i sogni europei di Tonino Bello

 

«l’Europa sognata da don Tonino Bello era una casa in cui Nord e Sud si aiutano»

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il testo integrale della relazione “Costruttori di ponti: per una diplomazia del dialogo alla scuola di don Tonino Bello” tenuta l’11 agosto a Tricase (Lecce) da mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca, in occasione dell’incontro internazionale “Mediterraneo un mare di ponti” e la firma della Carta di Leuca

Siamo l’Europa del Sud. Sentiamo di appartenere all’una e all’altro. Ci sentiamo europei perché riconosciamo che inevitabilmente, nonostante pareri discordanti, le sue radici sono quelle della cultura classica e del fondamentale apporto dato lungo il corso dei secoli dal cristianesimo  e dall’azione della Chiesa. Siamo gente del Sud, perché qui siamo nati e in questa tradizione meridionale siamo profondamente radicati.

Mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, nel Salento

Mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, nel Salento

Scenari inquietanti

In questi ultimi tempi, lo scenario mondiale è profondamente cambiato e questo ha avuto e continua ad avere notevoli ripercussioni anche sul nostro territorio e, in generale, sul continente europeo, sul suo modo di rappresentarsi e sulle scelte che è chiamato a compiere. La miscela composta dalla crisi economica e dal terrorismo di matrice islamica sta rimodellando la frontiera geopolitica europea. Dopo l’entusiasmo per l’ingresso di altre nazioni (2004-2008), il “cuore” geopolitico dell’Europa sembrava essersi spostato a Nord e nell’area orientale mentre il mar Mediterraneo sembrava ormai declassato a periferia irrilevante, facendo perdere qualsiasi centralità al fronte meridionale europeo. All’improvviso, gli equilibri faticosamente raggiunti sono profondamente mutati e il mar Mediterraneo ha rivendicato il suo primato.

Il “mare nostrum” è diventato “mare mortuum”, se si pensa alle migliaia di migranti annegati lungo la sua traversata. Oggi, il Mediterraneo appare come “muro liquido” che si estende dalla Turchia alla Spagna, dal Libano al Marocco, dalla Grecia alla Francia, al cui centro c’è proprio l’Italia, anzi il Sud Italia. Il Vecchio Continente si specchia in queste acque anche quando rifiuta di farlo, fingendo che quanto accade riguardi solo i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. In tal modo, gli interventi politici sono pensati al massimo come una sorta di solidarietà economico-strategica e non invece come un inevitabile coinvolgimento dell’intero continente.

Occorrerebbe, invece, un coordinamento senza distinzioni tra Est e Ovest, tra Nord e Sud; una presa di coscienza e di iniziativa comune, assegnando un ruolo cruciale al Mediterraneo. In realtà, secondo un alto esponente del Parlamento europeo, «la disintegrazione dell’Unione Europea è purtroppo già una realtà. E lo si vede anche da quanto sta accadendo nella lotta al terrorismo, come nel contrasto alla crisi economica: come sempre, davanti alle sfide e alle emergenze, non riusciamo a prendere decisioni rapide ed efficaci. Attendiamo, attendiamo… ogni scelta richiede l’approvazione di 27 Stati.

Così siamo sempre in ritardo, o prendiamo decisioni deboli.   Il dibattito sul Sud In questo scenario mondiale profondamente mutato, è ritornato di attualità il dibattito sul Mezzogiorno, sul suo rapporto con l’Europa e sul suo ruolo nello scenario mondiale[2]. Per alcuni, il Sud sta ripartendo: «I dati Istat sull’andamento del Pil nel 2015 consentono finalmente un po’ di ottimismo. Il Mezzogiorno sta uscendo da una delle più gravi recessioni della sua storia, allineandosi se pur con ritardo al resto d’ Europa e superando anche il Centro-Nord». Sembra che «a trainare questa ripresa meridionale è soprattutto l’agricoltura: +7,3 per cento in un anno».

C’è chi, invece, ritiene che, a partire dagli anni Ottanta, si registra una diminuzione dell’attenzione verso il Mezzogiorno. In tal modo, esso «è così giunto dov’è oggi sull’orlo del collasso (…). Ciò che colpisce di questa situazione è la sostanziale assenza di una reazione forte e continua da parte dell’opinione pubblica meridionale e di chi dovrebbe darle voce. Mancano larghi dibattiti, autocritiche, progetti: mancano gruppi attivi, iniziative di mobilitazione durature, leader moderni e capaci».

Secondo altri il Sud è vivo, ma i poteri lo ignorano sicché «se il Sud protesta, fa il lacrimoso. Se il Sud ottiene qualcosa, scopre la sua cifra clientelare. Se il Sud tace, è apatico. Se il Sud parla o scrive, il Nord fa finta di non sentirlo o di non leggerlo, ma poi lo accusa ora di piagnucolismo ora di indifferentismo». C’è chi è convinto che per capire il Mezzogiorno, occorra liberarsi dalla «retorica meridionalistica […] e  promuovere la cultura del merito, contro il mantra dei localismi e del territorio».

Infine c’è chi propone la creazione di un «apposito Ministero per il Mezzogiorno, con le deleghe necessarie a coordinare la programmazione strategica e il reperimento delle risorse nazionali e comunitarie». Come si vede il dibattito verte soprattutto sul piano economico. Poco o niente si dice sul ruolo strategico che l’Europa e, al suo interno, il Meridione d’Italia dovrebbero svolgere tenendo conto dei nuovi equilibri mondiali. Al massimo, si fa appello a un cambio della politica europea in attesa che a Bruxelles vengano prese le opportune iniziative per far fronte a questa nuova situazione geo-politica. In un simile frangente, secondo Jeffrey Sachs, l’Italia avrebbe «l’occasione di lanciare un grande piano per il Mediterraneo. Può farlo e deve farlo. Anche perché Bruxelles guarda costantemente troppo a Nord».

Secondo Sachs, le priorità di un Piano per il Mediterraneo sarebbe tre: l’aumento della sicurezza alimentare nel Maghreb e in Africa; l’accesso all’educazione per una popolazione in rapidissima crescita; la sostenibilità energetica. Purtroppo anche l’Italia, appare sempre più «una società frammentata che viene gestita senza progetti unitari e chiari. Che ha urgente bisogno di definire quali devono essere i rapporti fra il Parlamento e il governo, per ritrovare la capacità di individuare obiettivi definiti e specifici al di là delle esigenze del momento» (E. De Mita, La società frammentata e l’assenza della politica).

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In una casa comune dobbiamo aiutarci tutti

In questa prospettiva, torna di attualità il pensiero di don Tonino Bello, che già all’inizio dell’avventura dell’unione europea metteva in guardia da una «polarizzazione intorno ad una nazione emergente: la Germania, il Marco.  In una casa comune – egli soleva dire – se dobbiamo aiutarci tutti, ognuno deve lasciare qualcosa; non possiamo andare con tutte le nostre masserizie; bisogna lasciare qualche cosa».

A suo giudizio, il Sud Italia si presenta come un «luogo paradigmatico dove si manifestano gli stessi meccanismi perversi che, certamente in modo più articolato, attanagliano tutti i Sud della terra. Questa nuova visione planetaria, che ci fa scorgere come i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno, deve spingere il volontariato a decidersi da che parte stare se vuole che la sua azione sia demolitrice delle strutture di peccato, o rimanga invece una semplice opera di contenimento e di controllo sociale, come di utile ammortizzatore, tutto sommato funzionale al sistema che tali sperequazioni produce e coltiva».

Al contempo, egli invitava a scorgere alcuni segnali positivi. Si avverte nel Sud «il bisogno di uscire dalle vecchie aree dell’individualismo per aprirsi a orizzonti di comunione. C’è un’istintiva disponibilità all’accoglienza del diverso. Non per nulla il Mezzogiorno è divenuto crocevia privilegiato delle culture mediterranee, vede moltiplicarsi al suo interno le esperienze di educazione alla pace, si riscopre come spazio di fermentazione per le logiche della nonviolenza attiva, avverte come contrastanti con la sua vocazione naturale i tentativi di militarizzazione del territorio e vi si oppone con forte determinazione […]. L’Europa che nasce deve fare i conti con il Sud Italia, il quale, nella sua coscienza emergente, si rifiuta di assolvere al ruolo di icona della subalternanza per tutti i Sud della terra, ma vuole sempre più decisamente presentarsi alla ribalta mondiale come icona del riscatto dalle antiche schiavitù. Ed è in forza di questo riscatto che il Sud d’Italia respinge la prospettiva di essere utilizzato come baluardo militare dell’Europa, proteso nel Mediterraneo come arco di guerra e non come arca di pace». In questa luce, secondo don Tonino, si deve dar credito «all’ansia profonda di solidarietà presente nel Sud istintivamente portato alla costruzione di una civiltà multirazziale, multietnica, multireligiosa  […] assumendo la speranza come filo rosso che attraversa il nostro impegno e sostiene il nostro messaggio il quale, in fondo, è un messaggio di liberazione».

Nel contesto del Meridione, alla Puglia è riservato un ruolo tutto particolare. In molti discorsi del magistero, la Puglia viene esaltata come «un ponte lanciato verso l’Oriente». Essa è, dunque, «come una finestra aperta, da cui osservare tutte le povertà che incombono sulla storia.
È una terra- finestra. Una terra-simbolo. Una terra-speranza. Una terra-frontiera. Una terra finis-terrae. Da questa terra-finestra si scruta bene l’Adriatico in fiamme. Il crollo dell’Albania e il fuoco dei Balcani. Si distingue bene il Mediterraneo, nuovo invisibile muro, che curva la nostra regione come un arco di guerra puntato dal Nord verso il Sud del Mondo. Il radicalmente altro che è il musulmano, il radicalmente impoverito che è l’africano. Insomma, siete nella terra dove la speranza è sfidata ogni giorno dalla violenza». Per questo, la Puglia non può trasformarsi in «un ponte aereo!»[1]. Purtroppo, «dalla Daunia alle Murge al Salento, ancora una volta, la Puglia viene penalizzata da moduli di sviluppo che privilegiano la militarizzazione del territorio, ne distorcono l’assetto paesaggistico e produttivo, o lo espongono, (come nel caso della centrale a carbone di Cerano), ad alto rischio ambientale. I segni dei tempi, ci fanno scorgere nella Puglia un promontorio di pace avanzato nel Mediterraneo, e non un avamposto di guerra che affida alle armi la sicurezza dell’Europa».

In realtà, si vorrebbe imporre alla Puglia «un ruolo “tragico” come nei teatri greci, un tempo così numerosi nella nostra terra. Un ruolo che non ci appartiene né per vocazione di Dio, né per tradizione degli uomini […]. Un ruolo che ci fa considerare gendarmi di rincalzo nel Mediterraneo per il servizio di controllo. Se non di repressione, sulle folle disperate del terzo e del quarto mondo. A questa storia ci sentiamo estranei. E coloro che si prestano come comparse a intervenire nella trama dell’olocausto planetario sappiamo che forse stanno provando il disgusto di Dio e la rabbia dei poveri».

Da queste considerazioni, secondo don Tonino, dovrebbe nascere un forte richiamo a chi ha la responsabilità delle scelte politiche: «A voi, politici, di cui comprendiamo la sofferenza e intuiamo le perplessità, chiediamo di mostrare che la rete delle istituzioni  non si è scollata dal sentire della gente. Che a voi preme ancora il bene comune. Che ben altri sono i progetti, in calce ai quale volete segnare i vostri nomi. Che su più gloriose pagine della nostra storia ambite figurare come protagonisti. Che l’amore per i poveri e per la loro vita è ancora il principio architettonico della vostra azione sociale».

L’appello di don Tonino non è un sogno utopico, nasce invece dai fatti realmente accaduti, in modo particolare dalla vicenda migratoria che, negli anni ’90, ha riguardato l’Albania alla quale egli prestò grandissima attenzione tanto che ad un anno di distanza scrisse queste parole:  «Ora che il tempo è passato e che di questa gigantesca arnia attraccata al porto di Bari e brulicante di api ci è rimasto solo il riverbero nelle pupille e il tanfo nelle narici, riusciamo ad afferrare meglio l’ambivalenza di quella vicenda. Una vicenda di peccato, per un verso. O se vogliamo usare categorie più laiche, una vicenda di lesa umanità. Quindicimila esseri umani, sospinti in branco dalla fame, che rischiano di andare alla deriva avvinghiati fino all’elica di un unico bastimento. Lupi accecati dall’arsura e dalle croste di sale. Che si riversano sul molo, divenuto per centinaia di metri una protesi di carne. Che vengono braccati con inesorabile determinazione dalle forze militari, mentre più dietro si ingrossa inutilmente la cintura della pietà privata. Uno scenario da girone dantesco, la cui drammaticità non viene temperata neppure dall’espediente di dividere il fronte portandone una metà nello stadio della Vittoria». Tuttavia, questa triste storia contiene anche «risvolti di grazia. Di cui non è esercitazione sprecata fare memoria. Anzitutto, l’operosità solidale della gente comune che si è prodigata con tutta l’anima per alleviare la sofferenza di quegli infelici. Chi in quei giorni disperati è vissuto sul posto, ha potuto misurare l’alta quota di umanità espressa dalla popolazione: dai privati ai gruppi di volontariato, dalle associazioni laiche alle caritas parrocchiali. E’ un aspetto, questo dell’ospitalità della gente, che è stato tenuto colpevolmente in ombra per un anno intero […]. Un secondo frutto di grazia va ravvisato nel fatto che si è sviluppata in tutta la Puglia una fitta trama di gemellaggi tra le comunità ecclesiali e i vari dipartimenti albanesi. Una rete di rapporti che, mentre assicura l’aiuto concreto ai fratelli più poveri, provoca anche una intensa cultura dello scambio e catena quella coscienza di solidarietà così indispensabile per chi voglia aprirsi a orizzonti multietnici. E ora, a un anno dalla disperata avventura albanese sulle nostre coste, siamo chiamati a cogliere un segnale per il futuro. […] Questa terra, che oggi rantola tra i bagliori della guerra vicina e le incertezze della solidarietà lontana, ci chiede soprattutto di essere riscoperta nella sua identità, rispettata nella sua autonomia, e aiutata nella sua crescita originale. Senza tentazioni di colonialismo né economico, né culturale, e tanto meno religioso».

Da qui, un invito alla Chiesa a non tirarsi indietro. Commentando il documento della Conferenza episcopale italiana, Chiesa italiana e Mezzogiorno (18 ottobre 1989), don Tonino rilevava che la Chiesa aveva «finalmente capito di non trovarsi per metà su una barca a remi che fa acqua e per metà su di un motoscafo inossidabile. Sulla barca a colabrodo ci siamo tutti, ma con una fortissima speranza di poter evitare il naufragio». Certo, a suo parere, in quel documento non tutto era stato detto e molto ancora bisognava fare. Soprattutto occorreva ridisegnare il ruolo che il Meridione era chiamato a svolgere con l’imminente integrazione europea, inquadrato nel contesto planetario della tensione Nord-Sud. La necessaria autocritica da parte della Chiesa nel riconosce la sua porzione di responsabilità nella denuncia dei fenomeni perversi, doveva poi risolversi nel promuovere «un protagonismo di pace che il Mezzogiorno può esprimere, in modo particolare sullo scenario mediterraneo».

Don Tonino Bello

Tonino Bello

 

Don Tonino era consapevole che si trattava di un progetto che non poteva essere attuato con le sole forze umane. Egli sapeva che la storia è guidata dal Signore. Questa sera, mentre chiede anche noi di adoperarci per la nascita di un mondo migliore, ci invita ad elevare un’accorata e corale invocazione a Cristo, Figlio di Dio e Salvatore del mondo:
«Eccoci davanti a te, Signore della storia, fratello solidale con gli uomini Dio estroverso che hai impregnato della tua presenza il tempo e lo spazio amore segreto verso cui fremono di incoercibili spasimi gli abissi del mare, i tumulti delle foreste e le traiettorie del firmamento, alfa da cui si diparte il compitare delle stagioni e omega verso cui precipita la piena dei tempi, scaturigine primordiale dei fiumi delle umane civiltà, e ultimo approdo verso cui in un interminabile conto alla rovescia, battono le sfere di tutti gli orologi terreni…
Verbo incarnato, che riassumi nel tuo mistero la stabilità dell’eterno e le clessidre del mutamento noi ti contempliamo stasera come archetipo della missione che hai affidato alla tua Chiesa: quella di introdurre te nelle culture del mondo. […] Perciò ti imploriamo stasera: discendi, ancora una volta, agli inferi. No, non alludiamo a marce trionfali che ti facciano strappare al diavolo, in un quadro di potenza, le anime dei morti. Ma vogliamo riferirci a quella tua capacità di prendere su di te le disperazioni del mondo, di sedurle con le nostalgie del Sabato Santo, e di farle aprire alla tavola imbandita della Pasqua. Tu semente che si disfa, entra nelle zolle delle umane culture, e noi, non più sgomenti come dice un poeta “staremo ad ascoltare la crescita del grano”».