la Dachau di oggi

Emergenza Migranti

Idomeni

dentro la Dachau dei vivi

 

12mila persone di cui il 40 percento bambini sono bloccati da oltre due mesi al confine tra la Grecia e la Macedonia, un viaggio nella più grave crisi umanitaria che l’Europa si sia trovata ad affrontare dalle guerre nei Balcani ad oggi

Brillano sotto il sole di fine aprile le migliaia di tende da campeggio, ormai frustrate dalla pioggia e dal vento dei mesi scorsi. I fili tirati tra un accampamento e l’altro, per cercare di asciugare i vestiti bagnati dall’ultimo temporale, creano una specie di gimkana, complicata e fittissima. “Hello my friend!”, è il ritornello gridato dai ragazzi che ti incrociano per i sentieri sterrati e dai bambini che ti prendono per mano e ti trascinano a giocare con loro.

Idomeni non è come te lo aspetti. A vederlo dall’alto, in una bella giornata, sembrerebbe una distesa di coriandoli su un prato verdissimo.

Quelli che fino a tre mesi fa erano campi arati come molti altri, a pochi passi dalla ferrovia e dal filo spinato che delinea il confine proibito con la Macedonia, sono stati trasformati dalla chiusura della frontiera, lo scorso 21 febbraio, nel campo profughi che il ministro degli interni greco ha definito la Dachau dei vivi.

12mila persone, di cui il 40% bambini, da oltre due mesi sono bloccate qui, costrette a dormire sotto la pioggia, il vento e il sole, già cocente, di aprile.

Altre migliaia di famiglie, si sono fermate nelle due stazioni di servizio vicino a Polycastro, il Paese di 12mila abitanti a venti minuti di macchina da Idomeni. Per la paura dei controlli infatti, molti autobus privati, lasciavano le persone all’entrata del Paese, dicendo che la frontiera si trovava dietro l’angolo, mentre in realtà è a 25 km di distanza. Oltre al campo di Idomeni, accampati sull’asfalto, vicino ai distributori di benzina, oggi ci sono circa altre 3500 persone, principalmente famiglie con bambini piccoli e persone malate.

 

Mappa Idomeni Web

le organizzazioni umanitarie presenti nel campo

«Questo era solo un punto di transito da cui passavano circa mille persone al giorno, dirette verso il nord Europa». Racconta Emmanuel Massart, coordinatore di Medici senza Frontiere (MSF), che qui a Idomeni è presente dallo scorso novembre. “Con la chiusura della frontiera, il numero è schizzato a 12mila in pochi giorni, fino ad arrivare ad un picco di 15mila, 2 settimane fa.” L’80% delle persone bloccate qui, provengono da Syria e Iraq.

Ma a Idomeni i numeri si rincorrono. Secondo l’UNHCR adesso le persone sono 10mila, secondo uno dei volontari, un po’ meno, Medici senza Frontiere però è convinto della propria cifra. Con uno staff di 200 persone e altri 90 operatori, a cui è stata appaltata la pulizia, MSF è la presenza umanitaria più importante sul campo. «Abbiamo 20 medici e 20 infermieri e due ambulatori, aperti 24 ore su 24. Uno dei due è dedicato solo alle donne, moltissime hanno bisogno di assistenza postnatale, molte altre invece hanno subito violenze durante il viaggio. Spesso succede che gli stupratori siano proprio i trafficanti», continua Massart, «dobbiamo fare un conteggio preciso per calcolare le risorse da impiegare, per questo siamo sicuri della nostra stima». 12mila persone.

Una marea di esseri umani, con appena 250 bagni chimici e 70 docce. «Abbiamo gestito le trattative con l’amministrazione locale e i proprietari terrieri, per prendere in affitto i campi e installare questi servizi», continua Massart. «Non tutti i contadini però hanno accettato di dare in affitto i propri campi. Questo è il motivo per cui non possiamo mettere altre toilet. Anche se molte persone hanno piantato la propria tenda su quei terreni, noi non abbiamo il permesso per mettere altre infrastrutture».

Sono passate appena 2 settimane da quando un gruppo di profughi aveva cercato di varcare il confine e la polizia macedone aveva risposto con lacrimogeni e pallottole di gomma. Un inferno, nell’inferno. La situazione è ancora considerata critica dal punto di vista della sicurezza: «La tensione è alta e le persone iniziano ad essere stanche di avere gli obiettivi puntati addosso». Dicono da Save the Children.

Eppure, nonostante la macchina fotografica appesa al collo, le persone ricambiano il mio saluto con un sorriso e molti si fermano a parlare, perché chiunque venga da fuori, forse può portare qualche notizia.

«Cosa si dice fuori? Qui non ci dicono niente», mi chiede Ibrahim, un uomo siriano sulla cinquantina, sedendosi su una brandina, all’ombra di un telo scuro appeso sopra un accampamento di cinque tende. La sua è la sistemazione più vicina al filo spinato che separa quest’ultimo appezzamento di terra greca dal confine macedone. Mi invita ad entrare nel suo piccolo accampamento e accomodarmi, dopo aver sgridato Ahmed il più piccolo dei suoi cinque figli, che voleva a tutti i costi prendere possesso della mia macchina fotografica. «Siamo qui da due mesi e due settimane». Mi racconta, calcando col tono della voce quel “due settimane”, perché qui ogni giorno che passa pesa di più. Uno dei suoi figli, di appena 17 anni, era riuscito a partire alcuni mesi prima del resto della famiglia e ora è in Germania. È là che tutti sono diretti. Abdul, il figlio più grande è stato colpito in testa da uno dei proiettili della polizia macedone, fortunatamente la ferita si sta rimarginando. «Non possiamo fare altro che aspettare». Continua Ibrahim. Come molte altre persone qui, è arrivato con la sua famiglia da Deir el-Zor, città sotto assedio dai miliziani dell’Isis dall’estate scorsa, l’ultimo massacro di civili appena lo scorso gennaio. «L’Isis ci ha preso tutto. La nostra casa non c’è più. Non abbiamo più niente». Mentre parliamo Mohammed, tira la maglia del padre e gli grida qualcosa: «Vuole un cane! Mi chiede se tu ne hai uno?». Gli rispondo che anche io vorrei un cane, ma vivo in un appartamento troppo piccolo e non saprei dove metterlo. Ibrahim traduce la mia risposta e Mohammed replica, nel modo più naturale del mondo, con qualcosa che deve essere davvero divertente, perchè suo padre scoppia a ridere: «Dice che invece noi sapremmo dove metterlo! Fuori dalla tenda…c’è un sacco di spazio!». Rimane in silenzio per un attimo e scuote la testa. «Se non avessi investito tutto nel viaggio per venire in Europa, tornerei in Syria. Sarebbe meglio che restare qui e non sapere niente».

Una frase che sento ripetere spesso nel campo, perché, nonostante le condizioni invivibili, il “non sapere”, è la mancanza più grave di tutte. Su questo tutti sono d’accordo.

 

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«L’UNHCR dovrebbe andare di tenda in tenda e spiegare a queste persone quali sono i propri diritti, quali sono le alternative e creare le condizioni per avere accesso ai procedimenti di richieste d’asilo», afferma Rose Lee, volontaria indipendente arrivata a Idomeni da un mese. «È vedere le vite di tutte queste persone sospese così. Spesso mi chiedono quando penso che riaprirà la frontiera, la cosa più straziante è non poter rispondere. La speranza è l’unica cosa che rimane a chi è qui, come faccio a dire che non aprirà più?». Dal canto suo l’UNHCR conferma di avere in programma un piano per la registrazione di massa, ma non ci sono ancora tempistiche precise e qui le tempistiche sono tutto. La pioggia e il fango presto lasceranno lo spazio al caldo insopportabile.

 

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Sulla carta chi si trova a Idomeni ha tre opzioni: tutti possono fare domanda per la richiesta di asilo in Grecia, chi ha già un parente all’estero, può fare richiesta per il ricongiungimento famigliare, mentre i siriani e gli iracheni possono invece richiedere la “relocation”, ovvero il trasferimento in un altro Paese dell’Unione Europea. Per iniziare queste procedure però è necessario prendere un appuntamento via Skype con l’ufficio di Salonicco per fissare un colloquio. «È un procedimento online. Chiunque lo può fare in qualsiasi posto si trovi». Afferma Marco Bono, responsabile regionale dell’UNHCR. Facile a dirsi, ma praticamente impossibile a farsi: «A Idomeni in moltissimi non hanno nemmeno la possibilità di accedere ad internet. Nel campo ci sono appena due reti wi-fi, per 12mila persone!», spiega Massart. Una delle due reti wi-fi tra l’altro, è fornita e gestita esclusivamente da un gruppo di volontari e, a rendere la situazione ancora più difficile, il fatto che dall’ufficio di Salonicco, nessuno risponda alle chiamate Skype. Yamine, 24 anni, volontario italo-algerino, è arrivato a Idomeni da Padova con la campagna Over the Fortress. Insieme ad un gruppo di ragazzi da tutta Europa gestisce il flusso di persone che si alternano davanti ai due computer di una tenda affollatissima, per provare ad effettuare le chiamate Skype e riuscire ad ottenere un appuntamento.

Per via dell’emergenza, con Medici Senza Frontiere abbiamo fatto molte cose che di solito non sono di nostra competenza, all’inizio abbiamo anche distribuito i pasti. Ma non riusciamo a coprire anche la parte relativa alle informazioni e francamente questo non spetterebbe a noi!

Emanuel Massart

«Ci sono solo alcuni giorni e orari prestabiliti in cui si possono effettuare le chiamate», racconta Yamine. «Il problema è che, molto spesso nessuno dall’altra parte risponde. Siamo qui da stamattina e oggi, ad esempio, nessuno ha risposto. La vita di queste persone è letteralmente appesa ad una chiamata». La scorsa settimana Rania Ali, 20 anni, studentessa siriana di economia, bloccata a Idomeni ha lanciato una petizione su Change.org per chiedere di sostituire Skype con un sistema alternativo, dopo che per 20 giorni ha provato a fissare un appuntamento via skype con l’ufficio di Salonicco, senza successo. La petizione ha superato le 80mila firme, ma ne mancano ancora oltre 68mila per raggiungere l’obiettivo di 150mila e cercare di modificare questo sistema assurdo. E Skype non è l’unico ostacolo. L’iter di richiesta asilo è lunghissimo. Per avere un appuntamento ci vogliono almeno 2 mesi e, per andare a Salonicco, le persone si devono organizzare con i propri mezzi, ma moltissimi ormai hanno speso tutto e non possono nemmeno più permettersi il viaggio fino agli uffici. Infine, per ottenere una risposta bisogna aspettare tra i 6 e i 9 mesi. Tempistiche lunghissime, impensabile pensare di sopravvivere tutto questo tempo a Idomeni.

 

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Esraa, 25 anni, studentessa di architettura di Damasco, è a Idomeni con i genitori e il gatto. «L’ho nascosto in un marsupio per portare i bambini! È dimagrido cinque chili da quando siamo arrivati…stiamo tutti male qui. Mia madre ha un’ernia e dormire per terra la fa stare malissimo». Continua. «La nostra tenda poi è stata squarciata dal vento della scorsa notte. Quando ne ho chiesta una nuova al container dell’UNHCR mi è stato risposto che mi sarei dovuta spostare in uno dei campi del governo». Nel nord della Grecia, il governo infatti ha aperto 10 nuovi campi istituzionali, gestiti in collaborazione con l’UNHCR tra questi quello di Neakavala, a pochi km da Idomeni che abbiamo provato a visitare invano: «Non si può entrare, bisogna avere un permesso da Atene». Mi dice il soldato all’ingresso. Anche i video e le fotografie sono proibiti.

Gran parte di questi nuovi centri non rispettano gli standard igienico-sanitari minimi.

Emanuel Massart
 

«Gran parte di questi nuovi centri non rispettano gli standard igienico-sanitari minimi». Spiega Emanuel Massart. «Diverse persone sono tornate qui, perchè non avevano nemmeno garantito l’accesso all’acqua». Tra queste Marek, 37 anni, un’insegnante di Homs, è qui con il marito, due figli, la cognata e tre nipoti. La incontro mentre cammino per il piccolo villaggio di Idomeni, un gruppetto di case, dove, fino a tre mesi fa, vivevano appena un centinaio di persone. «Nella sfortuna, siamo stati fortunati», racconta. «Una signora anziana ci ha messo a disposizione il garage. Non parla inglese e non capisco niente di quello che dice, ma ci sta aiutando moltissimo. I greci sono brava gente», continua, «Sono i governi che ci trattano come le bestie. Io e la mia famiglia eravamo tra quelli che aiutavano i poveri e adesso…Non so neanche cosa dare da mangiare a mio figlio…Di notte non dorme, non riesce più a mangiare il cibo del campo…la frutta e la verdura per noi costano tantissimo e io non posso cucinare». «Non so come faremo col Ramadam. Non riesco neanche a pregare e pregare mi fa sentire meglio, ma per farlo dobbiamo pulirci bene e qui non abbiamo l’acqua». D’istinto, da laica e non musulmana, mi viene da dirle, «prega lo stesso, se ti fa sentire meglio, Allah capirà». Poi mi viene in mente il dialogo tra lo scrittore Jonathan Safran Foer e sua nonna, sopravvissuta all’Olocausto, che, subito dopo essere stata liberata, pur rischiando di morire di fame, rifiutò un pezzo di carne di maiale, perché non era Koescher, spiegando di aver preso quella decisione così dura perchè, “Se niente importa, allora non c’è niente da salvare”. «Abbiamo fatto cinque anni di guerra, abbiamo perso tutte le nostre cose in mare, durante il viaggio e adesso siamo qui». Le chiedo se si sente di raccontarmi la sua storia in video, ma rifiuta. «Se vuoi, appena riesco a connettermi ti mando un messaggio Whatsapp», interviene Ala, la nipote sedicenne di Marek. «Dopotutto ho tanto di quel tempo qui…». Accetto ma capisco quanto possa essere difficile avere accesso alla rete qui, eppure qualche giorno dopo, quando sono già in Italia ricevo un messaggio audio.

È uno shock collettivo quello provato da migliaia di persone davanti alla chiusura della frontiera: «Guarda, tre mesi fa ero qui!», mi dice Mohammed, 25 anni infermiere siriano, facendomi vedere una foto in cui sorride in un ristorante, insieme alla sua famiglia. «Guarda com’ero tutto bello, pulito, elegante, e adesso sono qui, in questo schifo…». Insieme ad altri nove volontari del campo, gestisce Solidaritea, un’iniziativa lanciata da un gruppo di ragazzi tedeschi che, nel campo, distribuisce circa 3mila litri di tè al giorno. «Dare una mano mi aiuta letteralmente a non impazzire. Servendo tè ho conosciuto amici da tutta Europa, l’unica cosa triste è che, prima o poi, tutti se ne vanno, mentre io rimango qui».

Negli ultimi giorni il numero delle persone presenti nel campo è calato. Circa 2mila profughi sono state trasferite nei campi del governo ma, secondo alcuni volontari, in molti stanno cercando di fare l’ultimo disperato tentativo. «Non sapere niente rende le persone ancora più vulnerabili alle promesse di trafficanti e approfittatori». Racconta Imad Aoun, responsabile regionale di Save the Children. «Mi viene da pensare che se non ci sono informazioni, forse non c’è un piano preciso. Dopotutto questi sono i rifugiati dimenticati, quelli che si sono trovati bloccati nei paesi della rotta balcanica, subito prima dell’accordo UE/Turchia». Rania, 22 anni, è qui insieme ai genitori. Parla bene inglese e mi invita nella sua tenda. Mi racconta del fatto che a Damasco studiasse economia e che è diretta in Svezia, per raggiungere il fratello minore. Idomeni ha interrotto il suo viaggio e la sua vita. «Non ce l’aspettavamo proprio che la frontiera avrebbe chiuso». Ci fermiamo a parlare per parecchio tempo e salutandola, le dico che sarei passata a trovarla il giorno successivo, scuote la testa e mi risponde che non sarebbe più stata lì. «Ce ne andiamo». Rania e la sua famiglia sono tra le persone a cui è rimasto ancora qualcosa da investire e non hanno nessuna intenzione di rimanere ad aspettare. Chiederle di fermarsi a pensare al pericolo dei trafficanti, alla violenza della polizia macedone è inutile, persino crudele, perchè l’alternativa rimane un limbo infernale, fatto di fango, caldo insopportabile e condizioni disumane. A confermarlo, le parole con cui mi saluta: «Meglio morire dall’altra parte, che continuare a morire lentamente qui».

Reportage, foto e video di
Ottavia Spaggiari

Grafica a cura di
Redazione VITA