il sogno di un mondo diverso di Danilo Dolci
per un modo diverso di esistere
di Danilo Dolci
in “L’Osservatore Romano” del 3 giugno 2025
poeta, sociologo, attivista, educatore, scrittore e padre, Danilo Dolci (1924-1997) viene spesso
definito «il Gandhi italiano», slogan facile che però coglie un tratto distintivo dell’intellettuale
triestino che ha fatto della Sicilia il cuore della sua vita e del suo impegno pacifista contro
ingiustizie e povertà. A Dolci si devono iniziative luminose e fastidiose che lo porteranno a essere
processato e variamente bersagliato, ma al contempo lo renderanno tra le figure di massimo rilievo
della nonviolenza nel mondo nella certezza che la pace non sia «tranquillità (…), assenza di
impegno, paura del nuovo, ma capacità di rinnovarsi, costruire», che sia davvero un «modo
diverso di esistere». Rivoluzionario di coraggio, amore e intelligenza, Dolci è convinto che essere
educatori non significhi avere in sé la verità ma che ciascuno possa dare il suo contributo per
scoprirla. Con i fatti innanzitutto, Dolci ribalta alla radice l’atavico paternalismo così diffuso: il
rapporto non è tra chi insegna e chi apprende, ma diventa fraternità e sorellanza nello scambio, in
ascolto dell’esplosione di domande «fonde e complesse».
Lo stralcio che proponiamo è tratto da
Esperienze e riflessioni (Laterza, 1974).
di giulia galeotti
Prendo un vocabolario. Alla parola pace trovo: «Stato d’animo di serenità, di perfetta tranquillità
non turbata da passioni o ansie; sinonimo di quiete; assenza di fastidio, di preoccupazioni materiali;
di dolore fisico; tregua; condizione di uno Stato che non si trova in guerra con altri. Riposare in
pace = essere morto».
Proprio questa è la pace necessaria al mondo, a ciascuno? E se questa non è, cosa significa oggi,
cosa deve significare per ognuno? Pur sapendo come la risposta a questo interrogativo rischia di
risultare generica e velleitaria finché non si concreta situazione per situazione, non è indispensabile
per ciascuno cercare di avviarla? Non è meglio tentare indicazioni positive, anche se barluminari,
che rassegnarsi a pensare la pace in termini negativi, come mancanza di guerra? (…)
Non è vero che tutti vogliamo la pace. Bisogna avere il chiaro coraggio di individuare chi organizza
e chi alimenta la preparazione delle guerre per sopraffare coloro che vuole sfruttare; di scoprire
dove passa il fronte fra il parassitismo di ogni genere e chi è impedito nel suo sviluppo da emorragie
di ogni genere, tra la violenza di chi difende il proprio parassitismo e la coraggiosa energia di chi
difende la vita; veder chiaro quando e dove questo fronte passa attraverso noi stessi. E non
possiamo confondere l’impegno per realizzare la pace con la preoccupazione di mantenersi
equidistanti da tutti. (…)
Ogni comportamento — individuale, di gruppo, di massa — che tende sostanzialmente a mantener
la situazione come è, o ad ammettere il cambiamento se lentissimo, di fatto non è impegno di pace.
I prepotenti, quando non possono sopraffare gli altri prepotenti per sostituirsi a questi, cercano di
accordarsi tra loro: naturalmente in danno ai deboli. Non è questa la pace, anche quando non spara
la lupara o il cannone.
Anche le vaste zone dell’opinione pubblica conservatrice, che ricordiamo aver visto coi nostri occhi
benedire le bandiere naziste e fasciste di fronte alle parate irte di pugnali, si muovono più avvedute,
prendendo atto dell’imprescindibile rapporto tra pace e sviluppo: ma ancora sostanzialmente
blandendo i forti, i ricchi, «i nobili» e commiserando i deboli, i poveri, i paria. Non è questa la pace
che ci è necessaria: è un ulteriore compromesso equivoco.
Occorre l’impegno continuativo, strategico, per la costituzione del nuovo mondo e la demolizione
del superato, attenti a muovere le proprie forze in modo da suscitarne ovunque nuove: occorre una
rivoluzione nonviolenta impegnata a eliminare lo sfruttamento, l’assassinio, l’investimento di
energie in strumenti di assassinio e promuovere reazioni a catena di nuova costruzione.
È più facile dubitare dell’efficacia della rivoluzione nonviolenta finché questa non avrà
storicamente dimostrato di saper cambiare anche le strutture. L’azione nonviolenta è rivoluzionaria
anche in quanto, con la sua profonda capacità di animare le coscienze, mette in moto altre forze
pure diverse nei metodi. Ciascuno che aspira al nuovo fa la rivoluzione che sa.
Molte volte la situazione a Partinico era così grave, il terrore della mafia così diffuso, che sembrava
di lavorare sopra una frana. Se in queste condizioni qualcuno di noi doveva reagire — come in
galera quando altro non è possibile — decidendo per esempio di digiunare, per fare in modo che i
contadini uscissero dal loro isolamento, puntando a illuminare una realtà inaccettabile e a indicare
precise alternative, diversi si dicevano non d’accordo col digiuno; ma via via che passavano i giorni
si caricava la coscienza di molti, si accendevano le discussioni, si moltiplicavano le iniziative (degli
embrionali sindacati, dei comuni, dei partiti o di individui e gruppi — anche polemiche o addirittura
concorrenziali): e molti ora, quando guardano il nuovo lago di Partitico con le sue anatre, non
possono non pensare a come si è riusciti a muovere dalle prime pietre tutta la massa della diga.
Spesso ammiriamo forze rivoluzionarie violente non perché siano le uniche possibili o le più adatte
nelle circostanze in cui operano, ma perché dove agiscono sono le uniche esistenti, le uniche hanno
il coraggio di esistere. Chi pensa che la guerra sia la forma suprema di lotta, il modo di risolvere i
contrasti, ha una visione ancora molto limitata dell’uomo e dell’umanità. Chi ha effettiva esperienza
rivoluzionaria sa come per riuscire a cambiare una situazione deve fare appello, esplicitamente o
meno, a un livello morale, oltre che materiale, superiore a quello imperante; sa come l’appellarsi a
principi più esatti, a una morale superiore, divenga elemento di forza effettiva: e in questo modo la
sua azione è rivoluzionaria anche in quanto contribuisce a creare nuova capacità, nuova cultura,
nuovi istinti: nuova natura dell’uomo. (…)
Mi prende un dubbio. Controllo il senso della parola pace su altri vocabolari, non italiani. Nel
Dizionario dell’Accademia francese, paix: «Stato di calma, di riposo, di silenzio, assenza di chiasso
o di faccende». Nel Dizionario della Reale Accademia Spagnola, paz: «Virtù che pone nell’animo
tranquillità e sussiego, è uno dei frutti dello Spirito santo». Nell’Oxford English Dictionary, peace:
«Libertà da — o cessazione di — guerra o ostilità; la condizione di una nazione o comunità in cui
non c’è guerra con altri». Nel monumentale vocabolario tedesco dei Grimm, Friede: «Ozio,
tranquillità, tutela». Non ho altri vocabolari per verificare oltre, ma ove si osservi attentamente,
d’altronde, si ha conferma della diffusa confusione e insufficienza al proposito, si ha conferma di
come occorre chiarire l’intimo rapporto tra pace, consapevolezza, coraggio, rivoluzione
nonviolenta, non vendersi, sperimentare, nuova strategia, pianificazione organica.
È necessario riuscire a rendere ogni giorno meglio evidente come un nuovo lavoro capillare di
costruzione e pressione, prima di gruppi-pilota e poi di moltitudini di nuovi gruppi volontari, può
riuscire a trasformare effettivamente le vecchie strutture sociali e politiche. L’evidenza di nuovi fatti
può aiutare a chiarire. Certo, è un enorme lavoro, un’enorme fatica si deve fare, ma è forse possibile
pensare che il mondo nuovo che ci necessita si possa creare da sé? Forse non costa ancor più fatica
— in quanto per troppi aspetti antieconomico — il mondo così come è?
Sì, pace vuol dire anche decantare rabbie e rancori, sapere disintorbidarsi per trovare il modo —
ogni volta difficile — di eliminare il male senza eliminare il malato o nuocergli, capacità di
sacrificio personale, sapere maturare le qualità essenziali e, quando è buio, anche se il buio dura
terribilmente, saper vedere oltre. Ma tutto questo, se non è concepito nel quadro più vasto, è ancora
un ingenuo tentativo di evasione: uno dei tanti modi di suicidarsi.
La pace che amiamo e dobbiamo realizzare non è dunque tranquillità, quiete, assenza di sensibilità,
evitare i conflitti necessari, assenza di impegno, paura del nuovo, ma capacità di rinnovarsi,
costruire, lottare e vincere in modo nuovo: è salute, pienezza di vita (anche se nell’impegno ci si
lascia la pelle), modo diverso di esistere