ancora sulla lettera del papa a Scalfari

 

papa veglia
Scalfari e la lettera di papa Francesco:
“Il coraggio che apre alla cultura moderna”

Il fondatore di Repubblica risponde, sul quotidiano in edicola, alla missiva del Pontefice sul rapporto tra fede e ragione: “Parole che fanno riflettere, una visione mai sentita dalla cattedra di San Pietro”. “Sta cercando di far prevalere la Chiesa missionaria su quella istituzionale, ma difficilmente ci sarà un Francesco II”

Le parole di papa Francesco nella sua lettera a Repubblica sono “al tempo stesso una rottura e un’apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati”. Il fondatore Eugenio Scalfari risponde su Repubblica in edicola alla lettera inviata dal Pontefice come risposta e riflessione sul tema fede e ragione. E lo fa dicendo che “un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro”.

“Leggendo le parole del Papa – spiega Scalfari – il nostro pensiero è chiamato e stimolato a riflettere di fronte alla concezione del tutto originale che papa Francesco esprime sul tema ‘fede e ragione'”. E continua: c’è un importante aspetto politico “quando il Papa scrive della distinzione tra la sfera religiosa e quella politica (….) La pastoralità, la Chiesa predicante e missionaria, c’è sempre stata e Francesco d’Assisi ne ha rappresentato la più fulgida ma non certo la sola manifestazione. Tuttavia non ha quasi mai avuto la prevalenza sulla Chiesa istituzionale. Papa Francesco ha interrotto e sta cercando di capovolgere questa situazione. La trasformazione in corso nella Curia e nella Segreteria di Stato sono segnali estremamente importanti. Temo però che molto difficilmente ci sarà un Francesco II e del resto non è un caso se quel nome non sia stato fin qui mai usato per il successore di Pietro”.

“Il Papa mi fa l’onore di voler fare un tratto di percorso insieme. Ne sarei felice. Anch’io vorrei che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre anche se so che quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie.

Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”




lettera di papa Francesco a Scalfari

il papa

 

PREGIATISSIMO Dottor Scalfari,

è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce “un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth”.

Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.

La prima circostanza – come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica – deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore – vi si sottolinea – “risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti” (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa – mi creda – non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso – o se non altro mi è più congeniale – andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda,così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo “scandalo” che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria “autorità”: una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è “exousia”, che alla lettera rimanda a ciò che “proviene dall’essere” che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire – egli stesso lo dice – dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa “autorità” perché egli la spenda a favore degli uomini.

Così Gesù predica “come uno che ha autorità”, guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona… cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: “Chi è costui che…?”, e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.

Ed è proprio allora – come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco – che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva “caro cardo salutis”, la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.

Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristianain quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione.

Certo, da ciò consegue anche – e non è una piccola cosa – quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo – mi creda – un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che – ed è la cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione… assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire.
Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio – questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! – non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela – e vive il rapporto con Lui – come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra – e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno – , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di “cieli nuovi e terra nuova” e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà “tutto in tutti”. Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà “a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).

Con fraterna vicinanza
Francesco




CILE: 40 ANNI FA MORTE VIOLENTA DI SALVADOR ALLENDE E DELLA DEMOCRAZIA.

CILE: 40 ANNI FA MORTE VIOLENTA DI SALVADOR ALLENDE E DELLA DEMOCRAZIA..

dal blog ‘profumo di donna’ un bellissimo ‘memoriale’ di quei giorni tristi con prezioso materiale fotografico e filmico … compreso la scandalosa legittimazione data dal papa dal balcone con Pinochet (vedi link qui sopra)

Quarant’anni fa, l’11 settembre 1973, un golpe militare, con la complicità degli  Stati Uniti di Nixon e di Kissinger che, sottobanco, finanziò ed arruolò criminali che seminarono il terrore, destituì ed uccise Salvador Allende, il Presidente democraticamente eletto, ed, insieme a lui, il sogno della democrazia, e portò al potere il generale Augusto Pinochet, il più sanguinario tra i macellai golpisti.

 




la pace necessaria per le teologhe italiane

 

pace necessaria

La pace è necessaria

cristina simonelli

«La debolezza, la paura e la disperazione sono morti. Sono nati forza, potenza e coraggio. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Le mie speranze sono le stesse. I miei sogni sono gli stessi […] Signor Segretario Generale la pace è necessaria..».

Le parole di Malala Yousafzai all’ONU lo scorso luglio, hanno fatto il giro del mondo, insieme alla sua figura avvolta nello scialle rosa appartenuto a Benazir Bhutto: ricorrere a lei per parlare di pace e diritti può sembrare una facile scorciatoia. E’ tuttavia il modo con cui vogliamo impegnarci a guardare fuori dalla finestra, fuori dai nostri cortili e dalle nostre comodità, per collocare i temi che ci sono abituali in più ampio orizzonte. Di fronte al dramma delle guerre – come di fronte agli sbarchi di questa estate, col loro carico di speranza e di sofferenza – recuperiamo priorità e proporzioni.

Con questo senso del limite ma anche con la determinazione e la speranza che possiamo apprendere da quanti sono portatori di una visione, riapriamo ufficialmente i nostri cantieri: che hanno vissuto e tuttora stanno vivendo congressi e convegni – italiani ed europei / ecclesiali e laici – e vedono profilarsi la ripresa dei più ordinari percorsi. Vorremmo riprenderli ora con la disponibilità a pazienti lavori di scavo: archeologico, si potrebbe anche dire, nella misura in cui gli studi “di settore” per quello che riguarda antropologia inclusiva e teologie delle donne vs teologia della donna, come pure per quanto attiene a duplici principi mariano/petrini contano ormai molti decenni di vita, sia pure con scarsi esiti di ascolto (lo faceva sinteticamente notare Gebara poche settimane or sono invitando a una ricerca su.. Google!); ma anche di scavo sistematico, necessario quanto meno per evitare sovrapposizioni di piani – spirituali e istituzionali – che si fanno di fatto più frequenti quando si parla di donne. Ma, appunto, con senso della proporzione e del limite, non lo riteniamo l’unico argomento possibile. E contiamo di portarlo avanti con tranquilla laboriosità, contando anche sull’onesta ricchezza di amiche e amici, compagni di un percorso storico e di un’avventura teologica di questo oggi, problematico ma non privo di speranza.




troppi bambini rom in classe: via i nostri

Via gli italiani dalla scuola, troppi bambini rom

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E’ il secondo caso dopo quello accaduto nel Bergamasco, in cui genitori decidono di portare i propri figli in altre scuole perché quelle vicino a casa hanno troppi stranieri. Stavolta la notizia arriva dalla provincia di Novara, a Landiona, un paese di circa 600 abitanti dove il sindaco Marisa Albertini ha spiegato: “Abbiamo cercato di convincerli a lasciare i loro figli, ma hanno preferito portarli a Vicolungo, il paese qui vicino”.

Eppure 10 anni fa la scuola aveva invitato i bimbi rom a iscriversi perché era a rischio chiusura, ma ora invece sono gli italiani ad andar via. ”I bimbi rom iscritti sono 25 – ha spiegato il Sindaco – ma quelli che frequentano le lezioni sono molti di meno. Gli italiani, se vogliamo definirli così, sono una dozzina. Avevamo tentato di accorpare le classi con quelle di Sillavengo, altro paese della zona, per favorire una maggiore integrazione, ma non è stato possibile”.

“Non siamo razzisti” assicura il Consigliere comunale di minoranza, Francesco Cavagnino, ma questo “fatto di una gravità assoluta” ha screditato tutto il paese, commenta. Franca Biondelli, deputata Pd di Novara, ha annunciato di voler dare il via ad una interrogazione parlamentare.




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ex sindaco leghista denuncia la segregazione degli alunni sinti

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I bambini italiani sono stati trasferiti dalla scuola del comune di Landiona, in provincia di Novara, nell’elementare di un comune limitrofo. Mentre i bambini sinti non potrebbero farlo per un vincolo di residenza. L’ha denunciato al fattoquotidiano.it il consigliere comunale per la Lista civica, Francesco Cavagnino. La deputata del Pd Franca Biondelli prepara un’interrogazione parlamentare

Per una ventina di bambini sinti che frequentano le scuole primarie di Landiona, piccolo comune nel Novarese, il nuovo anno scolastico è iniziato con una polemica. Una quindicina dei loro compagni di classe, tutti bambini italiani, saranno trasferiti nella scuola di Vicolungo, un altro comune in provincia di Novara. La decisione è stata presa ancora nel maggio scorso, quando si è tenuto un incontro a cui hanno partecipato i sindaci dei rispettivi comuni insieme ai genitori di tutti gli alunni e al direttore vicario dell’Istituto comprensivo statale “Guido da Biandarate”, che raggruppa le scuole di 10 piccoli paesi situati alla periferia di Novara. Alla riunione era presente anche l’ex sindaco leghista di Landiona, Francesco Cavagnino, che è uscito dal Carroccio ed ora è consigliere comunale di minoranza per la Lista civica. Lui stesso parla di un suo avvicinamento al Pd. E’ stato proprio Cavagnino a denunciare il caso.

Nel corso della riunione è stato specificato che non tutti i bambini potevano essere trasferiti a causa del numero limitato dei posti nel plesso scolastico di Vicolungo, e che la preferenza andava data a coloro che avevano la residenza a Landiona. Il requisito al quale la maggior parte dei bambini sinti non corrispondeva. Così il tutto è finito in una specie di segregazione degli alunni non italiani. Questi ultimi, tra l’altro, venivano accusati di non pagare le rate per la mensa e il doposcuola. La cosa che non corrisponde alla verità dei fatti, come sostiene il consigliere Cavagnino, che aveva verificato tutto di persona. Secondo lui, la gravità dell’accaduto sta nel fatto che nella Regione di Piemonte non ci sia nessuna norma che definisca la residenza come un fattore vincolante ai fini scolastici.

Le radici della controversia sono lontane nel tempo. Una decina di anni fa, per tenere aperta la scuola del paesino, le famiglie sinte erano state invitate a portare i loro figli a scuola. L’elementare era stata così salvata dalla chiusura. La prima cittadina di Landiona, Marisa Albertini, sostenuta alle elezioni del maggio 2012 dalla lista Landiona nuova spiega così il caso: “I bimbi rom iscritti sono 25, ma quelli che frequentano le lezioni sono molti di meno. Gli italiani, se vogliamo definirli così, sono una dozzina. Avevamo tentato di accorpare le classi con quelle di Sillavengo, altro paese della zona, per favorire una maggiore integrazione, ma non è stato possibile”. Non si esprime, invece, il direttore dell’Istituto comprensivo statale “Guido da Biandarate”: “Ho ricevuto l’incarico da una settimana, ho sentito qualcosa, ma non posso dire nulla”. Sulla vicenda Franca Biondelli, deputata novarese del Pd, ha annunciato un’ interrogazione parlamentare. Mentre il consigliere Cavagnino che nei prossimi giorni dovrà verificare l’evolversi della situazione sul posto dichiara: “Questa storia getta discredito su tutto il paese, ma noi non siamo razzisti“.




i conventi chiusi per i poveri: parola di papa

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 PAPA FRANCESCO, USIAMO I CONVENTI CHIUSI PER I RIFUGIATI. NON DOBBIAMO AVER PAURA DELLE DIFFERENZE. BERGOGLIO SENZA SCORTA IN VISITA AL CENTRO ASTALLI

 ‘Conventi vuoti non sono nostri, ma per la carne di Cristo che sono i rifugiati’. Ai rifugiati, voi difendete anche nostra dignita’. Benedizione a una donna incinta il primo gesto. Invito a citta’ di Roma ad essere piu’ accogliente.

“A cosa servono alla Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo e i rifugiati sono la carne di Cristo”. Lo ha detto Papa Francesco, durante il suo discorso nel centro Astalli, ipotizzando l’utilizzo dei conventi chiusi per l’accoglienza dei rifugiati. Agli operatori del centro Astalli, il Papa ha detto che bisogna “tenere sempre viva la speranza! Aiutare a recuperare la fiducia! Mostrare che con l’accoglienza e la fraternita’ si puo’ aprire una finestra sul futuro, piu’ che una finestra, una porta, e piu’ si puo’ avere ancora un futuro”. “Ed e’ bello – ha aggiunto Bergoglio – che a lavorare per i rifugiati, insieme con i Gesuiti, siano uomini e donne cristiani e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome del bene comune, che per noi cristiani e’ espressione dell’amore del Padre in Cristo Gesu’. Sant’Ignazio di Loyola volle che ci fosse uno spazio per accogliere i piu’ poveri nei locali dove aveva la sua residenza a Roma, e il Padre Arrupe, nel 1981, fondo’ il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, e volle che la sede romana fosse in quei locali, nel cuore della citta’”.

Entrando nel Centro Astalli, la struttura romana dei Gesuiti per l’accoglienza dei rifugiati, il primo gesto di Papa Francesco e’ stato di avvicinarsi a una donna incinta dando la benedizione a lei e al bimbo che portava in grembo. Il Papa e’ subito stato circondato dalla folla dei rifugiati con cui si e’ intrattenuto salutandoli e dando loro la benedizione.

Il Papa Ssi è recato al centro Astalli per i rifugiati, nel cuore di Roma, senza scorta. Bergoglio ha utilizzato la consueta “utilitaria” di colore blu che usa nei suoi spostamenti, a bordo della quale c’era come sua personale “scorta” il capo della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani.

“I Siriani in Europa sentono la grande responsabilita’ di non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova societa’”. Lo ha detto una donna siriana, Carol, a Papa Francesco durante l’incontro al centro Astalli per i rifugiati. E’ stato lo stesso Bergoglio ha riferire la frase nel suo discorso e spiegando che “anche questo e’ un diritto. Ecco, questa responsabilita’ e’ la base etica, e’ la forza per costruire insieme. Mi domando: noi accompagniamo questo cammino?”. Un altro rifugiato, Adam, ha detto al Papa: “Noi abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per essere integrati in Italia”.




la crisi e gli italiani

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Crisi, 11% italiani senza beni di prima necessità: dal riscaldamento alla carne

da Il Fatto Quotidiano – 09.09.2013

 

Una percentuale pari al doppio rispetto a Regno Unito, Francia e Germania. Mentre sul fronte sanitario, nonostante le difficoltà economiche, l’Italia esce a testa alta dalla relazione di Bruxelles

Un italiano su dieci in condizione di “gravi privazioni materiali”. E’ quanto afferma un rapporto della Commissione europea, secondo cui l’11% della popolazione non ha accesso a beni di prima necessità, tra cui il riscaldamento e la carne. Questa percentuale, relativa al 2011, è pari al doppio rispetto alle altre grandi nazioni dell’Unione come Regno Unito, Francia e Germania. Nonostante le rassicurazioni del governo sui miglioramenti della nostra economia, appaiono quindi critiche le condizioni di vita di una fetta considerevole della popolazione.

Il commissario alla sanità Tonio Borg ha pubblicato una relazione dedicata alle disuguaglianze in materia di salute tra gli Stati membri che evidenzia come i fattori socioeconomici contribuiscono a determinare le disuguaglianze: vanno dal livello del reddito al tasso di disoccupazione al livello di istruzione di una popolazione, a cui si aggiungono fattori di rischio come il tabagismo e l’obesità.

Sul fronte sanitario, nonostante le difficoltà economiche, l’Italia esce a testa alta dalla relazione di Bruxelles. I dati parlano da soli. L’Italia in 10 anni è riuscita a ridurre ulteriormente – rispetto a Francia, Germania e Regno Unito – la mortalità infantile, portandola da una media nel 2001 di 4,4 decessi per mille nati vivi, a 3,2 nel 2011. Calo che pure si registra a livello europeo dove nello stesso periodo si è passati in media da 5,7 a 3,9 decessi.

Incoraggiante è anche la situazione in Europa che, secondo le conclusioni di Bruxelles, continua a fare passi avanti nella lotta alle disuguaglianze in materia di salute. Infatti, oltre alla diminuzione della mortalità infantile si riduce tra gli Stati membri anche la differenza sulla speranza di vita dei loro cittadini. Differenza che purtroppo resta ancora elevata. Un solo esempio: nel 2011 la Lituania ha registrato un tasso di mortalità maschile sotto i 65 anni tre volte più elevato di quello dell’Italia, che si pone al secondo posto nell’Ue dopo la Svezia per minor numero di decessi. Borg non ha dubbi: “colmare le disuguaglianze sanitarie in Europa deve rimanere una priorità a tutti i livelli”.




Boff e papa Francesco

 

 

«Con Papa Francesco la chiesa compirà una vera rivoluzione»
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Intervista a Leonardo Boff, l’uomo che fu tra i primi teologi della liberazione e che oggi è a Bolzano

 

Leonardo Boff è considerato uno degli iniziatori della teologia della liberazione, che alla fine degli anni ’60 in America Latina mise in primo piano i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano. Boff sarà a Bolzano oggi per un incontro organizzato dal Centro per la Pace del Comune di Bolzano che sarà ospitato dalla Libera Università (ore 18, aula D1.02, primo piano, ingresso libero e gratuito). Boff parlerà sul tema “Papa Francesco, il Concilio e la chiesa dei poveri” e dedicherà grande attenzione anche alle tematiche ecologiche e dell’equilibrio globale, senza trascurare il tema attualissimo della possibile nuova guerra in Siria. Nel corso dell’incontro verrà anche presentata la Fondazione Val di Seren del Grappa, che si propone di promuovere lo sviluppo e la rinascita della zona da cui è originaria la famiglia di Leonardo Boff, nel Bellunese. Abbiamo raggiunto Boff al telefono ed abbiamo anticipato con lui alcuni dei temi che saranno oggetto di discussione nell’incontro odierno.

Si è appena conclusa la veglia giornata mondiale di digiuno e preghiera per la pace promossa da papa Francesco. Lei cosa ne pensa della situazione in Siria e dell’iniziativa del papa?

Papa Francesco è nella linea del papa Giovanni XXIII. È molto interessato alle questioni della pace perché sa che tutte le guerre sono perverse. Non c’è guerra giusta né guerra santa che tenga: sono tutte da evitare perché producono morte. E in questo senso io penso che l’impegno del papa abbia avuto un respiro mondiale. Peccato che proprio negli Stati Uniti la reazione non sia stata così forte. Ad ogni modo penso che la voce del papa, etica e spirituale, si sia fatta ascoltare ed abbia dato da pensare a coloro che vogliono sempre usare mezzi violenti, economici o militari, per risolvere i problemi umani.

Nel marzo 2013 nel giro di pochi giorni la chiesa cattolica ha dovuto affrontare due rivoluzioni: il pensionamento di un vecchio papa e l’arrivo di un nuovo papa che fin dai primi minuti ha lanciato segnali di grandissimo cambiamento. Cosa vuol dire, per la chiesa cattolica, avere un papa latinoamericano che si chiama Francesco?

Il nome Francesco è molto più di un nome. È un progetto di chiesa e un progetto di mondo. Significa una chiesa più vicina al popolo, con un papa pastore piuttosto che un papa dottore. Una chiesa aperta al dialogo con tutti e aperta al servizio, senza riserve e senza critiche nei confronti del mondo moderno e postmoderno. Dove ci sono persone il papa è aperto al dialogo con loro: lo ha mostrato adesso quando è stato in Brasile, ma in realtà in tutta la sua vita. Poi prima di occuparsi della riforma della curia si è impegnato in quella del papato. Abbiamo infatti ancora un papato monarchico, in cui i cardinali sono principi. Lui allora ha deciso di presentarsi come vescovo di Roma, abbandonando tutti i simboli del potere per essere un fratello fra altri fratelli e presiedere la chiesa non con il diritto canonico, ma nella carità, nella convivenza e nel dialogo. Per me è una vera rivoluzione, una prima. vera dopo un rigoroso inverno. Questo papa è una speranza per la chiesa e per tanti uomini nel mondo che cercano cammini di pace e di incontro per affrontare i grandi problemi che sono vere minacce per il sistema vita e terra.

Lei ha conosciuto bene Josef Ratzinger. Cosa ne pensa invece del suo pontificato?

Ha proseguito sulla via di Giovanni Paolo II, ma senza averne il carisma. Ratzinger si è presentato piuttosto come un professore, uno della dottrina, e meno come un pastore. Ha rinforzato la chiesa all’interno ma che aveva in qualche modo paura di avvicinarsi al mondo moderno perché lo vedeva come troppo relativista e secolarizzato. La chiesa non ha la facoltà di scegliere il mondo in cui opera; deve invece accettare la realtà per quello che è e trovarvi il suo posto, un posto di evangelizzazione e dialogo. Papa Benedetto comunque ha fatto un gesto di grande umiltà riconoscendo i suo limiti fisici, psicologici e anche spirituali nell’affrontare i problemi della chiesa.

Il Brasile è diventata una delle economie trainanti a livello globale. Ma a che punto si trova la sua contemporanea lotta alle diseguaglianze sociali?

Una delle cose più importanti realizzata da Lula è stata proprio la riduzione delle disuguaglianze. Nei suoi 8 anni da presidente sono diminuite del 17%: è riuscito a reintegrare nella società 40 milioni di poveri che ora possono vivere con un minimo di dignità ed indipendenza. Sulla stessa linea si muove anche la nuova presidenta Dilma Yussef, che ha avviato progetto intitolato “Brasil carinhoso” che in due anni è riuscito a recuperare altri 2 milioni di miserabili.

Questa di diminuire le diseguaglianze è una scommessa di tutto lo stato, non solo del governo, e comporta anche la fondamentale conseguenza di rafforzare al democrazia rappresentativa rendendola più partecipata, includendo sempre più cittadini nelle decisioni che si prendono nel paese.

Cinque anni fa lei in occasione della sua precedente visita a Bolzano parlò sul tema “che ne sarà di nostra sorella madre terra?”. Lei non ha smesso di occuparsi di ecologia e di salvaguardia del pianeta. In questi 5 anni abbiamo fatto dei passi in avanti?

Purtroppo no: la situazione globale della terra è invece molto peggiorata. E il peggioramento ha riguardato 13 parametri su 15 di quelli indicati dall’Onu.

Non abbiamo fatto praticamente niente per diminuire il riscaldamento globale e le sue conseguenze. Le minacce che pesano sulla terra sono più gravi di prima e se non viene attuata una politica globale per riequilibrare il clima della terra andremo inevitabilmente incontro a una grave crisi ecologica.

Lei è in Italia anche per visitare la terra d’origine dei suoi antenati. Qual è il suo rapporto con l’Italia?

È un rapporto familiare: sentiamo l’Italia come una nostra seconda patria. In casa nostra abbiamo parlato in dialetto veneto e quindi andare a Seren del Grappa per noi è un po’ un tornare alle radici. Lì tutto è impregnato dello spirito di coloro che sono emigrati, troviamo delle tracce, e noi che andiamo in quei posti è come se entrassimo di nuovo in contatto con coloro che hanno avviato l’avventura americana della nostra famiglia. .




papa Francesco incontrerà Gutierrez

 

cardinale

Papa Francesco incontrerà Gutierrez
e presto Oscar Romero sarà Beato

L’annuncio all’incontro nella basilica di Santa Barbara con il padre della teologia della liberazione A darlo il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Müller, che visse con lui nelle favela

 

 

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A Mantova ieri è successo qualcosa di straordinario per la vita della Chiesa, e la basilica di Santa Barbara ha ospitato quello che si potrebbe chiamare “l’annuncio”: papa Bergoglio incontrerà tra pochi giorni Gustavo Gutierrez, il padre della teologia della liberazione, e in tempi brevi Oscar Romero, il vescovo assassinato sull’altare in Salvador, diventerà beato. A confermare queste due notizie, che pesano molto per la Chiesa cattolica, è stato l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, quello che tavolta si chiama ancora ex Sant’Uffizio. Accanto a lui, tedesco di 66 anni, l’atteso Gutierrez, 83 anni, piccolo, dall’enigmatico viso peruviano, che parlando si scioglieva in sorrisi dolcissimi e guizzi di passione e di speranza. Che i due fossero amici, in ambienti ristretti si sapeva, ma quando l’anno scorso papa Benedetto XVI lo nominò al vertice dell’istituzione che vigila sulle posizioni teologiche nella Chiesa, l’annuncio fu commentato soltanto ricordando che il professore di teologia dogmatica a Monaco di Baviera era «amico di Ratzinger». In realtà, dentro di lui, era sempre rimasto vivo il germoglio che Gutierrez aveva seminato nel giovane sacerdote che lo aveva raggiunto a Lima, e che lui aveva messo a contatto con i poveri che vivono nelle favelas e con i campesinos, di cui per periodi ricorrenti condivise così la dura vita, dormendo nelle stesse capanne. Evidentemente Ratzinger, che ai tempi del Concilio Vaticano II si era prima avvicinato e poi allontanato dal mondo dei teologi più innovativi, e a suo tempo aveva di fatto condannato la teologia della liberazione di Gutierrez, forse ha deciso era arrivato il tempo di un uomo, come Müller, che aveva assorbito da lui e dal domenicano di Lima.

Ora c’è papa Francesco, sudamericano, gesuita che ha immediatamente parlato di poveri, ma sul quale il giudizio è rimasto come sospeso in attesa di capire. E tanti suoi gesti, dal viaggio a Lampedusa, alle parole pronunciate a Rio de Janeiro, all’ultima forte posizione per costruire la pace e non la guerra in Siria aprono un nuovo orizzonte. «Ho letto 6 tomi riguardanti Oscar Romero – ha detto Müller – e alla fine la Congregazione per la dottrina della fede ha dato il suo nihil obstat». Ciò significa che il vescovo ucciso perché difendeva poveri e sfruttati sarà santo. «Per il popolo in America latina – ha commentato Gutierrez – Romero era già santo, ma è molto importante e pieno di significato che lo diventi per la Chiesa».

L’incontro, coordinato dal francescano e giornalista Ugo Sartorio (ex direttore del Messaggero di Sant’Antonio) dopo il saluto di papa Francesco al pubblico del Festivaletteratura, riunito in santa Barbara, portato da Müller, è iniziato con un suo lungo e complesso discorso teologico in perfetto italiano. Alla fine è risuonato chiaro un concetto: «Cristo è morto in croce per salvare l’umanità» e c’è «un’opzione preferenziale per i poveri». Da qui è iniziato l’intervento di Gutierrez. La povertà è una condizione inumana, per mancanza economica – ha detto – ma anche culturale, sociale, perché donne, e ha citato il «Dio dei poveri, dei sofferenti», che non si vuole certo portare al consumismo o al comunismo, al presunto paradiso in terra, ma liberare dalla schiavitù. La politica deve servire la gente, ma «il Vangelo è l’unica strada per la vera liberazione dell’uomo». E il riscatto dei poveri deve far ascoltare la voce dei poveri.

La teologia della liberazione fu accusata di sostenere il marxismo in America Latina, ma qui ha avuto gioco facile Müller a concordare con Gutierrez che non è così, e che oggi nessuno considera rivoluzionaria la sociologia perché segnala quanto reddito va a pochi e quanto poco a tanti. «La sociologia no nè marxista». «Dopo la caduta del Muro, il capitalismo ha vinto il comunismo». E Sartorio ha ricordato che in novembre Müller aveva detto che «il capitalismo neoliberale è la vergogna del nostro tempo». «Papa Francesco mi ha detto: già, tu sei della teologia della liberazione». Di certo Müller e Gutierrez insieme hanno ora pubblicato “Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa” (ed. San Paolo-Emi).