ironia del tempo che viviamo: la ‘profezia’ che parte dalla massima istituzione anziché dal basso

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

anche ‘il Foglio’ non può resistere di fronte al ‘ciclone Francesco’ e deve riconoscere in una ‘apologia disincantata’ una vera ironia dello Spirito che manifesta la sua creatività profetica più che nella ‘base’ ecclesiale, nei suoi vertici istituzionali: 

Apologia disincantata

di Marco Burini
in “Il Foglio” del 22 ottobre 2013

Non ho mai seguito tanto un Papa come negli ultimi sette mesi, e dire che sulla barca di Pietro ci sto da una vita. Prima non è che occupasse così tanto le mie giornate. Magari ne scrivevo per questo giornale, papista quant’altri mai, ma era solo uno degli argomenti sui quali esercitare i miei attrezzi del mestiere. Lo facevo volentieri, Ratzinger era (è) un teologo e questo mi bastava. Adesso no, è un’altra cosa, i piani mi si confondono. Sarà perché qui a Tv2000 lo seguiamo passo dopo passo, anche un po’ pedissequamente. Ci fa ascolto, e noi lo facciamo ascoltare e vedere il più possibile. Ma il problema è proprio questo, il palinsesto, che per un giornalista tende a sovrapporsi alla vita (ma temo sia un guaio diffuso: la comunicazione è la bolla in cui respiriamo e soffochiamo tutti). Non sono mai stato tanto inseguito da un Papa come negli ultimi sette mesi. E’ ovunque, in tutte le salse, in tutti i menu, cattolici e laici senza distinzione. Senza distinzione, purtroppo: noi cattolici – bestemmio in chiesa, mi rendo conto – dovremmo parlarne di meno, dovremmo sottrarci alla papolatria mediatica imperante, e in ogni caso non dovremmo ricondurre tutto a lui ma semmai fare di lui un punto di partenza per arrivare al nocciolo della questione, per dirla con quel vecchio cattolicastro di Graham Greene. Intanto però ne parlo anch’io, e me ne scuso, un po’ per combattere il senso di saturazione facendo un po’ d’ordine nelle mie idee, un po’ perché qualche giorno fa ho ingaggiato con Giuliano una piccola controversia teologica, una di quelle che ogni tanto ci piace affrontare faccia a faccia e che poi trovano spazio su questo giornale (e solo su questo, perché di controversie teologiche sull’Osservatore o sull’Avvenire non c’è traccia). Il fatto è che il direttore di questo giornale si è convinto, e lo ha ripetuto più volte, che questo Papa sia un abile predicatore, un gesuita maestro della dissimulazione – onesta, ça va sans dire – che di fronte al mondo si sta giocando la carta del cristianesimo tutto misericordia e amore, “un credere del cuore, relativizzabile al soggetto che sente cum ecclesia ma non razionalizzabile nello spazio del discorso pubblico”, e sta invitando i suoi a pregare “in un modo che sembra implicare la rinuncia al pensare, al dubitare o di converso all’ottemperare a un pensiero codificato nei secoli da filosofia e teologia”. Questo sarebbe un passo indietro o comunque alternativo rispetto al magistero dei due papi precedenti che invece hanno ingaggiato una battaglia culturale con il mondo moderno e le sue derive antropologiche nel nome di un’alleanza fede-ragione. Rispunterebbe così, con Bergoglio, lo spettro del “soggettivismo modernista”, la “morale dell’intenzione”, insomma un cristianesimo dove “la fede è tutto, la dottrina niente”, “una posizione del cuore, un flatus evangelico in presa diretta con il Signore”. Certo, se il cuore di cui parla Bergoglio fosse quello dei romantici e dei loro epigoni sanremesi; se l’amore che ci raccomanda fosse quello cantato prima dai trovatori e poi su su fino a Wagner, cioè una figura narcisistica e fondamentalmente gnostica (De Rougemont docet); se la misericordia con cui ci martella un giorno sì e l’altro pure fosse un affare puramente sentimentale, emotivo, Ferrara avrebbe ragione. Credo però che il lessico bergogliano sia schiettamente biblico. E la Scrittura ha giocato e gioca un ruolo fondamentale nella vita di quest’uomo non perché sia un prete, e quindi fa parte del corredo, ma perché c’è stato un momento in cui l’ha ripresa in mano e in controluce vi ha riletto la sua vita (succede in tutte le grandi storie di fede, da Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola). Ebbene, per la Scrittura cuore è sinonimo di libertà, è il luogo della scelta, dei ricordi e anche delle idee perché gli ebrei son gente pratica e non amano le astrazioni: tutto si decide nei precordi. L’amore, sempre biblicamente parlando, è uno strano impasto di eros e agape, Cantico dei Cantici e Prima lettera di Giovanni, iniziativa di Dio e linguaggio degli uomini. E, per dirla con Balthasar, solo l’amore è credibile. Ci vuole sprezzo del ridicolo per affermarlo, oggi che siamo tutti disincantati spettatori di naufragi altrui, eppure l’esperienza questo ci suggerisce: ciò che conta sono le persone care, quelle poche che amiamo e soprattutto quelle che ci hanno amato e che un giorno speriamo di rivedere, su questo solo possiamo spendere gli ultimi scampoli di fede che ci restano. Rileggersi, prego, le ultime pagine dei “Fratelli Karamazov” (ricordo che Dostoevskij è tra i preferiti di Bergoglio). Anche su “soggettivismo” e “protestantizzazione”, che pure qualche membro del Sacro collegio gli imputa sottovoce, ci andrei piano. Mi pare che il ruolo della chiesa nell’esperienza credente non venga affatto sminuita nella sua predicazione, tutt’altro. Basterebbe rileggere, anzi riguardare e risentire perché mimica e timbrica sono fondamentali, le sue ultime catechesi del mercoledì in Piazza San Pietro in cui ha commentato gli articoli del Credo che riguardano la chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. Altro che “presa diretta con il Signore”: extra ecclesia nulla salus! Con Bergoglio la dottrina non è in discussione – o meglio lo è come sempre perché, con buona pace di qualche giapponese ancora asserragliato nella foresta, lo sviluppo del dogma è un dogma – e tantomeno è in pericolo la tradizione. Diciamolo una buona volta: tradizione non è l’enorme monolite sospeso nell’aria che dipingono ossessivamente certi cattolici un po’ surrealisti e molto lefebvriani, un’entità fuori dal tempo, ma una cosa viva che passa di mano in mano, “quasi per manus traditae” come recita il Concilio di Trento (Trento, dico), di generazione in generazione. Insomma, il lessico bergogliano non va preso sotto gamba né frainteso. Certo, a volte è lui che non aiuta. Quando lo sento parlare di solidarietà mi viene il prurito perché è una parola totalmente sputtanata. Lui invece la usa in continuazione, il 22 settembre a Cagliari ha sostenuto che solidarietà “rischia di essere cancellata dal dizionario perché è una parola che dà fastidio, dà fastidio!”. A me pare esattamente il contrario: è un termine innocuo, a buon mercato, sulla bocca e nel portafoglio di tutti. Chi è così iena da rifiutare l’obolo per una buona causa? Chi oggi non fa solidarietà? Persino quando ricarichi il cellulare c’è un’opzione per devolvere automaticamente un euro in beneficenza! Un’aberrazione, a pensarci bene: il farsi prossimo del buon samaritano di evangelica memoria, gesto personale e concreto, si perverte in tic anonimo e irriflesso, si istituzionalizza e perde sapore. Ecco perché non mi è piaciuto quando ha raccomandato ai suoi di accontentarsi di un’auto piccola, cosa intelligente peraltro, pensando a “quanti bambini muoiono di fame”. Ma come, già non riesco a farmi carico di chi ho intorno e devo pure sentirmi in colpa per chi non ho mai visto e mai conoscerò? Sindrome di Lampedusa: rispondere sempre e di chiunque. Invece no. A meno che io non sia pazzo, posso essere responsabile soltanto di ciò per cui posso fare qualcosa davvero, concretamente, qui e oggi. Non è affatto la solidarietà che rischia di scomparire ma il farsi prossimo, la carità di evangelica memoria. Ci è rimasto il surrogato, ma non è la stessa cosa. C’è da dire però che Bergoglio su questo punto – malati, poveri, affamati – si sbatte parecchio. Sente l’urgenza del momento. E’ un Giona allegro, ben disposto, l’opposto del malmostoso profeta biblico che non ne voleva sapere di evangelizzare Ninive. Questo, che te lo dico a fare, è voglioso assai, non lo ferma nessuno. Ha una fretta dannata, sente un’urgenza epocale, un kairos. E quando lui stesso ha usato questo termine tecnico che piace tanto a noi teologi dilettanti, sull’ormai celebre volo di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, il 28 luglio scorso, avrei voluto abbracciarlo. Perché era la conferma che aveva colto nel segno, che aveva capito che non c’era tempo da perdere, che il momento è tragico non perché fede e ragione non hanno ancora trovato la giusta sintesi (schermaglie buone per noi intellettuali) e nemmeno perché i valori non negoziabili sono usciti dall’agenda dei palazzi sacri e non (si è cominciato a parlare di valori quando è finita la morale), ma perché stiamo andando in frantumi sotto il peso di un sistema disumano che ci toglie la terra sotto i piedi. Come uscirne prima che sia troppo tardi? Ci vuole un pensiero credente all’altezza, cioè un pensiero profetico, critico verso il potere. Altrimenti meglio scomparire prima di ridurci del tutto a folclore, a riserva di energia per altri mondi, come diceva De Certeau. Certo, è un’ironia dello Spirito che la voce profetica sia quella del Papa, ovvero l’istituzione suprema. Perché così si innesca una tensione continua che può mandare in cortocircuito l’apparato, e qualche segnale in questo senso c’è già… Il problema è che, come scrive Paolo Prodi, la chiesa ha smarrito da un pezzo la vocazione profetica e ha preferito buttarsi sulla mistica, le visioni, le apparizioni. “Dopo il Concilio Vaticano II non abbiamo avuto, salvo alcune eccezioni, lo sviluppo  della profezia che pure sembrava implicito nelle grandi intuizioni di Papa Giovanni XXIII e nelle deliberazioni conciliari sulla chiesa e il mondo moderno”. Si è scelta un’altra strada, quella dell’utopia, la via orizzontale dei movimenti ecclesiali di base e della Teologia della liberazione che ben presto “si trasformò in ideologia della rivoluzione”. E adesso si danno pure la pena di riabilitarla, quando non conta più nulla: la solita operazione di recupero fuori tempo massimo di cui sono specialisti i Sacri palazzi. Ci vuole la tempra dei profeti per scuotere questo mondo che cancella gli ultimi, “le piaghe di Gesù” come ama dire il Papa recuperando una squisita espressione della pietà popolare. Questa non è sociologia, questa non è rinuncia al pensiero. “Prima gli ultimi” non è una correzione di rotta, è il Vangelo di sempre che richiede una nuova intelligenza della fede. E qui il logos, maiuscolo o minuscolo, c’entra eccome, perché siamo tutti greci, oltre che ebrei, e quindi la lezione di Ratzinger, l’ultimo dei platonici ma non l’ultimo degli agostiniani, è tuttora valida. E la verità nascosta di quella lezione l’abbiamo vista l’11 febbraio: un gesto semplice ed epocale che è stato archiviato in fretta, non solo dalla comunicazione ma dallo stesso apparato ecclesiastico; invece lì c’è davvero qualcosa di profetico, un giudizio sul potere non neutro ma vissuto in prima persona. Se il papato imboccasse sul serio questa strada potrebbe tornare a essere fattore di novità istituzionale, come fu agli albori dell’età moderna quando gli stati nazionali si formarono ispirandosi proprio allo stato pontificio. Certo, oggi le condizioni sono diversissime, le istituzioni sono tutte in profonda crisi e la partita si gioca su scala globale. Bergoglio stesso ne è consapevole, tant’è vero che guarda soprattutto all’Asia, e non da oggi. Quand’era giovane voleva partire missionario in Giappone: i gesuiti ce l’hanno nel Dna, lo sguardo a est, fin da quando dovettero trangugiare la sconfessione romana di Matteo Ricci e compagni. Secondo me la stoffa del global player, come si usa dire, ce l’ha. Ma forse questo ragionamento da “mondanità spirituale” non gli si addice. Poi, certo piace, alla gente che piace, e vabbé, ma in una patria senza padri (ha ragione il lacaniano Recalcati) e in un mondo povero di leader è comprensibile. Piace ma non è affatto compiacente, non strizza l’occhio al mondo. “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?”, ha detto in quella famosa conferenza stampa ad alta quota. Tutti a esultare per la clamorosa apertura, finalmente un Papa umano e via banalizzando. Salvo trascurare quello che ha aggiunto subito dopo e cioè che “il problema non è avere questa tendenza, no, dobbiamo essere fratelli… Il problema è fare lobby di questa tendenza: lobby di avari, lobby di politici, lobby dei massoni, tante lobby…”. Il vero discrimine è questo, tra fraternità e confraternite; tra chi cerca il Signore, etero gay o trans che sia, e chi si trastulla col potere. Colui che giudica i cuori, in ogni caso, abita al piano di sopra. Bergoglio non ha bisogno di atteggiarsi a “omofilo” perché non è mai stato omofobo. E’ un uomo risolto, che sta bene nella sua pelle, è evidente. Ci sta tanto bene che si prende il lusso di dialogare con chi vuole, anche con i patriarchi dell’opinione pubblica. Eppure nel colloquio con Scalfari (confesso che l’ho invidiato: anch’io avrei tante cose da chiedergli) mi è parso più preoccupato di istruire i suoi che di vellicare l’ego del Fondatore; diciamo che quella è una tassa da pagare al sistema mediatico, è consapevole che il gioco non lo conduce lui. E poi oggigiorno basta essere un antidivo per diventare una star. Ma questi sono ragionamenti nostri, da addetti ai lavori. A lui in fondo preme scuotere la sua gente, la sua sposa che sì, è infedele, ma questo lo sapevamo dai tempi del profeta Osea. Obiezioni: telefona troppo, gigioneggia senza ritegno, è populista, peronista (nessuno sa bene cosa vuol dire ma funziona sempre con i latinoamericani). Che dite, con lui s’è persa l’aura del mistero, la sacralità della funzione? Benvenuti nel presente, l’ultimo Pastore Angelico ha lasciato questa valle di lacrime da un pezzo. Ma consolatevi, finché c’è un uomo sulla terra il sacro non scomparirà, si tratta piuttosto di captarne le tracce, come dei rabdomanti, nella città degli uomini. La messa in latino è un falso problema, se non per gli esteti. Per i credenti conta che la liturgia edifichi, in tutti i sensi, la comunità. In vita mia ho girato centinaia di chiese e sentito predicare migliaia di preti ma uno come don Sergio Colombo, parroco nel quartiere bergamasco di Redona morto pochi giorni fa, non l’ho più trovato: uomo del suo tempo, fervente sostenitore della svolta conciliare, celebrava e predicava da Dio, faceva pregare e cantare la sua gente con una finezza inconfondibile, senza bisogno di gregoriano (lasciamolo ai monaci) e di orpelli anacronistici (lasciamoli ai feticisti). Quanto al ridere e al fare casino, ce n’è già stato uno bollato come mangione e beone, amico di puttane e senzadio. Se il suo predecessore teorizzava il buonumore, Bergoglio lo incarna. Secondo me si sta pure trattenendo per senso dell’istituzione, altrimenti lo avremmo già incrociato sulla linea rossa del metrò a conversare con i viaggiatori. Come un buon parroco ha deciso di venirci incontro prima che sia troppo tardi, per lui e per noi. Molta gente ne è conquistata, altrettanta e forse di più è già stufa, ha cambiato canale. Per qualcuno è solo un’operazione di marketing ecclesiale, la sempiterna abilità dei preti di riciclarsi per conservare il potere. E i soldi. E le anime dei credenti. I quali, si sa, tutto fanno fuorché pensare con la propria testa. Gli addetti ai livori sono sempre all’opera, e pazienza. Ma per chi conserva ancora qualche briciolo di curiosità e benevolenza il consiglio è quello di aspettare. Il bello deve ancora venire, siamo solo all’inizio.