i lager di oggi e la morte della nostra umanità

dove muore l’umanità

di Francesca Mannocchi
in “L’Espresso” del 3 novembre 2019

 

Alla fine di aprile Naisa Saed Musa e suo figlio Abdallah sono scappati dal quartiere di Qasr Bin Gashir, a sud di Tripoli per fuggire dalle bombe di Haftar. La guerra era iniziata da poche settimane, e Naisa e Abdallah cercavano riparo. È una storia di strazio la loro, una storia in cui le parole d’ordine sono comuni a quelle di decine di altre vite di passaggio in Libia: guerra, fuga, morte, speranza di una vita migliore, e poi tortura, estorsione, prigionia. Durante il nostro primo incontro, lo scorso aprile, Naisa e il figlio avevano trovato riparo in un edificio nel quartiere di Garden City, in centro a Tripoli, gestito dalla Mezzaluna Rossa libica. Una scuola adibita a riparo per famiglie di migranti, per lo più sudanesi ed eritrei, scappati dai quartieri sotto assedio o evacuati dai centri di detenzione prossimi alla linea del fronte. Abdullah portava addosso i segni delle torture subite durante i mesi di detenzione in mano alle milizie a Sebha, mostrava i segni dei ferri ardenti che gli hanno marchiato la pelle mentre i miliziani ricattavano sua madre chiedendo soldi e sua madre piangeva, per la disperazione di essere bloccata in un paese in guerra dopo essere fuggita dal Sudan. In cerca di pace per sé e per l’unico figlio che le resta. C’era poco cibo nella scuola di Garden City, pochi aiuti, poca acqua. Ma c’era almeno un tetto. E dei bagni. Ma il riparo è durato poche settimane, perché la guerra produce conseguenze dirette e indirette e il proprietario dell’edificio ha privato la Libyan Red Crescent dell’utilizzo dell’edificio assecondando il malcontento dei cittadini libici convinti che i migranti privassero gli sfollati locali degli aiuti che toccavano a loro. Così, da allora, quelle famiglie messe alla porta vivono in strada. Qualcuno ha un materasso, qualcuno no. Qualcuno si ripara sotto il cavalcavia. Naisa e Abdullah oggi dormono lì, insieme a loro 14 famiglie, 15 bambini, alcuni nati da pochi mesi. Molte donne sole. Asaad al-Jafeer, lavora con la Libyan Red Crescent, aiutava le famiglie a Garden City. Cerca di aiutarli anche in strada. «È una situazione insostenibile. Gli uomini rischiano di essere rapiti, e costretti a combattere dalle milizie. Le donne, rischiano di essere abusate sessualmente», dice mostrando i materassi sporchi a terra, e i secchi di acqua sporca anch’essa – che sostituisce un bagno che non c’è. Per usare un bagno le donne e i bambini vanno in moschea. Almeno per lavarsi, una volta ogni tanto. Asaad al-Jafeer dice di sollecitare da mesi le Nazioni Unite, ma di non ricevere risposta. «Le responsabilità delle Nazioni Unite sono enormi in Libia. Li vedi in televisione, gridare che non vogliono più vedere persone morire in mare. Mi chiedo quale sia la differenza tra vederli morire in mare e lasciarli morire in strada. Si riempiono la bocca di parole come “diritti umani”. Qui ci sono gli umani, i diritti dove sono?». L’ufficio di registrazione dell’Unhcr è proprio dall’altra parte della strada. Le famiglie hanno deciso accamparsi lì per essere più vicine alla sede dell’Agenzia delle Nazioni Unite, e bussare e provare a chiedere informazioni. A chiedere a che punto sono le pratiche, chiedere di essere aiutate. A chiedere di essere evacuati, portati via da un paese in guerra. Perché in Libia si combatte e di notte, dalla strada, si sentono e si vedono i bombardamenti dei quartieri vicini. Così ogni giorno le donne si mettono in fila di fronte alla sede di Unhcr, mostrano i loro fogli di registrazione, ma tornano sempre a mani vuote sui loro materassi sporchi. Vicino ai secchi d’acqua con il logo dell’Oim. Con la paura di morire sotto una bomba. Perché, dice Asaad, «a Tripoli ormai non c’è un posto dove non potrebbe avvenire un bombardamento. Queste persone hanno deciso di vivere qui perché c’è una base militare e pensano così di proteggersi dalle milizie ma le basi militari sono le prime a essere bombardate da Haftar, pensa cosa significhi essere una donna sola con un marito rapito e una bambina di sei mesi che da quando è nata dorme in strada».
Naima, 25 anni, era a Qasr bin Gashir quando è iniziata la guerra, sua figlia era nata da sei giorni, suo marito rapito dalle milizie per la seconda volta. Il quartiere era immediatamente diventato un teatro di scontro tra milizie contrapposte, proprio il centro di detenzione di Qasr bin Gashir era stato assaltato da milizie che hanno ferito alcuni dei migranti detenuti. È stato solo il primo degli attacchi che hanno colpito i centri dove vengono imprigionati i migranti. Naima viveva nella stessa area, è scappata via, sola con una neonata. Di suo marito da allora ha perso le tracce. La prima volta che le milizie l’hanno rapito è stato portato a Sebha e costretto a lavorare per un gruppo armato finché la sua famiglia in Sudan non ha trovato il modo di pagare un riscatto sufficiente per farlo liberare. Non ha mai voluto parlare delle violenze subite, quando l’hanno liberato, non ha mai più camminato bene con la gamba sinistra. E delle cicatrici sulla schiena non ha mai dato spiegazione a sua moglie. Oggi, dopo il secondo rapimento, Naima è sola e vive come le altre famiglie in mezzo alla strada, con sua figlia che ora ha sei mesi: «sono spaventata perché so che non c’è un posto dove possiamo scappare. Vado ogni giorno alla sede di Unhcr e chiedo aiuto, e così pure alla polizia libica e così pure alla sede di Oim. Voglio sapere se mio marito sia vivo, se sia finito in un centro di detenzione. Sono arrivata al punto di sperare che sia in prigione ma vivo, piuttosto che temere che sia stato costretto a combattere e sia morto e io potrei non saperlo mai». Poi culla la sua bambina, Naima, e guarda una donna, incinta di nove mesi, sola anche lei e che come lei vive sotto un ponte, e dice: «Piangiamo continuamente. Sappiamo che nessuno ci aiuterà, come nessuno ha aiutato i sopravvissuti di Tajoura». Il due luglio scorso alle 11 e 30 di sera, un bombardamento ha colpito il centro di detenzione di Tajoura, a Tripoli. Dentro c’erano 600 persone. Il bilancio di quell’attacco fu drammatico, 53 migranti morti, almeno 130 feriti. Mohammed era lì quella notte, è scappato dal Ghana un anno fa, due tentativi di attraversare il mare, per due volte intercettato dalla Guardia costiera libica e riportato indietro. È sopravvissuto al bombardamento del centro di detenzione, è scappato correndo sopra i cadaveri di altri sfortunati come lui, si è nascosto per evitare che le milizie lo forzassero a combattere e un mese fa ha provato ad attraversare il mare di nuovo, ma la Guardia costiera libica lo ha catturato e portato indietro. Oggi si trova nel centro di detenzione di Trik al Sikka, a Tripoli, uno dei centri nominalmente gestiti dal ministero dell’Interno libico che ha un ufficio preposto alla gestione delle facility, il Dcim, Department anti illegal migration. Benvenuti all’inferno gridano uomini e bambini al di là di due cancelli di grate, Benvenuti all’inferno. Gridano, implorano, pregano di essere portati via. Perché il centro è luogo di abuso. Perché – dicono – c’è una stanza chiusa a chiave col lucchetto, dove vengono tenuti quelli che i giornalisti e le organizzazioni umanitarie non devono vedere. Vediamo la stanza, vediamo i lucchetti. Chiediamo – invano – che qualcuno li apra. Mohammed ha vissuto abusi per mesi, sia nei centri di detenzione legali sia in quelli illegali, al confine sud, nel deserto e sulla zona costiera. Li ha subiti anche a Tajoura, dove – dice – «i miliziani potevano entrare indisturbati nonostante fosse un edificio sotto il controllo del governo. I guardiani sono minacciati o in accordo con le milizie, e molte volte i guardiani di notte aprivano le porte ai miliziani che portavano via indisturbati gruppi di migranti per ridurli a schiavi, o per minacciare le loro famiglie in cambio di denaro». Oggi Mohammed indossa ancora i vestiti della notte in cui è stato catturato dalla Guardia costiera, sui suoi abiti ci sono i segni del sale. Sono passate tre settimane, ha perso le scarpe in mare e da allora è scalzo. Nel centro di detenzione di Trik al Sikka ci sono circa 300 persone, la quasi totalità nella sezione maschile, che è una gabbia, di fatto, ci sono reti ovunque, anche nell’area esterna. Ci sono sei bagni per tutti. Tre sono intasati. A terra uomini malati che non ricevono cure, un ragazzo invalido che non riesce a muovere nessuna delle due gambe. In fondo all’unica stanza qualcuno prega, gli altri stesi su materassi luridi consumano il passare del tempo e gridano quando si sente un rimbombo da lontano. Sono bombe, perché a sette chilometri c’è la linea del fronte. Mohammed ha gli occhi di una persona che ha visto la morte, due volte, ed è vivo, solo apparentemente. Ha gli occhi di un reduce, e un filo di forza che è l’istinto di sopravvivenza, il ricordo di sua moglie e dei suoi figli. «L’ultima volta che ci siamo parlati è stata la notte che ho provato ad imbarcarmi», racconta, «poi quando mi hanno portato qui i soldati mi hanno portato via i pochi soldi che mi erano rimasti e il telefono. Mia moglie non sa dove sia, né se io sia vivo o morto».