il commento di p. Maggi e di Alessandro Dehò al vangelo della domenica

VA E FA ANCHE TU LO STESSO  

commento al vangelo della domenica quindicesima del tempo ordinario (10 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi
Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?».
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai».  Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?».
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.  Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.  Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.  Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va e anche tu fa lo stesso» .

La legge divina va osservata anche quando causa sofferenza nell’uomo? Vediamo quello che ci scrive Luca al capitolo 10, versetti 25-37.
In quel tempo, un dottore della legge… I dottori della legge sono gli scribi, i massimi legislatori. La loro era un’autorità divina perché la loro parola era ritenuta la stessa parola di Dio. Si alzò per mettere alla prova Gesù. Letteralmente “tentarlo”. L’evangelista adopera qui lo stesso verbo che ha adoperato nel deserto per le tentazioni del diavolo. Quindi l’evangelista ci mette in guardia, “attenzione, questi zelanti  difensori della dottrina, della tradizione, in realtà sono strumenti del diavolo. E chiese: “Maestro… “, tipico della falsità curiale questo atteggiamento, costui si rivolge a Gesù per tentarlo, quindi per accusarlo, e invece gli si rivolge con questo titolo di ossequio, come se volesse apprendere, ma in realtà vuole soltanto giudicare. “Che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Ecco la tematica che gli interessa. Gesù non ne parla, Gesù è venuto a cambiare questa vita qui. Gesù non è interessato alla vita eterna.
Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge?” E’ provocatorio e ironico da parte di Gesù. Il dottore della legge è uno dei massimi esperti. E’ uno che tutta la sua vita, tutto il giorno è stato sopra la legge per scrutarne i reconditi significati. Ebbene Gesù gli chiede “Che cosa sta scritto nella legge?” E poi con profondo sarcasmo: “Come leggi?”, cioè “Cosa capisci?” Non basta leggere la scrittura, bisogna anche comprenderla. Se non si mette al primo posto nella propria vita il bene dell’uomo, la Sacra Scrittura si legge ma non si capisce.
Costui rispose, e qui cita il Deuteronomio, al capitolo 6 versetto 5: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”, cioè l’amore a Dio è totale, assorbe tutte le energie dell’uomo. E aggiunge, con un precetto del libro del Levitico: “E il prossimo tuo come te stesso”. C’è una differenza tra questi due amori: mentre l’amore verso Dio assorbe tutte le energie dell’uomo, l’amore verso il prossimo è relativo, amo il prossimo come amo me. E Gesù: “Hai risposto bene; fà questo e vivrai”.
Non parla di vita eterna, ma parla di questa vita. Ma quegli, volendo giustificarsi… Cosa significa giustificarsi? Al tempo di Gesù c’era un ampio dibattito tra due scuole rabbiniche, la scuola di Rabbi Shammai, molto più rigoroso e severo, e quella di Rabbi Hillel, di manica larga, sul concetto di “prossimo”. Allora per Hillel il concetto di prossimo significava anche lo straniero che risiede in Israele, per Shammai, la posizione più rigorosa, soltanto l’appartenente al proprio clan familiare o al massimo la tribù. Il fatto che si vuole giustificare ci fa capire che lui è per la posizione più ristretta.
Infatti disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Ebbene Gesù non risponde in maniera teologica, ma con una narrazione, una parabola nella quale cambia radicalmente due concetti fondamentali della religione: il concetto di credente e il concetto di prossimo.
Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. Gerusalemme è sita nella montagna di Giuda, a più di 818m di altitudine sul livello del mare, mentre Gerico, giù nel deserto, è a ben 258m sotto il livello del mare. Sono poche decine di chilometri, una trentina, quindi c’è un grande dislivello. E’ una zona arida e desertica, dove si fa fatica a camminare.
“E cadde nelle mani nei briganti”. La zona era pericolosa ed è tuttora pericoloso percorrerla da soli. “Che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.  In quella strada, in quella situazione, in quel clima, non ha alcuna speranza. Deve soltanto attendere di morire, a meno che, provvidenzialmente, passi qualche anima buona. E’ quello che Gesù ci fa comprendere.
Per caso … che significa provvidenzialmente, Gesù presenta il meglio che poteva capitare, la persona più adatta. Un sacerdote scendeva per quella medesima strada. E’ importante che Gesù parli di un sacerdote che scende. Cosa significa? Gerico era una città sacerdotale dove i sacerdoti, secondo il loro turno,  salivano a Gerusalemme al tempio, e, attraverso complicati rituali di purificazione, per una settimana esercitavano il loro ministero liturgico. Quindi il sacerdote non è che va a Gerusalemme per essere purificato, ma è già stato per una settimana in servizio nel santuario (si può dire che i suoi abiti ancora profumano d’incenso) ed è nella pienezza della purità rituale. Quindi il meglio che poteva capitare.
“Quando lo vide…”, ecco la salvezza a portata di mano e invece ecco la doccia gelata … “Passò oltre dall’altra parte”. Perché questo? E’ una persona crudele, è una persona insensibile? No, peggio, è una persona religiosa. Per una persona religiosa i doveri verso Dio vengono prima di quelli verso gli uomini. Del resto cosa ha risposto il dottore della Legge? L’amore a Dio è totale, l’amore al prossimo è relativo.
Lui è un sacerdote in condizione di purezza e la legge nel libro del Levitico e nel libro dei Numeri, gli proibisce di entrare in contatto con un morto o con un ferito, perché altrimenti diventa impuro. Allora si trova di fronte al dilemma: osservo la legge divina o soccorro la persona? Cos’è più importante il bene di Dio o il bene del prossimo?
Le persone religiose non hanno alcun dubbio, per loro è più importante il bene di Dio.
Anche un levita, i leviti erano gli addetti al culto, anche loro dovevano restare in condizioni di purità per le cerimonie del tempio. Giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Non c’è speranza. E poi c’è il colpo di grazia.
Invece un Samaritano, il nemico più tremendo, la persona più orrenda, l’essere umano più schifoso agli occhi di un ebreo, che era in viaggio, passandogli accanto … E noi ci aspetteremmo “arrivò lì e gli diede il colpo di grazia”. E invece, dice Gesù: “Lo vide”. Va bene l’ha visto anche il sacerdote e il levita e Gesù afferma qualcosa di straordinario: ,   “N’ebbe compassione”.
“Avere compassione” è un verbo riservato soltanto a Dio. E’ soltanto Dio che ha compassione, perché avere compassione significa un’azione con la quale si comunica vita a chi vita non ce l’ha. Allora per Gesù questo Samaritano, un eretico, un meticcio, un peccatore, una persona impura, si comporta come Dio. Chi è il credente per Gesù? Non colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi – e abbiamo visto i risultati con il sacerdote – ma colui che assomiglia a Dio praticando un amore simile al suo.
Il Samaritano gli si avvicina, cura la persona malcapitata e addirittura lo porta in una locanda prendendosi cura di lui, e alla fine Gesù si rivolge di nuovo al dottore della Legge e gli chiede: “Chi di questi tre (un sacerdote, un levita, un samaritano) ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Gesù ha ribaltato la domanda del dottore della Legge. Lui voleva sapere “chi è il mio prossimo”, cioè “Fin dove deve arrivare il mio amore?” Gesù gli chiede “chi si è fatto prossimo”, cioè da dove parte l’amore?
Il prossimo è colui che si approssima a chi ha bisogno.
La risposta è facilissima, ma inaccettabile per il dottore della Legge. Quegli rispose (e neanche lo nomina tanto gli fa orrore il Samaritano): “Quello che …” E non accetta che un uomo possa amare come Dio, non dice – nonostante qui la traduzione parli di compassione, il testo greco parla di misericordia, perché Dio
è colui che ha compassione, gli uomini hanno misericordia. E per il dottore della Legge è inaccettabile che un uomo possa amare come Dio.
“Chi ha avuto misericordia di lui”. Gesù gli disse: “Và e anche tu fà così”. Quindi per Gesù il credente non è più colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo.

 

Ne ebbe compassione

Alessandro Dehò

di Alessandro Dehò

Da duemila anni c’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, da duemila anni si ripete la storia di vite umane aggredite e lasciate ai bordi della strada,  mezze morte. O mezze vive, dipende dallo sguardo. Abbandonati in terre di mezzo ci sono da sempre corpi umani imploranti, ogni corpo umano, in fondo, sempre  implora dal bordo di una strada. Le parole e i silenzi di ogni uomo sono scomode preghiere impastate di terra o bestemmie crude rivolte a chi vive di violenza  o molesti casi morali gettati negli occhi anestetizzati dei devoti. Dipende dallo sguardo. Da duemila anni ci sono corpi sospesi tra vita e morte che nessuno  vorrebbe vedere, sono segno di quell’umanità che si incastra a inceppare il fluire comodo della vita, sono quegli ostacoli che rischiano di catturare tutta  l’attenzione perché, puoi anche darti tutti gli alibi del mondo, ma un uomo mezzo morto ai bordi della strada ti resta inchiodato dentro, anche solo per  il fatto che ti costringe a trovare delle scusanti per proseguire il cammino. Quell’uomo mezzo morto è scomodo, è giusto dirlo. È l’errore di programmazione, è la nota stonata, è l’inciampo che fa venir voglia di cambiare rotta e  di continuare a sognare un mondo dove tutti possano camminare senza rischi. Il dottore della legge chiede a Gesù notizie sulla vita eterna ma lui, il Maestro,  sceglie di rispondere con il realismo ingombrante della vita terrena: vita spesso ruvida e scomoda, vita che ti chiede di schierarti, vita intralciata
dal male.

Alessandro Dehò1

Un uomo scende da Gerusalemme a Gerico e viene percosso a sangue e lasciato a morire per strada. Altri tre uomini scendevano per la medesima strada e tutti  e tre, almeno per un istante, maledicono il fato alla vista di quella carne pestata a sangue e tenuta in vita da un filo cocciuto di respiro. I primi due,  un sacerdote e un levita, vedono e “passano oltre”, il Vangelo non esplicita le motivazioni, probabilmente sono pretesti religiosi legati al culto, quello  che però sappiamo con certezza è che “passano oltre”. Passare oltre significa decidere di non fermarsi. La qualità della vita si decide qui, dice Gesù,  dalla scelta di fermare il cammino mandando all’aria le tabelle di marcia. E se ci pensiamo bene questo ha davvero del paradossale, la vita diventa eterna  se accetto di perdere tempo, di arrivare in ritardo, di infrangere le regole. La “vita eterna” non è qualcosa che sarà, insiste il Vangelo, ma qualcosa  che è già qui, ogni volta che accettiamo di lasciare che l’uomo ferito fermi il nostro cammino, ogni volta che ci lasciamo ferire dalle ferite del mondo.

La pagina letta non è l’attacco alle norme religiose ma la critica feroce a tutte quelle vite che non accettano intrusioni. Ed è una delle tentazioni più  grandi. Sentirsi in diritto di decidere in totale autonomia lo svolgersi della vita, sentire di essere così autonomi e indipendenti da non concepire variabili.
Soprattutto quando le variabili non accendono sensi di colpa: non è certo colpa del levita o del sacerdote se un gruppo di briganti assalta uno sprovveduto!

In questo pensiero mi sembra di leggere una tentazione molto presente in ognuno di noi, una specie di pretesa che il mondo non venga a darci fastidio.
Cosa c’entro io con il male? Cosa c’entro io con la perenne emergenza educativa frutto di genitori che non sanno fare i genitori, di una scuola che non  educa più, di un oratorio che non è capace di garantire sicurezza… cosa c’entro io? Passo oltre e denuncio i briganti.

Leggo la pagina di oggi e, calata nel mondo che viviamo, non mi sembra tanto una critica della “religione delle regole” ma dell’unica vera religione assoluta  in cui crediamo: noi stessi. È una critica profonda all’individualismo, a quell’atteggiamento che ci permette di passare oltre al male del mondo perché  “non abbiamo colpa”. Quello sguardo che ci fa guardare con rabbia tutte le persone che intralciano i sogni. Non sto parlando di cose enormi ma per esempio  dei ragazzini difficili che non vorremmo avere nella classe di nostro figlio, degli adolescenti problematici che non vogliamo avere nel CRE, dei portatori  di handicap che rallentano il passo, ma anche di tutte le persone che non la pensano come noi… perché ci fanno fermare!

A fermarsi è il samaritano, che da quel giorno è diventato “buono”, buon samaritano perché si è fermato. A me pare che la buona notizia del Vangelo di  oggi arrivi diritta a tutte le persone che hanno dovuto cambiare i tempi del loro viaggio, i colori del loro sogno, il senso della loro vita. La buona  notizia arriva diretta a tutte le persone che sono state fermate da una malattia, da un figlio che non desideravano così come l’hanno ricevuto, da una  delusione cocente, da un tradimento improvviso. La buona notizia arriva a tutte le persone dal cuore fragile che hanno scelto di fermarsi, di lasciarsi  ferire dalla vita. Il samaritano si commuove, lascia che il dolore gli stringa le pareti del cuore e accetta di lasciarsi scompigliare i piani. Questa la vera differenza. Certo, si può anche scegliere di “andare oltre”, di portare a termine i propri progetti e di tenere tutto sotto controllo, anzi, alla  fine della vita ci saranno persone lodate proprio per la loro determinazione, ma non è la determinazione a rendere infinita la vita. Il profumo di eternità  nasce dall’assumersi il rischio di tramutare la propria esperienza in un fallimento per l’incapacità di chiamarsi fuori dal dolore. A rendere infinita  la vita sarà la nostra capacità di lasciarci interpellare dagli eventi, e poco importa se alla fine non avremmo compiuto perfettamente il viaggio, se non
saremmo arrivati alla meta, perché la meta vera camminava con noi e il Senso profondo non è nell’andare ma nel fermarsi, nel lasciarsi fermare dal dolore  del fratello. È interessante vedere che, alla fine, il sacerdote che non si ferma è sulla strada “per caso” mentre il samaritano è l’unico che viaggiava.
Il viaggiatore non è ossessionato dalla meta ma dagli incontri, non è costretto a buttare nell’approdo tutto il senso di un viaggio, sa benissimo che il  Senso è in ogni istante vissuto con sguardo profondo. Sono le cadute di Gesù a rendere la via crucis un viaggio: quello di un Dio che si inginocchia nel  cuore delle sofferenze umane.

La pagina di oggi è un invito al Viaggio e a non credere che vita eterna sarà qualcosa che ci aspetta alla fine del tempo ma è già qui, ogni volta che  ci fermiamo, strappati da cavallo da un cuore che proprio non ce la fa a non commuoversi.