per una chiesa più evangelicamente dialogante

 

se nella chiesa manca il confronto

di Enzo Bianchi

Si vive nella Chiesa una situazione paradossale della quale purtroppo non c’è consapevolezza né tra coloro che non ne fanno parte, né tra quelli che la compongono, e magari se ne sentono anche fieri militanti. Oggi, tra i cristiani è attestato molto impegno, soprattutto nelle opere di carità verso i bisognosi, i migranti. C’è anche indubbiamente molta attenzione e un giudizio positivo sulla voce di Papa Francesco che appare a tutti capace di una parola chiara e di un annuncio radicale del Vangelo.
Ma nello stesso tempo manca una soggettività matura nella vita della Chiesa soprattutto in Italia, a differenza che in altri Paesi, e lo si constata anche nel cammino sinodale in corso: c’è una certa assenza di dibattito intraecclesiale e di consapevolezza, la mancanza di proposte per il futuro della Chiesa. È significativo che ciò che è pervenuto alla Segreteria del Sinodo dalle assemblee diocesane di tutta Italia ripresenti in realtà le proposte già discusse nei decenni precedenti.
Quando ci si riunisce non si affrontano i temi che appaiono conflittuali, ma che sono i più sentiti e sofferti dal popolo di Dio, si sceglie invece di dare spazio alle “testimonianze”, vere e proprie esibizioni di leader spirituali che incantano ma non convertono nessuno e soprattutto non lasciano spazio al confronto delle idee. Fin dall’inizio del cammino sinodale il Papa e tutti i pastori delle chiese locali hanno enunciato il primato dell’ascolto invitando tutti all’ascolto reciproco.
Conosco bene la tradizione monastica e i suoi inganni: per mostrare di praticare la sinodalità l’autorità fa parlare tutti, ascolta tutti, ma non lascia spazio al dibattito, spegne ogni confronto sul suo nascere e poi decide come vuole. È un rischio presente in ogni cammino sinodale, soprattutto se nella chiesa manca l’opinione pubblica. Già nel 1950 Pio XII diceva: “Là dove non appare nessuna manifestazione di opinione pubblica, là dove si constata una sua reale inesistenza … occorre vedervi un vizio, una infermità, una malattia della vita sociale. Così anche in seno alla chiesa: essa, corpo vivente, mancherebbe di qualcosa di vitale se l’opinione pubblica mancasse, e questo sarebbe un difetto che ricadrebbe sui pastori e sui fedeli”. Parole da riproporre ancora oggi perché non abbiamo bisogno di voci uniformi, né di adulatori, né di parole che ripetono quelle del Papa, ma innanzitutto di persone che si distinguono per la loro libertà.
Non basta ascoltare, occorre poi anche discernere, prendere posizione, opporsi se è necessario, e confrontarsi per giungere a una comunione plurale.
Basta con queste “testimonianze” che la Chiesa non conosceva fino a cinquant’anni fa, basta con queste presunte “conversazioni spirituali”, che in realtà vengono richieste per nascondere i conflitti, basta con la paura della libertà. L’Evangelii gaudiumdi Papa Francesco è estremamente chiara su questo metodo e su questo stile.
Se non compariranno cristiani adulti, maturi, con una soggettività ecclesiale che sappia esprimersi, la Chiesa non solo sarà sempre clericale, ma continuerà a essere incapace di una parola profetica, libera e critica. Certo non basta parlare, occorre ascoltare, ma non basta neanche ascoltare, perché occorre poi confrontarsi, discutere, per camminare insieme.




la ‘parresia’ del vescovo di Palermo

LA VERGOGNA DI RIBALTARE LA COLPA SULLE VITTIME

LE PAROLE  DEL VESCOVO DI PALERMO
sulla gravissima responsabilità di chi non soccorre i naufraghi lasciandoli morire in mare

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I 63 morti di Cutro, fratelli e sorelle sfiniti dalla sofferenza della fuga da una patria martoriata e ingoiati dalle onde del nostro mare in un ultimo, disperato combattimento, hanno tentato fino all’ultima bracciata, fino all’ultimo respiro di sfiorare con le dita la speranza che fin qui avevano inseguito: toccare terra in un luogo capace di salvarli e di accoglierli. La speranza di una terra diversa da quella che tragicamente avevano dovuto abbandonare perché incapace di assicurare il diritto alla vita e alla sicurezza dell’umanità in quanto tale.
Non hanno riconosciuto, i nostri fratelli pakistani, afghani, iraniani, siriani, nell’orizzonte freddo della costa, avara di aiuti e incapace di cura per l’unicità preziosa delle loro vite, non hanno riconosciuto questa diversità della nostra terra rispetto a quella che li ha scacciati, perseguitati, minacciati, costretti all’esilio.
Ci avrebbero chiesto, se fossero riusciti ad approdare – ce lo chiedono gli occhi sgomenti, atterriti dei sopravvissuti – su cosa fondiamo oggi noi europei, noi occidentali, la promessa che abbiamo fatto quando abbiamo scritto la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Ci avrebbero chiesto – e ora tocca a noi, da cittadini, da cristiani, chiedercelo e chiederlo a nome di ognuno di loro ai Governi italiano ed europeo – se abbiamo compreso che quella promessa l’abbiamo fatta innanzitutto a coloro che ancor oggi scappano dai luoghi in cui questi diritti sono sconosciuti, violati, e se ci siamo resi conto che lasciandoli morire li abbiamo violati noi stessi, per primi.
Non è solo dinanzi a quello che è accaduto in Calabria che ci sentiamo di dover fare questa affermazione, ma anche e soprattutto dinanzi alla negazione delle responsabilità, alla gravità della loro elusione, alla mancanza di consapevolezza politica ed umana da parte delle istituzioni nazionali ed internazionali impegnate solo a stringere accordi con paesi come la Libia per trattenere e sospingere i migranti in veri e propri campi di concentramento.
Non c’è spazio oggi per i qualunquismi: è tempo per tutti noi di rifuggire con chiarezza da ogni narrazione tesa a colpevolizzare l’anello più debole della società. La responsabilità è nostra: quel che è avvenuto a Cutro non è stato un incidente, bensì la naturale conseguenza delle politiche italiane ed europee di questi anni, la naturale conseguenza del modo in cui noi cittadini, noi cristiani, malgrado il continuo appello di Papa Francesco, non abbiamo levato la nostra voce, non abbiamo fatto quel che era necessario fare girandoci dall’altra parte o rimanendo tiepidi e timorosi.
Il culmine simbolico di tutto ciò è stata la dichiarazione resa dal ministro Piantedosi, un uomo delle istituzioni che ha prestato il proprio giuramento sulla Costituzione italiana – la stessa Costituzione che prima di ogni altra cosa riconosce e garantisce quei diritti inviolabili dell’uomo –, il quale ha ribaltato la colpa sulle vittime. Come mi sono già trovato a dire, durante la Preghiera per la pace del 4 novembre 2022, rischiamo tutti di ammalarci “di una forma particolare di Alzheimer, un Alzheimer che fa dimenticare i volti dei bambini, la bellezza delle donne, il vigore degli uomini, la tenerezza saggia degli anziani. Fa dimenticare la fragranza di una mensa condivisa”.
Come cristiani, memori della parola del Vangelo del Messia che si è fatto povero e ha sposato la causa dei poveri, insieme alle donne e agli uomini di buona volontà e alle numerose associazioni umanitarie impegnate nel Mediterraneo e sulle rotte di terra, crediamo che sia necessario rispondere ai tanti interrogativi ancora aperti sul naufragio di Cutro e che venga dissipato ogni equivoco sulla gravissima responsabilità di chi non soccorre i naufraghi lasciandoli morire in mare. Si aprano una volta per tutte i tanto attesi corridoi umanitari, si agisca sul diritto di asilo, si lavori sull’integrazione. Facciamo insieme di questa nostra terra un giardino fecondo di vita, in cui celebrare e sperimentare la convivialità delle differenze.
+ Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo




in marcia di notte da Perugia ad Assisi per la pace

marcia Perugia – Assisi

in tanti, di notte, a far luce e in cammino

di Flavio Lotti
in “il manifesto” del 21 febbraio 2023

Nel primo tragico anniversario dell’invasione russa, dopo nove anni di guerra in Ucraina, nella notte tra il 23 e il 24 febbraio, torneremo a marciare per la pace da Perugia ad Assisi. Prima di essere un atto politico sarà un modo concreto per mettersi fisicamente dalla parte delle vittime. a 90 secondi dalla mezzanotte dell’apocalisse, mentre cresce il senso di frustrazione e di impotenza per la cecità e la sordità della politica, vogliamo andare incontro alle vittime e provare a sentire il loro sentire: il buio, il freddo, il maltempo, l’inedito, l’incertezza, la paura, la stanchezza…
Quali vittime? Tutte. Tutti i bambini, le donne, gli uomini, gli anziani, ucraini e russi, civili e soldati  andati al macello in questo ma anche in tutti gli altri buchi neri del mondo che fatichiamo persino ad elencare: Siria, Yemen, Libia, Palestina, Myanmar, Afghanistan, Iraq, Etiopia, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Kurdistan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Burkina Faso, Sahel, Mali, Costa d’Avorio, Niger, Nigeria, Costa D’Avorio, Mozambico, Sahara
Occidentale, Colombia,…
LA GUERRA è dappertutto e noi, che da un anno stiamo facendo i conti con il suo ritorno in Europa, non possiamo più permetterci di ignorarlo. La nostra marcia di notte vuole essere anche questo: un modo per ribellarci alla disumanità e al cinismo di tutti i governi che intervengono -senza badare a spese- solo dove e quando gli interessa. La guerra è dappertutto e sta investendo miliardi di esseri umani anche quando a fare strage di dignità e diritti non solo le bombe ma “l’economia perversa che domina il mondo”, l’aumento delle disuguaglianze, la mancanza di cure, la distruzione dell’ambiente e delle risorse naturali, l’oppressione e la volontà di dominio.
La pace che dobbiamo costruire non è solo per l’Ucraina ma per il mondo intero. Sembra una bella frase idealista, ma se continuassimo a ignorare che la guerra è mondiale per davvero, che le grida di allarme di Papa Francesco non erano forzate, che tutto è interconnesso e interdipendente, che ormai, come dice Edgar Morin, siamo, con l’umanità e il pianeta, una sola «comunità di destino», faremmo
un ulteriore pessimo servizio a noi stessi.
«In piedi, costruttori di pace!», ci disse quasi quarant’anni fa nell’arena di Verona, il nostro caro don Tonino Bello. E in piedi vogliamo restare nella notte simbolo di questa terza guerra mondiale in cui siamo stati trascinati. Svegli, in piedi, in cammino per contrastare il virus congelante
dell’impotenza che si sta impossessando di tante persone. Svegli perché non possiamo dormire sonni tranquilli mentre si sta consumando questa tragedia.
IN PIEDI perché non c’è altro modo per aprire «le porte della notte» che oggi ci imprigionano. In cammino perché dobbiamo reagire all’immobilismo e alla rassegnazione generale, perché dobbiamo
fermare l’escalation, ottenere il cessa-il-fuoco, scongiurare il disastro totale, perché la pace va ricercata anche quando il buio si sta facendo pesto.
«In questa notte scura -scrisse un giorno Tom Benettollo- qualcuno di noi, nel suo piccolo, è come quei lampadieri che, camminando innanzi, tengono la pertica rivolta all’indietro, appoggiata sulla spalla, con il lume in cima. Così il lampadiere vede poco davanti a sé – ma consente ai viaggiatori di camminare più sicuri».
Per nostra fortuna, la strada verso Assisi è già stata solcata da centinaia di migliaia di persone e il nostro cammino risulterà sicuro. Nella notte folle della guerra, mentre l’ideologia della potenza e l’ideologia della vittoria stanno distruggendo quel che resta della pace, mentre la grande Alleanza dei Produttori e Venditori di Armi pretende di sottrarre altre decine di miliardi di euro alla cura della nostra salute e dei nostri giovani, mentre le trombe pubbliche e private della propaganda di guerra
diventano sempre più assordanti, siamo chiamati ad accendere, ciascuno, una luce. Anzi, ad «essere luce», affinché anche altri possano vedere, risvegliarsi, rialzarsi e camminare insieme.
POCHI GIORNI dopo il 24 febbraio, verrà il primo marzo quando celebreremo la “Giornata nazionale della Cura della vita delle persone e del pianeta” e con migliaia di ragazzi e ragazze e gli amici tedeschi dell’Equal Care Day, cercheremo di illuminare la via della pace. Nessuno ci toglierà dai guai che ci stanno cadendo addosso.
Dobbiamo esigere il rispetto dei nostri diritti, costruire una politica e un’economia della cura, ma, soprattutto, dobbiamo sviluppare la nostra capacità di prenderci cura gli uni degli altri. E, poi, arriveremo a domenica 21 maggio, quando una nuova Marcia Perugia – Assisi – stavolta di giorno – vedrà il protagonismo di migliaia di giovani, studenti e studentesse, che rivendicano il diritto alla vita e al futuro, impegnati in percorsi di educazione civica alla pace e alla cura. Insieme a loro
possiamo osare di trasformare il futuro che ci attende.
* Coordinatore della Marcia PerugiAssisi




ma i cristiani dove sono?

mancano i cristiani

 di Tonio Dell’Olio

in “www.mosaicodipace.it” del 20 febbraio 2023

 Il Vangelo proclamato ieri in tutte le chiese cattoliche del mondo non sembra lasciare scampo. Non  vi è una sola, piccola, via d’uscita per la quale riuscire ad adottare una giustificazione,  un’attenuazione o una riduzione. Pena il disinnesco della radicalità o il travisamento del tradimento.
Nella pagina finale del Discorso della montagna Gesù si spinge fino a chiedere di amare il nemico e  a pregare per i persecutori. E se penso alla tragedia dei conflitti violenti che si stanno combattendo
anche oggi sulla faccia della terra, ne devo amaramente dedurre che manca questo apporto specifico  dei cristiani. Nel corso della storia non siamo riusciti a porre attenzione e peso su quei versetti. Non  c’è stata palestra ove esercitarsi alla pratica di quella radicalità, ovvero la catechesi ha latitato, la  predicazione è stata residuale e l’azione – nel migliore dei casi – è stata considerata profetica.
Profezia intesa come eroismo o utopia o secondo la follia dei santi che – pertanto – non è alla  portata di tutti. Eppure nel tempo dell’escalation della violenza, cioè della scelta militare mostrata e  dimostrata come ineluttabile, come l’unica via, come quella dolorosamente inevitabile, è proprio  quel contributo dei cristiani che manca. E se tutti sappiamo quali sono i risultati della strada che  abbiamo deciso di percorrere finora, nessuno è in grado di dire come sarebbe se mettessimo in  pratica quell’insegnamento.




il nostro inno è violento, va cambiato

“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”
di Tomaso Montanari
Una nazione etnica, per via di sangue: modellata sulla famiglia di consanguinei. E su una famiglia rigidamente patriarcale: nella quale contano, e dunque vengono menzionati, solo i maschi: delle sorelle, nessuna traccia. E contano solo i maschi perché il nesso essenziale è quello tra nazione, sangue e guerra: “Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”. La storia al servizio del presente, in una lettura figurale e mitica che innalza la xenofobia a caratteristica essenziale della nazione italiana: Scipione che batte Cartagine è immagine della eterna lotta degli italiani contro gli stranieri (gli africani, nella fattispecie). Accanto alla nazione maschia e guerriera, ecco Dio: che combatte con lei (Dio con noi!), e assicura la vittoria all’Impero con cui l’Italia si identifica (“Dov’è la vittoria, le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò”). Personificata in una donna, la Vittoria appare dunque ridotta in schiavitù: e cioè rasata, secondo un uso antico che intreccia all’umiliazione dello schiavo l’umiliazione della donna in quanto tale.

L’immaginario è militarista, la ricerca del martirio martellante: è un inno di morte, e alla morte (“Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”). La patria è il fine, la vita dei suoi figli è il mezzo. La persona umana non conta nulla: conta solo il destino della nazione. Una nazione tipicamente vittimista e lamentosa (“Noi siamo da secoli calpesti, derisi”), che cerca se stessa in una rilettura a tesi, finalistica e provvidenzialistica, della storia (“Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano, ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano. I bimbi d’Italia si chiaman Balilla, il suon d’ogni squilla i Vespri suonò»), e nella guerra contro i popoli oppressori (“Già l’Aquila ‘’Austria le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, il sangue polacco, bevé, col cosacco, ma il cor le bruciò”)

Il testo del Canto degli italiani di Goffredo Mameli si iscrive perfettamente nella retorica risorgimentale cui appartiene (è del 1847). Ma che effetto fa, ascoltarlo oggi, quasi duecento anni dopo, in un’Italia, in un’Europa, in un mondo clamorosamente diversi? L’inno fu adottato, come provvisorio, nel 1946, per iniziativa del ministro della Guerra, e per molto tempo nessuno sentì il bisogno di tornare su quella non-decisione: anche le sporadiche proposte di sostituzione (per esempio con il Va’ pensiero verdiano) caddero nel vuoto, più per mancanza di interesse che per una reale convinzione. L’inno – questo inno così opposto ai valori della Costituzione repubblicana – diventa ufficialmente tale solo nel 2017, con una apposita legge proposta dal Pd, e approvata presidente del Consiglio Gentiloni, presidente della Repubblica Mattarella.

A farlo tornare in auge, per reazione, era stato il separatismo leghista, che una sinistra come al solito lungimirante pensò bene di combattere resuscitando la retorica patriottica risorgimentale, senza capire quali ben più pericolosi fantasmi si andassero così a legittimare. Come scriveva già nel 2011 lo storico Alberto Mario Banti (in Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza): “Il neo-patriottismo … non ha fatto altro che riproporre – con minime variazioni – il blocco discorsivo proprio del nazionalismo classico, come si è formato tra Risorgimento e fascismo. … Dal punto di vista contingente ha creato strane situazioni. Così, per esempio, osservare leader del centro-sinistra italiano, come Romano Prodi o Giovanna Melandri, che in diretta Tv festeggiano la Nazionale italiana di calcio vittoriosa nei Mondiali del 2006, cantando con entusiasmo ciampiano un inno che esalta il nazionalismo sacrificale, come Fratelli d’Italia, sarà risultato un po’ desituante per un bel pezzo del loro elettorato, più aduso a commuoversi alle note di Blowing in the Wind o Imagine, che alle figure sanguinolente del nazionalismo mortuario di epoca romantica. Viceversa, sembra che Ignazio La Russa si trovi perfettamente a suo agio nel celebrare l’esercito italiano, l’Anniversario della vittoria, o i sacrifici che i soldati italiani all’estero compiono, a prezzo a volte della loro vita: e son convinto che una buona parte del suo elettorato non trova niente di strano nelle sue iniziative. … Le parole-simbolo, i sistemi discorsivi, i rituali che strutturano l’identità nazionale si distanziano con difficoltà dagli archivi memoriali ai quali appartengono; e quindi conservano latente l’intera complessità del discorso-matrice che li ha foggiati”.

Arrivati al 2023, con un’Italia governata da un partito di matrice fascista che si chiama, guarda un po’, Fratelli d’Italia, e con La Russa seconda carica dello Stato che rivendica i suoi busti del duce, il Festival di Sanremo si apre con Gianni Morandi che canta l’inno nazionale-nazionalista. Ma che sorpresa.




il ‘Corriere della sera’ e la sua guerra contro papa Francesco

l’odio del Corriere della sera per papa Francesco e per la modernità

di Michele Prospero 

Viaggio Apostolico in Sud Sudan: la Cerimonia di congedo dal Sud Sudan a Papa Francesco

Troppo forte il Corriere della sera. Nella sua volontà di punire Francesco, come eroe negativo responsabile nientemeno che della rinuncia a contrastare la scristianizzazione, cambia per decreto anche la geografia. A via Solferino ce l’hanno visceralmente col Papa. Sta disarmando il bel cristianesimo, dicono. Invece di raccogliere le insegne di una gagliarda Chiesa “combattente”, egli rende l’occidente remissivo in nome della coscienza di pace. Bisogna farla finita con l’appello alla “pace senza se e senza ma”. E basta con i viaggi apostolici e le civetterie con il terzomondismo vagamente socialista.  

Se potessero, nella scuderia dell’editore Cairo, nominerebbero subito un antipapa. Morto il loro eroe, il Benedetto che però loro stessi giudicano che abbia fallito nella sua strategia di ri-evangelizzazione ostile al relativismo e alla minaccia islamica, al Corriere sparano contro la visione “fortemente universalistica” di Francesco. Ma l’origine di ogni decadenza, più ancora che nel lessico del Papa che viene dai “confini del mondo”, si trova nel Vaticano II. Il Concilio, per il quotidiano che una volta era il foglio della borghesia illuminata lombarda, è il vero epicentro del male assoluto.

Il Corriere della sera guarda più a De Maistre che al Vaticano II. Più alla reazione che al moderno. Più al boia che ai diritti. La genesi della perdizione, per la stampa del molieriano presidente del Toro, risiede nella Roma godereccia dei primi anni Sessanta. Da allora, infatti, i preti parlano il linguaggio dei diritti umani. E, soprattutto, non considerano più la capitale “il centro” della storia mondiale. Non reagiscono alla “ferocia islamista”, come la chiamano in via Solferino, ma aprono alla Cina, inseguono i miti remissivi di un mondo di eguaglianza e solidarietà.

L’urlo del Corriere sculaccia Francesco, il censore dell’occidente, il campione del multiculturalismo, il punto di riferimento dell’irenismo pacifista. Con il suo cosmopolitismo sensibile a un mondo multipolare, il Papa è accusato di dimenticare che l’Europa è, per il vero fedele, l’unico e solido luogo dello spirito. Senza l’esclusivo suolo europeo preso come stabile fondamento, il cristianesimo non può avere identità alcuna. Il legame del sacro con la terra e lo spirito del vecchio continente sono quindi costitutivi.

Per questo il Corriere affida a Galli della Loggia il compito di riscrivere, insieme alla storia del pensiero religioso, anche le carte geografiche dell’antichità. Sulla base delle sue scoperte, tutte le acquisizioni storiografiche vanno gettate alle ortiche. Va preso a calci l’assunto di Werner Jaeger (Cristianesimo primitivo e Paideia greca, La Nuova Italia, 1966) per il quale “tra i fattori che determinarono la forma definitiva della tradizione cristiana, la civiltà greca esercitò un’influenza profonda sul pensiero cristiano”. Questa arcaica tesi, su un mondo unificato dalla cultura e dalla lingua greca come laboratorio della fede, contrasta con la scienza nuova di Galli della Loggia, che vuole celebrare solo la vecchia Europa come il centro geografico del sacro. Quando ha collegato ellenismo ed espansione del cristianesimo, dichiarando che “per lo svolgimento della missione cristiana e per la sua espansione entro e fuori i confini della Palestina questo fu un fatto decisivo”, Jaeger non ha ben capito il retroterra esclusivamente europeo della fede.

Il rasoio di Galli della Loggia taglia le escrescenze extraeuropee come punte di un prurito fastidioso. E così dalla storia della dottrina cristiana recide in un sol colpo la Palestina e Gerusalemme, la Mesopotamia, l’ebraismo tardo, i cosiddetti Rotoli del Mar Morto, con le sette ascetiche che vivevano sulle sue rive, Antiochia e la Turchia, la Siria, l’Algeria. Gran parte degli apostoli e degli scrittori della patristica provenivano da Alessandria, da Nissa, dalla Cappadocia.

Il bello è che dal cupo tramonto della Chiesa come mistico presidio dell’occidente, dal cristianesimo senza Cristo, un non-europeo peraltro, Galli della Loggia salva solo il pontificato breve di Benedetto. Il quale, poi, aveva in Agostino il suo ispiratore, di contro al tomismo mai apprezzato. E però il Doctor Gratiae veniva da Ippona, Algeria, non certo vecchia Europa. Scoprendo quanti turchi, algerini, siriani sono tra i Padri della Chiesa, forse Galli della Loggia rinuncerà a quel suo pasticciaccio teologico che gli fa maltrattare, con la storia, la geografia, e umiliare, con la geografia, la storia quella vera.




il futuro della chiesa finita la ‘cristianità’

la rinascita del cristianesimo

di Enzo Bianchi

 

Il cardinal Matteo Zuppi, nella prolusione al Consiglio permanente della Cei, con sguardo realista ma non angosciato ha evocato le parole più volte ripetute da Benedetto XVI che descrivevano la chiesa di oggi come “una realtà più piccola, più povera, quasi catacombale, ma anche più santa.
La rinascita sarà opera di un piccolo resto, apparentemente insignificante eppure indomito, rinato attraverso un processo di purificazione. Contro il male resisterà il piccolo gregge”.
Sì, ormai è riconosciuto da tutti che la cristianità è finita e che la chiesa, almeno in Occidente, è ridotta a minoranza in diaspora. Questo però, ha precisato Zuppi, non significa che non debba essere una chiesa di popolo, anzi è importante rifuggire ogni logica elitaria.
Questa speranza efficace dovrebbe abitare il cuore dei cristiani e fugare ogni timore di fronte a un dato di fatto da accettare: essere diventati una minoranza. Ciò che è decisivo, in realtà, è che la minoranza sia significativa, portatrice di una bella notizia per l’umanità di oggi. Nella storia sovente sono state le minoranze a determinarne il futuro, in quanto capaci di sollecitare un cambiamento urgente per la convivenza. Certo, se guardiamo all’oggi con occhi paralizzati dalla presenza
dell’oscurità, allora finiamo per sentirci gli ultimi cristiani. Nella Bibbia i profeti alzavano la voce per denunciare l’incredulità e l’idolatria dei contemporanei. Gesù stesso chiamò “generazione adultera e malvagia” coloro in mezzo ai quali viveva e predicava.
Sempre nella storia ritroviamo condanne dell’infedeltà e della mancanza di fede, ma anche  espressioni di smarrimento di fronte ai mutamenti, reazioni che ci appaiono oggi più che mai vicine  a quelle che si registrano nel nostro tempo. Anselmo di Havelberg intorno al 1160 scriveva: “Molti
si stupiscono, s’interrogano e s’indignano: perché tante novità nella chiesa? Chi non sarà  scandalizzato e contrariato da questi cambiamenti, queste novità?”. E quattro secoli dopo Teresa d’Avila: “Non ho ancora cinquant’anni e ho visto tanti cambiamenti nella chiesa che non so più
come vivere. Come andrà a finire? Preferisco non pensarci! Cosa diventeranno questi giovani non oso immaginarlo!”.
Nel secolo scorso il cardinal Verdier, alla vigilia della seconda guerra mondiale, osava scrivere: “Il mondo oggi subisce una crisi di cui non si sa esagerare la gravità! Siamo ormai sull’orlo dell’abisso.
Dai giorni del diluvio non c’è stata una crisi spirituale così profonda!”.
Leggere queste testimonianze ci deve mettere in guardia e indurci a ripensare alle nostre previsioni oggi così negative sulla chiesa.
Manchiamo di sapienza e non abbiamo fondamenti per sperare che sempre il cristianesimo non fa che rinascere. Muta la maniera di viverlo, cambiano le chiese che lo professano e a volte lo tradiscono… Ma il Vangelo come brace sotto la cenere è fuoco che rinasce e brucia il cuore di un piccolo resto, che ha una sola forza: il non temere!




le armi non partoriscono pace

la società civile

 «un errore puntare sulle armi»

la protesta dei pacifisti


Pax Christi: manca la politica e prevale l’ipocrisia. Rete pace e disarmo: attenti, le forniture finiscono anche nelle mani sbagliate. Marcia Perugia-Assisi: soldi tolti alla lotta contro la povertà

«Un errore puntare sulle armi»: la protesta dei pacifisti

di Luca Liverani 

Armi, ancora armi, solo armi. Senza uno sforzo parallelo per individuare una soluzione diplomatica. È questa la lettura condivisa nel mondo delle associazioni per il disarmo e la pace, di fronte al prossimo decreto, il sesto, per l’invio di armamenti italiani alle forze armate ucraine.

«Il governo Meloni segue la stessa linea di Draghi, secretando l’elenco delle armi inviate dall’Italia», dice Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete italiana pace e disarmo. Gli “omissis” nel decreto producono un doppio rischio. «Che si tratti di armi che finiscono anche nelle mani sbagliate», ad esempio gruppi mercenari attivi anche in altri teatri o organizzazioni criminali. «E la segretezza permette al Cremlino di alimentare polemiche basate su fake news», dice Vignarca. Nessuna trasparenza nemmeno sui costi, lamenta Rete pace e disarmo: «Abbiamo calcolato che nel 2022 gli invii di armi ci sono costati 485 milioni. Il ministro Tajani ha parlato genericamente di un miliardo di euro». Un’opacità che impedisce anche di capire «se si tratta di armamenti vecchi, che avremmo dovuto comunque rottamare, oppure sistemi che andranno rimpiazzati. È stato calcolato che gli aiuti militari Nato potrebbero portare all’industria militare americana nuovi ordini per 22 miliardi di dollari». Tutti elementi, sottolinea Vignarca, «che prescindono dal dibattito se inviare armi sia giusto o sbagliato». Ma c’è un altro aspetto: «Ogni invio è stato giustificato dalla propaganda politica dicendo: “sono le armi che cambieranno il corso della guerre”. A marzo i razzi anticarro Javelin, a giugno i lanciarazzi Himars, a dicembre i missili Patriot, ora i tank Leopard». Di certo c’è che «nessun tipo di arma ha avvicinato una soluzione politica. La diplomazia non è stata mai messa in campo seriamente. E la politica continua a ignorare le altre guerre: Siria, Congo, Etiopia…».

Pax Christi ribadisce il suo no all’invio di armi: «Siamo con Papa Francesco che a marzo diceva che per fermare le guerre non bisogna alimentarle», dice don Renato Sacco, consigliere nazionale di Pax Christi. «Non sono le armi che mancano, ma la politica. E si gioca con le parole sfiorando l’ipocrisia: a Ramstein si è detto che “la Nato formalmente non è coinvolta”». Anche Pax Christi teme che il flusso di armi prenda vie sbagliate: «Il procuratore Nicola Gratteri non ha dubbi». E avverte: « Non abituiamoci alla guerra, non consideriamola accettabile. Sento parlare di un collegamento di Zelenski a Sanremo. Da esperti di calcio, gli italiani si sono trasformati tutti in strateghi. Ma ignoriamo le altre guerre tormentano palestinesi, curdi, armeni allo stesso modo degli ucraini». Senza contare i rischi dell’escalation: «A due anni dall’approvazione del bando Onu sulle armi nucleari, non sottovalutiamo come “propaganda” la minaccia atomica di Putin».

«È dall’inizio che diciamo che gli ucraini hanno tutto il diritto di difendersi, l’errore è puntare sulla guerra e solo sulla guerra», spiega Flavio Lotti, coordinatore della Marcia della Pace Perugia Assisi. «Ci hanno detto che le armi servivano a riequilibrare sul campo il confronto coi russi – ricorda – ma questo sesto invio è la prova che quella tesi è fallita. La guerra è in stallo e si punta ad armi sempre più letali. Le stragi continuano nel vuoto dell’iniziativa politica. Temo che il decreto verrà approvato senza un ampio dibattito, in cui si prenda atto che è tempo di scegliere un’altra strada. La politica è drammaticamente muta, maggioranza e opposizione». E le armi dissanguano anche in altro modo: «Ogni armamento sottrae risorse per la lotta alle disuguaglianze e alla povertà. In Italia, in Ucraina, ovunque».




il razzismo naviga in internet, soprattutto nei social-media

misoginia, omofobia e odio online

le regioni e le città più intolleranti

Icone dello smartphone

 


La mappa dell’intolleranza, creata da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, inquadra le aree geografiche dove i messaggi di odio via Twitter sono più intensi e i periodi nei quali le violenze si intensificano. Per il settimo anno consecutivo le donne svettano quale categoria più odiata via Twitter.

Odio online, intolleranza, tweet e messaggi violenti all’indirizzo di donne, persone omosessuali, migranti, persone con disabilità, ebrei e musulmani. La mappa dell’intolleranza creata da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, fotografa nel dettaglio l’odio via social. Il rapporto, realizzato in collaborazione con alcuni poli universitari italiani, monitora quali sono le città dove la geolocalizzazione dei tweet che contengono parole considerate sensibili è più alta.

Com’è stata realizzata la mappa

La mappa prende in analisi il periodo gennaio-ottobre 2022 e mira a identificare le zone dove l’intolleranza è maggiormente diffusa nei confronti di 6 gruppi: donne, persone omosessuali, migranti, persone con disabilità, ebrei e musulmani. Sono stati estratti 629.151 tweet dei quali 583.067 negativi (il 93% circa vs. 7% positivi). Una relazione che assume particolare significato a ridosso del Giorno della memoria, il 27 gennaio, data nella quale l’antisemitismo registra un picco di messaggi. Ecco quali sono le città più intolleranti e quali sono le categorie più prese di mira dall’odio online.  

Omofobia

Dopo anni di indifferenza, o quasi, da parte degli odiatori online, le persone omosessuali sono di nuovo prese di mira. Non accadeva dal 2016. Un’inversione di tendenza, che evidenzia un attacco ai diritti della persona. Tra le zone più intolleranti, il Veneto, la Calabria e la città di Bari.

Infografica sull’omofobia – Vox Osservatorio sui diritti

Antisemitismo  

A Roma e nel Lazio si registra l’antisemitismo più forte. L’odio, si legge, contro gli ebrei diminuisce, ma si radicalizza e si concentra nelle date simbolo, come la Giornata della Memoria. Esplode anche in occasione delle aggressioni contro gli ebrei in alcune città. E si lega alle manifestazioni antisemite internazionali.

Disabilità

UmbriaSardegna e Sicilia le Regioni con l’incidenza più alta di tweet d’odio indirizzati a persone con disabilitàBolognaCaserta e Novara le città con più concentrazione di tweet intolleranti.

Islamofobia 

PiemonteNord Est ed Emilia sono tra le zone a più alto tasso di tweet islamofobi. A fomentare l’odio via social, eventi internazionali legati al terrorismo, come la sentenza di Parigi per l’attentato al Bataclan. O l’uccisione in Siria durante un raid aereo Usa di due terroristi dell’Isis.

Misoginia

CasertaTerni e Bologna, le città con l’incidenza più alta di tweet d’odio contro le donne. Per il settimo anno consecutivo le donne svettano quale categoria più odiata via Twitter. È un triste primato, che si accompagna all’innalzamento dei picchi di odio in concomitanza con i femminicidi, segno tragico del rapporto sempre più stretto tra lo sciame d’odio online e la violenza agita.

Xenofobia  

L’arrivo dei barconi dei migranti e dei profughi dall’Ucraina hanno scatenato intolleranza e odio. Le polemiche politiche e l’attenzione dei media riaccendono l’attenzione degli hater, che colpiscono soprattutto in VenetoLazio e Puglia, con una concentrazione maggiore tra Venezia, Verona e l’area tra Terni e Roma.

Odio online: i risultati della relazione

Secondo il rapporto, nel 2022 la rilevazione, che ha riguardato il periodo gennaio-ottobre, “ha attraversato un periodo di forti turbolenze, segnate dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica, dalle elezioni politiche, con un cambio di governo, e dall’inflazione: così anche quest’anno ansie, paure, difficoltà si sono affastellate nel vissuto quotidiano delle persone, contribuendo a creare un tessuto endemico di tensione e polarizzazione dei conflitti. Un dato su tutti fotografa al meglio la realtà che oggi rappresenta l’odio online e il ruolo di cinghia di trasmissione che i social svolgono tra i mass media tradizionali, la politica e alcune sacche di forte malcontento, che trovano sfogo ed espressione proprio nelle praterie dei social. La forte polarizzazione rappresentata dall’aumento evidente e notevolissimo delle percentuali dei tweet negativi a fronte del totale dei tweet rilevati. Il che indica una maggiore radicalizzazione dei discorsi d’odio. Come precisa il rapporto, le aree prive di colorazione, non indicano assenza di tweet discriminatori, ma luoghi che mostrano una percentuale più bassa di tweet negativi rispetto alla media nazionale”.

I picchi di odio a seconda degli eventi più importanti

“Contro le donne, in occasione dell’elezione di Giorgia Meloni a presidente del Consiglio e della sua scelta di usare il maschile per il suo titolo. Drammatica, la concomitanza dei picchi d’odio con i femminicidi, come purtroppo le rilevazioni della Mappa dell’Intolleranza evidenziano da anni”.

“Contro le persone con disabilità, in concomitanza con un’omelia di papa Francesco che invitava a considerare la disabilità una sfida per costruire insieme una società più inclusiva. E in seguito alla notizia di un taxista veronese, rifiutatosi di prendere a bordo un disabile”.

“Nei riguardi delle persone omosessuali, in occasione del monologo di Checco Zalone al festival di Sanremo, che ha raccontato una favola LGBTQ, e in generale in concomitanza con aggressioni omofobe”.

“Contro i migranti, in occasione degli sbarchi e dei discorsi di papa Francesco improntati all’accoglienza e all’inclusione”.

“Contro gli ebrei, in occasione della Giornata della Memoria e ogni qualvolta si verifichino aggressioni contro ebrei, di stampo antisemita”.

“Contro i musulmani, in occasione della sentenza per l’attentato a Parigi al Bataclan e dell’uccisione in Siria da parte degli americani di due dirigenti dell’Isis”.




i contrasti dentro la chiesa cattolica e l’opposizione a papa Francesco

“la chiesa divisa”
di Enzo Bianch

Questi sono giorni in cui emergono in modo molto più evidente i contrasti, le conflittualità e le “guerre” all’interno della chiesa cattolica. La morte di Benedetto XVI, l’incauta rivelazione postuma di alcune delle sue parole e dei suoi sentimenti da parte del segretario particolare e lo svelamento dell’identità dell’autore del memoriale attribuito al Cardinal Pell – vero grido di allarme sulla situazione della chiesa –, sono fatti che hanno scosso e scuotono i credenti quotidiani, che non sempre comprendono la materia diventata tanto conflittuale, ma soffrono di questa situazione così nuova per “la gente cattolica”, in balìa del chiacchiericcio delle sacrestie e delle denunce fatte dai media.

L’esito – va detto – non sarà il tanto temuto e paventato “scisma” di una porzione di cattolici, perché questo non è più tempo di fondazioni, ma sarà un silenzioso abbandono della chiesa da parte di molti che si sentono frustrati, stanchi e sovente amareggiati da tante liti fraterne che si consumano con schizofrenia ipocrita: da un lato una corsa al dialogo con i non cattolici, con i credenti delle altre religioni, e si realizzano cooperazioni tra chiese mai viste nella storia del cristianesimo; dall’altro lato c’è intolleranza, non sopportazione di chi, pur cattolico, condivide la stessa fede con uno stile diverso nella liturgia o nel modo di collocarsi nel mondo. Qui la lotta, l’antagonismo sono feroci con delegittimazione reciproca e impossibilità di riconoscere la fraternità che pure ha fondamento nell’unico battesimo.

In una vita ecclesiale così attraversata da polarizzazioni c’è però una novità: gli attacchi, il rigetto, l’insulto verso il papa, attualmente Francesco. La critica al papa era già presente nella chiesa degli ultimi tempi, critica aperta almeno dal pontificato di Paolo VI e poi dei suoi successori, ma le accuse o erano morali (e a tanto si giunse con l’integro papa Montini!), o erano critiche per il governo. Con Papa Francesco invece gli attacchi sono diretti alla sua fede, viene attaccato proprio quello che è il suo carisma: confermare nella fede i fratelli, e si arriva fino alla delegittimazione e all’insulto.

Perché ci si spinge fino ad affermazioni che lo dicono papa eretico, idolatra della dea pagana Pachamama, un papa che distrugge la chiesa? C’è una sola risposta: perché papa Francesco ha osato e osa essere solo un servo del Signore, un cristiano obbediente unicamente all’Evangelo, un esperto di umanità, un uomo che non ha paura dei potenti di questo mondo! Quanto più Francesco fa apparire il Vangelo nella sua nudità tanto più scatenerà le potenze avverse contro di lui e contro la chiesa della quale è al servizio della quale è pastore e servo della comunione.

Nessuna adulazione! Anche papa Francesco, come ogni uomo, ha i suoi difetti, il suo carattere che può non piacere, il suo modo di parlare che può essere più o meno attraente, il suo modo di governare la chiesa che può essere criticato, ma per i cattolici è il successore di Pietro, è colui per il quale Gesù ha assicurato di pregare, è l’uomo fragile e limitato che va giudicato solo per come annuncia il Vangelo e presiede alla comunione plurale della chiesa. Lo sappiamo dai Vangeli: colui che è la “Pietra”, cioè il fondamento della fede, può diventare un fuscello, ma sappiamo anche che ci sarà un gallo che canterà e lo richiamerà.