani si fanno degli altri, di “coloro che credono in altro”?

Il Dio di cui narra la Bibbia trascende radicalmente le nostre concezioni e i nostri giudizi e amplia l’orizzonte del possibile al di là dei confini: “A Dio niente è impossibile”. Il giudizio universale, il giudizio di Dio, così come lo descrive Cristo, sarà il momento di una grande sorpresa. Solo allora Cristo ci mostrerà le molte forme in cui ci ha incontrati nell’altro, nello straniero. Saranno redenti coloro che gli sono venuti incontro anche se non lo hanno riconosciuto. Forse è proprio questo andare incontro allo straniero che rende possibile la reale conoscenza di Cristo.

Perché vuoi conoscere Cristo?” chiede il Vescovo a nome della Chiesa ai futuri catecumeni. “Per diventare suoi discepoli”, suona la risposta prescritta. Forse possiamo girare questo dialogo in maniera diversa. Noi diventiamo suoi discepoli se, nella relazione con l’altro, diventiamo prossimi, come egli stesso ci ha insegnato. Secondo l’esempio di Paolo, che divenne “giudeo con i giudei e greco con i greci”, diventiamo “tutto in tutti”. Se diventiamo discepoli in questa maniera allora sì che lo riconosceremo veramente e solo allora lo accoglieremo così come egli è.

Cristo è il pane che viene donato: se lo vogliamo incontrare dobbiamo essere contemporaneamente coloro che donano e coloro che ricevono. Noi riceviamo donando e doniamo rinunciando a ciò che possediamo, collocandoci umilmente fra i bisognosi, fra coloro che sono aperti ai doni e li accettano in maniera riconoscente.

(Questo studio è stato reso possibile attraverso il sostegno del progetto “Creatività e capacità di adattamento, presupposto per il successo dell’Europa in un mondo interconnesso”. Reg. Nr. CZ.02.1.01/0.0/0.0/16_019/0000734, finanziato dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale.) Versione rivista di un capitolo di Divadlo pro anděly (Prague, NLN 2010). Traduzione di Milena Brentari.

1 Tischner, J., Wiara w godzinie przełomu, in: ders., Ksiądz na manowcach, Krakow 1999. Jósef Tischner (1931-2000), era un noto filosofo polacco, sacerdote, e uno dei padri spirituali del movimento Solidarność.

2 Cfr. Nietzsche, F., La gaia scienza. Terzo libro 125. L’uomo folle.

3 Per approfondire cfr. Halík, T., Nachtgedanken eines Beichtvaters. Glaube in Zeiten der Ungewissheit, Freiburg 2012; (traduzione italiana: La notte del confessore. La fede cristiana in un tempo di incertezza, Paoline, Milano 2013).

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