ancora sulla campagna razzista scatenata contro i rom

occhi azzurri

così, dopo la campagna antizingara  scatenata in riferimento al caso ‘bimba bionda’ il rom inglese diciottenne, Filip Borev, blogger, sul Gardian:

Sono nato con gli occhi azzurri e bianco come una bottiglia di latte. Da quel giorno in famiglia tutti hanno iniziato a scherzare dicendo che mi avevano rubato. Nella situazione attuale mi chiedo quanto sia ancora divertente la battuta», scrive Filip Borev sul Guardian. Diciotto anni,  blogger, inglese, Borev è anche un romanì (parola che indica coloro che con un termine dispregiativo vengono chiamati «zingari»): discendente per parte di madre da rom bulgari e romanì inglesi e per parte di padre di romanì inglesi e pavee, cioè gli «Irish travellers» diffusi in Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Borev racconta che i suo fratelli avevano invece la carnagione olivastra: «Nella mia famiglia Rom non avrei potuto attirare di più l’attenzione; per fortuna adesso posso passare le battuta sul “bambino rubato” a mio fratello minore, che è nato con degli impressionanti capelli biondi», si consola.

Il giovane blogger inglese (o si dovrebbe definire romanì?) aggiunge poi una considerazione: «Se si dovesse fare una lista delle ragioni per cui un bambino debba essere preso in carico ai servizi sociali, l’essere biondo di certo non sarebbe tra questi».

Eppure è successo ben due volte nell’ultima settimana: prima in Grecia e poi in Irlanda (a dimostrazione di come le paure siano contagiose). In un caso è venuto fuori che la bimba in questione, Maria, non era figlia della coppia di rom, pelle olivastra e capelli scuri, che la stavano allevando come tale. Ma era figlia di rom altrettanto scuri e olivastri, con una progenie però di pargoli biondissimi o rossi, che sembrano usciti da un documentario sulla musica celtica. Mentre nel secondo caso  la piccola, 7 anni (la sua foto non è mai stata pubblicata), è risultata al 100% sangue del sangue dei genitori bruni. E dopo aver passato alcune notti in mano ai servizi sociali di Dublino è potuta tornare con loro. A «rapirla», se di rapimento si vuole parlare, erano state le autorità irlandesi.

La vicenda greca intanto, con le sue immagini di bambini biondi in mano a genitori bruni, ha fatto molta impressione da un capo all’altro dell’Europa. Testimonia soprattutto della nostra incapacità di pensare fuori dai pregiudizi «razziali», sintomo forse di un sostrato razzista di cui neppure noi siamo consapevoli.

I figli biondissimi o rossi di persone con carnagione  occhi e capelli scuri devono il loro aspetto a geni recessivi che si incontrano fortunosamente nel ciclo delle generazioni e poi riemergono nei loro tratti insoliti. «Anche se può sembrarci che gli svedesi siano tutti biondi e i rom tutti scuri (e magari i genovesi tutti tirchi), non è così. Lo si pensava nell’Ottocento, quando era molto forte il paradigma razziale. Ma oggi sappiamo bene che le popolazioni umane sono molto variabili, sia nell’aspetto fisico che nel loro Dna, e comprendono persone dall’aspetto diverso, e a volte molto diverso. Una bambina rom bionda è insolita, ma non più di uno svedese bruno come Ingemar Stenmark», ammonisce Guido Barbujani, genetista dell’università di Ferrara e autore di L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana (Bompiani).

Eppure se quella bimba apparsa su tutti i siti e giornali non fosse stata così bionda, quasi l’immagine ideale della bambola che tutte le bambine hanno tenuto in braccio,  ci avrebbe colpito meno. Il punto non è che scambiarsi i figli, anche se mossi da condizioni di disperata povertà, è giustamente illegale in Europa (il padre e la madre biologici della bimba, due bulgari, hanno raccontato di averla ceduta perché non potevano mantenerla). Il punto non è neppure che, sempre in Europa, i romanì vivono nelle favelas  e difficilmente accedono a sevizi sociali basilari che possono alleviare quella povertà, fossero solo le case popolari.

Il punto è che quelle immagini di genitori e figli con i tratti somatici così «dissonanti» hanno risvegliato di colpo pregiudizi radicati che di solito ci concediamo il privilegio di ignorare. Il più caparbio è quello della «zingara rapitrice». Lo conoscono tutti e si riassume in una frase: «Le zingare rubano i bambini» – e poi una sfilza di spiegazioni pseudo-razionali (“Li usano per chiedere l’elemosina», «Per loro sono il valore più grande», etc etc).

Non è vero. In un libro documentatissimo (La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze, Roma, Cisu, 2008, 144 pp.), Sabrina Tosi Cambini è andata a verificare ogni singolo caso di presunto rapimento imputato a persone rom e sinte in Italia tra il 1985 e il 2007: nessuno è stato accertato. Gli unici «rapimenti» sono quelli in cui romanì vanno a riprendersi i figli affidati ai servizi sociali (cosa illegale e deprecabile, ma ben diversa dall’andare a rubare i figli altrui)

Tosi Cambini racconta come i casi riportati dalla cronaca abbiano tutti le stesse caratteristiche: le protagoniste sono sempre donne; la madre, o una parente stretta del bimbo, accusa una donna romanì di aver voluto rapire il piccolo e sostiene di averlo impedito; di solito il fatto avviene in luogo affollato, ma senza testimoni e senza che nessuno aiuti la mamma (o parente del minore). Secondo Tosi Cambini – che si affida alle ricerche psicologiche sulla percezione –  questi «fatti»si assomigliano tutti perché  sono il frutto di eventi travisati a causa delle nostre aspettative su quello che zingare fanno («rubare i bambini»). Il pregiudizio diventa il filtro attraverso il quale apprendiamo la realtà.

Anche Filip Borev, sul Guardian, ci ricorda che «quello della zingara ruba-bambini è un vecchio stereotipo razzista» e infatti ai tempi d’oro dell’antisemitismo si diceva anche degli ebrei. Forse il caso della bambina bionda trovata in Grecia può insegnarci che di pregiudizi ne abbiamo ancora molti, ed è il caso di abbandonarli.

una campagna internazionale contro i rom

bimba bionda
Dunque anche Maria, la bimba bionda la foto della quale ha fatto il giro d’Europa, non era stata rapita. Semplicemente le persone che si occupavano di lei non erano degne di essere credute, in quanto Rom.

I suoi genitori biologici, Sasha e Atanas Roussev, Rom bulgari, erano troppo poveri per mantenerla e l’avevano affidata alla coppia residente in Grecia alla quale Maria era stata sottratta. Questi l’avevano detto fin dall’inizio ma non erano stati creduti. Troppo poveri i genitori di Maria, così poveri da non poter tenere neanche i figli. Ovvero sottoproletari il babbo e la mamma di quella bimba bionda che per i media razzisti -in quanto bionda- doveva essere una principessina sottratta a chissà quale castello di fate. Fosse stata bruna non se ne sarebbero mai curati, anche se le persone che la tenevano fossero state vichinghe.

Dunque una volta di più (ricordo sempre il libro della Caritas “la zingara rapitrice”) non c’è stato né sequestro né compravendita di bambini, solo troppo disagio, forme di vita troppo arcaiche e inaccettabili per noi che ci sentiamo così civili. Ma basta guardarsi indietro e solo due o tre generazioni fa l’Italia e l’Europa erano pieni di figli di genitori troppo poveri per tenerli, affidati a terzi quando andava bene, abbandonati negli altri casi. Ne abbiamo cancellato perfino la memoria e con questa l’umanità, la capacità di capire l’universo povertà.

Oggi non ci piace come vivono i poveri, non ci piacciono i proletari, ci fanno schifo i lumpen, non ci piacciono i Rom. Ma di questo si tratta perché questa è solo una storia di troppa povertà per loro e troppo razzismo e classismo.  Per noi.

Un milione di posti di lavoro … ma per la ‘casta’!

 

Un mondo di portaborse

UN MONDO DI PORTABORSE CONSULENTI, ADDETTI STAMPA, COLLABORATORI. DAI MINISTERI ALLE REGIONI FIN DENTRO I COMUNI UN PAESE NEL PAESE CHE RISPONDE SOLO A CHI NOMINA.

così Salvatore Cannavò su ‘il Fatto quotidiano’ odierno:

Un milione di persone. Nemmeno Max Weber, quando scriveva La politica e la scienza come professioni pensava ci si potesse spingere a tanto. Il grande sociologo tedesco scriveva infatti nel 1919: “Si vive ‘per’ la politica oppure ‘di’ politica”. Chi vive ‘per’ la politica costruisce in senso interiore tutta la propria esistenza intorno ad essa” […] Mentre della politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno”. 

Secondo uno studio della Uil, invece, coloro che cercano “di trarre dalla politica una fonte durevole di guadagno” sono più di un milione: 1.128.722. Un “paese nel paese” ma non nella forma poetica in cui Pier Paolo Pasolini definiva il Pci. Piuttosto “un mondo a sé”, come lo descrive il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy che ha curato la ricerca. La cifra viene ricavata sommando voci tra loro diverse ma tutte legate alla politica: gli eletti e gli incarichi di Parlamento e governo (1.067) quelli nelle Regioni (1.356), nelle Province (3.853) o nei Comuni (137.660). L’incidenza delle cariche elettive sul numero totale non è molto alta, il 12%.

La forza del sottobosco

I numeri si fanno più forti man mano che ci si addentra nel sottobosco: i Cda delle aziende pubbliche ammontano, infatti, a 24.432 persone; si sale a 44.165 per i Collegi dei revisori e i Collegi sindacali delle aziende pubbliche; 38.120 sono quelli che lavorano a “supporto politico” nelle varie assemblee elettive. I numeri fondamentali della ricerca sono riscontrabili nelle due ultime voci, quelle decisive: 390.120 di “Apparato politico” e 487.949 per “Incarichi e consulenze di aziende pubbliche”. “Quest’ultimo dato si basa su numeri certi e verificati” assicura Loy, mentre quello relativo agli “apparati” costituisce una “stima della stessa Uil ma una stima attendibile”. Nella nota metodologica, infatti, il sindacato spiega che i numeri derivano da banche dati ufficiali e da quello “che ruota intorno ai partiti” (comitati elettorali, segreterie partiti, collegi elettorali, “portaborse”, ecc.”. Loy la spiega così: “Ventimila voti di preferenza non sono il risultato solo di un voto ideologico ma espressione di relazioni concrete”. E, in tempi in cui l’ideologia è fortemente in crisi, “si affermano gli interessi e la spinta ad aumentare il proprio tenore di vita, l’affermazione di un sistema economico”.

La politica si fa industria, quindi. E il dato è riscontrabile nei numeri. Si pensi al costo dei CdA dei quasi settemila enti e società pubbliche: si tratta di 2,65 miliardi mentre per “incarichi e consulenze” la cifra è di oltre 1,5 miliardi di euro.

Stiamo parlando di gente che lavora, ovviamente. Alcuni di loro, come i dipendenti di Rifondazione comunista, sono anche finiti in cassa integrazione oppure, come in An, licenziati. “Ma non hanno fatto alcuna selezione pubblica, non hanno seguitonessun merito” commenta Loy, “e vengono pagati con soldi di tutti”. Parliamo di collaborazioni dirette nei vari ministeri, assessorati, consigli elettivi, incarichi elargiti da questo o quel politico di turno. Oltre ai Francesco Belsito, Franco Fiorito, ai diamanti della Lega, alle ricevute di Formigoni o alle consulenze di Alemanno, gli esempi possono essere tutti leciti ma del tutto interiorizzati dalla politica.

I vari ministeri hano speso, nel 2012, oltre 200 milioni per collaborazioni dirette. Tra i dicasteri più attivi, gli Interni, l’Economia e Finanze, la Difesa e la Giustizia. Del ministero diretto da Alfano ci occupiamo a parte. Il Mef dispensa centinia di incarichi nelle società partecipate. Alla Difesa, il ministro dispone di ben 18 collaboratori quanti ne ha quello della Giustizia. Gli incarichi sono quasi tutti di pertinenza politica. Come proprio addetto stampa, ad esempio, il ministro ha la stessa persona che ha lavorato per Pierferdinando Casini dal 2006 al 2013 e prima, ancora, con l’Udc Vietti, attuale videpresidente del Csm. Una “ricollocazione” avvenuta tutta nei rapporti della politica.

Fedeli al ministro

Nell’Ufficio di gabinetto troviamo l’autrice di un libro, Guerra ai cristiani, troppo presto dimenticato e scritto insieme allo stesso Mauro. Più esemplare è il caso del “Consigliere per gli affari delegati, del Sottosegretario di stato alla Difesa On. dott. Gioacchino Alfano”, Nicola Marcurio. L’interessato ha iniziato la carriera politica nel Comune di Sant’Antonio Abate, dove organizzava le iniziative religiose per il Giubileo. Diviene consigliere comunale nel 2000 e di nuovo nel 2005. Poi va a lavorare presso il Commissariato per l’emergenza di Pompei, da lì alla Protezione civile per il G8 dell’Aquila. Finisce al ministero come consigliere di Gioacchino Alfano il quale, guarda caso, è stato sindaco proprio di Sant’Antonio Abate. L’altro sottosegretario, Roberta Pinotti, Pd, tiene nel proprio staff Pier Fausto Recchia, deputato non rieletto alle ultime elezioni e quindi ricollocato. Tra i collaboratori del ministro della Giustizia, Cancellieri, troviamo Roberto Rao, già deputato, non rieletto, e già portavoce di Casini ma anche Luca Spataro, già segretario Pd di Catania. Se un deputato non viene rieletto gli si trova un nuovo incarico. Come a Osvaldo Napoli, pidiellino molto presente in tv, bocciato lo scorso febbraio e oggi vicepresidente dell’Osservatorio Torino-Lione. Moltiplicando questi casi per l’intero numero delle cariche elettive si può avere un’idea del fenomeno. Alla Regione Lazio, il presidente Zingaretti dispone di un ufficio stampa con ben dieci addetti mentre in Lombardia, i consulenti della Regione sono passati, con la gestione Maroni, da 57 a 93, tutti riscontrabili sul sito ufficiale. Per questa voce l’ente regionale spende 2,6 milioni di euro l’anno. L’esercito della politica vive e si autoalimenta così.

Da Il Fatto Quotidiano del 28/10/2013.

Aung San Suu Kyi: “ la mia rivoluzione della gentilezza”

La nobel che ha sconfitto la paura

“Aiutateci a essere liberi” : l’appello di Aung San Suu Kyi la Nobel che ha sconfitto la paura

La pasionaria birmana a Roma: gelati e l’abbraccio con Baggio. Il colloquio.

le riflessioni di Concita de Gregorio:

«Bello. È tutto rimasto intatto». Quarant’anni dopo Aung San Suu Kyi torna ad affacciarsi su Roma di notte. I Fori, il mercato di Traiano. Era una studentessa ad Oxford, allora. Una ragazza. Oggi è premio Nobel per la Pace, vent’anni quasi ininterrotti di arresti domiciliari, le vessazioni e gli attentati di un regime che ha cercato di eliminarla senza riuscire a farlo, senza poterlo fare. La vita che le è scivolata di mano mentre la teneva salda sulla rotta di un’idea, di un compito arrivato in dote dalla famiglia e dalla coscienza e dalla storia, il marito morto lontano senza che potesse salutarlo, i figli bambini e poi ragazzi via da lei altrove. La cupola di San Pietro, a sinistra il Gianicolo. «Mi ricordo i gelati, buonissimi, che compravo per strada. Sono ancora buoni i gelati? ». Sorride. Le dicono che per anni — durante la prigionia in Birmania — la sua foto, il suo volto è stato uno stendardo sulla facciata del Campidoglio. Sorride più forte, inclinando la testa adorna di rare roselline gialle. Significa grazie. Ma no, dice: «Non ho fatto sacrifici».

«NON ho mai pensato né penso a me stessa come ad una persona che si sia sacrificata. In verità non ho fatto niente di particolare, solo una cosa semplice: ho scelto una strada e l’ho seguita, tutto qui. Il coraggio non c’entra. È stata una decisione». Tranquillissima, elegante nella camicia di seta crema abbottonata fino al collo, diritta come se fosse intelaiata su fil di ferro, gentile. Solo — di unico — quella fermezza nello sguardo, una specie di durezza inflessibile, implacabile, inevitabile. Anche lei intatta, identica alle sue foto di dieci venti trent’anni fa divenute simboli ai quattro angoli del globo: una piccola donna fatta solo di muscoli e ossa, i capelli ancora corvini adornati di fiori che lei stessa intreccia ogni mattina, un’odissea trovare stamani proprio quelle roselline gialle e crema, a Roma. La gonna tradizionale lunga fino ai piedi, color caffè. La pelle tesa, lo sguardo fermo. Non mi sono sacrificata, ho scelto. La cena in suo onore, sulla terrazza del Campidoglio, è l’epilogo della celebrazione in cui il sindaco Ignazio Marino le consegna la cittadinanza onoraria che le fu attribuita da Rutelli, il premio Roma per la pace che le fu assegnato da Veltroni negli anni della sua carcerazione. Tutti presenti, gli ex sindaci, per sovrapprezzo anche Carraro. Tutti sugli scranni tranne Alemanno che non è venuto. C’è Emma Bonino che le è amica, la bacia, oggi la riceve alla Farnesina. C’è Baggio il calciatore che su indicazione di Aung San Suu Kyi ritirò i premi per lei quando lei non poteva e che la incontra ora per la prima volta, emozionatissimo, le da del tu, le consegna i video girati in questi anni e lei chiede, proprio come una fan: ma i suoi gol ci sono? Perché io vorrei vedere i suoi gol. Poi, sembra una ragazzina, si rivolge alle autorità — il rabbino alla sua sinistra, il ministro, i sindaci ed ex sindaci — e dice: quando mi avete assegnato la cittadinanza e il premio ho pensato a Baggio, perché nel mio paese Roberto Baggio è l’italiano più amato fra i giovani, tutti lo conoscono, e io non lo conoscevo ma mi son fatta raccontare da loro, dai giovani, chi fosse e perché lo amassero e così l’ho amato anche io. Si baciano, corre una lacrima, parlano del Dalai Lama. I giovani, le donne. «Il futuro del mio paese, ma forse di tutti i paesi, è soprattutto nelle mani delle donne e dei ragazzi». Parla veloce, dice che i diritti sono ancora molto lontani da venire, che certo la battaglia per i diritti delle donne «è fondamentale, perché le donne hanno nel corpo e nella memoria la forza delle cose, ma anche gli uomini, anche degli uomini abbiamo a cuore i diritti, e vogliamo che sappiano che quando avremo conquistato i nostri saremo gentili con loro, non devono avere paura di noi». Sorride ancora di quel sorriso antico dovuto e inflessibile. Dice che ogni gesto è importante, «ogni persona, ogni singolo gesto di ogni singola persona, anche quello minuscolo come un granello di sabbia». Adesso il suo lavoro è per cambiare la Costituzione, in Birmania. «La costituzione più difficile al mondo da cambiare, ci vorrà il voto anche dei militari, ma con la consapevolezza dell’opinione pubblica e con la pressione del mondo intero ce la faremo. Usate la vostra libertà che è immensa per aiutare la nostra, che è giovane e fragile». Poi dice una cosa enorme, che parla davvero a ciascuno di noi, noi che godiamo di una libertà immensa. Dice «lottare contro la paura e l’odio non basta, bisogna comprendere le ragioni di chi odia e di chi ha paura. Nessuno può giudicare nessun altro con superiorità. Nessuno può dubitare della dignità delle idee diverse dalla propria. Bisogna ascoltarle, capirle, discuterle. Bisogna lavorare insieme per una meta comune, non contro qualcuno per imporre una visione propria». A Ignazio Marino ha portato in dono una piccola scatola d’argento che custodisce incensi e oli profumati. Per strada, lungo la visita ai Fori, si ferma a respirare il profumo di tre rose. Si avvicina a Baggio per vedere dappresso la luce del suo orecchino, vorrebbe toccarlo. Al rabbino che cena con un suo diverso menù chiede di assaggiare dal piatto le pietanze. Le piccolissime cose, come un filo di acciaio invisibile teso nella storia e nel tempo. Al cospetto di Marco Aurelio un apprezzamento femminile, compiaciuto: «È più bello di Costantino, effettivamente». Ma è un attimo. Ancora nei Musei riprende la perorazione per la causa del policlinico di Rangoon, l’ospedale più importante del suo paese. «Vorrei che mandaste medici, giovani ricercatori, vorrei che ci aiutaste a farlo crescere». Marino, medico prima che sindaco, si impegna in pubblico. Qualcuno, sulla terrazza, le chiede cosa sia cambiato col Nobel. «Per me personalmente non saprei dirlo, né d’altra parte credo sia rilevante. Di me, della mia persona, cosa può importare? Cambia il senso che si dà alla libertà, al diritto di avere diritti, alla storia dei popoli». E di suo padre, oppositore al regime ucciso quando lei aveva due anni, sente di portare l’eredità? «Non sento il peso del passato, sento quello del futuro. Mio padre è mio padre, ma è del mio popolo che sento di essere figlia. Della mia gente. È per loro che sono qui a Roma oggi, cittadina romana cioè del mondo intero. Per chi verrà, per i neonati di Rangoon e delle mie campagne. Per chi ha la vita davanti, non per chi è già stato».

Da La Repubblica del 28/10/2013.

dopo il caso ‘bimba bionda’ c’è chi chiede il censimento dei campi rom

Immagine articolo - Il sito d'Italia

Dopo il caso della piccola Maria, la bambina bionda dagli occhi azzurri ritrovata durante un controllo di routine in un accampamento di nomadi presso la città di Farsala, in Grecia, Claudio Morganti, europarlamentare indipendente nonché vicepresidente dell’Intregruppo sulla disabilità, chiede che venga fatto «un censimento di tutti i campi rom europei e il test del DNA dei bimbi presenti.

L’Ue – dichiara Morganti – continua a ribadire che circa 10-12 milioni di rom sono bersaglio di pregiudizi, di discriminazioni e vengono esclusi dalla società. Tali posizioni dimostrano la lontananza dell’Unione Europea verso questa comunità, che sceglie volutamente di vivere da nomade e che non ha intenzione di integrarsi nella nostra società».

 

In particolare, l’europarlamentare si sofferma sui fondi stanziati dall’Unione Europea. «Tra il 2007 e il 2013 – sottolinea Morganti – sono stati stanziati per le comunità rom 127milioni. Non solo, ma l’Ue – prosegue – nel suo programma 20/20 obbliga di utilizzare parte del fondo sociale europeo e del fondo di sviluppo regionale per l’integrazione dei rom. Questi fondi – spiega – originariamente dovevano essere destinati esclusivamente alle persone disagiate e in difficoltà, come i disabili. Nulla di tutto questo è successo.

Non possiamo restare ancora in una Unione Europea che pensa prima ai rom, anziché ai nostri disabili e alla nostra gente. Vedere, inoltre, realizzare progetti per l’integrazione sociale e lavorativa dei rom, come quello successo a Lamezia Terme dove sono stati stanziati 1.7milioni dall’Ue e 1.2milioni dall’Italia. Tutto questo è uno schiaffo verso quei sei milioni di persone che in Italia non hanno un lavoro oppure verso quei pensionati che, a causa della loro esigua pensione, sono costretti a chiedere carità o a rovistare nei cassonetti. La verità – termina – è che il nostro Governo rimane sordo davanti ai problemi reali della nostra gente e delle persone con disabilità».

in tilt i tradizionalisti a proposito di papa Francesco

 

 Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

La “conversione” dei tradizionalisti a proposito della figura di papa Francesco

di Sergio Paronetto*
in “Adista” – Segni Nuovi -n. 32 del 2 novembre 2013

Il Foglio di Giuliano Ferrara, già organo degli “atei devoti”, diventato ora l’avanguardia del movimento anti-Francesco, si sta muovendo in tre direzioni: dare spazio agli attacchi frontali del mondo cattolico più reazionario e anticonciliare verso un papa ritenuto traditore della dottrina cattolica; raccogliere ogni forma di contrarierà, compresa quella giudicata “ultra liberal”, un tempo considerata cattiva maestra ma ora utile per evidenziare le contraddizioni dell’attuale pontificato; minimizzare il “disagio”, come scrive Massimo Introvigne, e mediare per evitare i rischi di uno scisma. Lo scopo complessivo è quello di mettere in risalto l’inaffidabilità di un papa pericoloso per l’unità della Chiesa. Il giornale più papista diventa apertamente antipapista. Chi ha fatto per anni apologia (ideologica) di papa Ratzinger a sostegno di Berlusconi, di Bush e della superiorità dell’“Occidente”, ora denuncia papa Bergoglio avvertito come scomodo innovatore troppo francescano o, semplicemente, troppo cristiano (la seria riflessione di Andrea Monda del 9 ottobre, collocata all’interno, appare un’ardita eccezione, vista «la teologia da strapazzo» che il giornale, come osserva Eugenio Scalfari su la Repubblica del 13 ottobre, sta sostenendo). Il 9 ottobre viene concessa grande evidenza al lungo intervento, “Questo Papa non ci piace”, firmato da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, presentati come «espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico». Il loro ragionamento attacca, in ordine: l’«imponente esibizione di povertà» nella visita ad Assisi; il dialogo con Scalfari e con i non credenti fondato sulla centralità della coscienza; la rottura di tutta la tradizione ecclesiastica; la dichiarazione della irreversibilità del Concilio; la vicinanza all’amico gesuita Carlo Maria Martini; la deformazione del Vangelo sottomesso al «mondo»; le espressioni «io credo in Dio, non in un Dio cattolico», «il proselitismo è una solenne sciocchezza», «la Chiesa ospedale da campo», «i poveri sono la carne di Cristo»; l’insistenza sulla misericordia e sul perdono. Inutile parlare di contesto da interpretare, dicono: «L’errore, quando c’è, si riconosce ad occhio nudo», «i sei mesi di papa Francesco hanno cambiato un’epoca». Sono stati «un campionario di relativismo». Costituiscono «un’inversione di rotta». Siamo al «rovesciamento del passato». Il papa si è fatto complice del gioco mediatico tendente a esaltare episodi marginali ma cari alle folle. Viene scomodato anche Mc Luhan che nel 1969 ha definito i mass media «facsimile del Corpo mistico, assordante manifestazione dell’anticristo». In estrema sintesi, papa Francesco è gesuitico, sconcertante, inquietante, relativista, modernista, permissivo, amorale, populista, pauperista, esibizionista, seminatore di dubbi, anticristiano. Ancora più dura la posizione di Mattia Rossi (Il Foglio, 11 ottobre) intitolata “Francesco sta fondando una nuova religione opposta al Magistero cattolico”. Il papa starebbe dissolvendo la dottrina cattolica attraverso un «erosivo magistero liquido», un «antropocentrismo spinto» (più grave di quello espresso nel n. 22 della Gaudium et spes), sentimenti umanitaristi che «rasentano fortemente l’eresia» e negano il valore redentivo dell’incarnazione. Le sue parole, con il loro «stillicidio disgregante», si basano su «un inganno molto sottile e intollerabile per un cattolico». Da parte mia, tre opinioni. Osservo, anzitutto, che i tradizionalisti (che preferisco chiamare reazionari perché la tradizione è una cosa seria), da sempre cultori del primato assoluto di Pietro e infallibilisti a tutto campo, diventano subito relativisti rispetto a gesti e parole che non condividono e che valutano come pareri slegati da alcun magistero. Vedo, poi, che denunciano la presunta falsa umiltà del papa proponendosi con molta presunzione come possessori della verità cattolica, come inquisitori di un papa ritenuto deviato. Noto, in terzo luogo, un’altra contraddizione: proprio chi intende la verità in modo dottrinario e immutabile, a sostegno di una politica reazionaria e di un modello di sviluppo ritenuto altrettanto immutabile o naturale, dominato dal “dio denaro”, predica una fede alternativa al mondo cattivo-peccatore. In questa ideologia sadomasochista, tipica di “un cristianismo senza Cristo”, sta forse il nucleo dell’attacco al papa. Probabilmente, ciò che dà fastidio
è la denuncia del mondo ingiusto, dell’«idolatria del denaro», della «cultura dello scarto», della follia delle guerre. Ciò che disturba è la centralità di Cristo, l’invito alla spoliazione, «l’amore ai poveri e l’imitazione di Cristo povero». Un’esagerazione demagogica per i tradizionalisti. Un’ardua sfida per tutti, anche per i “progressisti”, come osserva Vito Mancuso nell’intervento sulla necessità di una fondazione etica del bene e della giustizia grazie all’esercizio di un “pensiero femminile” (la Repubblica,  4 ottobre 2013). Certo, le tematiche sollevate sono difficili, esposte alla verifica di un’avventura comune, ma una cosa è la critica argomentata, altra cosa è l’ipercritica pregiudiziale e ideologizzata. È sempre improprio definire il papa secondo categorie fisse di conservazione, tradizione, progresso, riforma, rottura, rivoluzione o altro. Non è nemmeno necessario. Siamo dentro un evento da curare e accompagnare con lucida attiva responsabilità. Siamo forse davanti a un’innovazione basata sull’interconnessione nonviolenta tra mezzi e fine. Il cambiamento di stile, infatti, è parte integrante della verità che è sempre “relazionale”. I cattolici sono convocati a una rigenerazione, a un rinnovato cammino di fede. Ne sono conferma la grande veglia per la pace del 7 settembre, iniziata con la “benedizione originaria” sul creato e sull’umanità («Dio vide che era cosa buona») e il progetto di spoliazione presentato ad Assisi con le parole di Matteo 11,25: «Ti rendo lode, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli». Ha inizio la rivoluzione dei piccoli? In ogni caso, le Beatitudini e il capitolo 25 del Vangelo di Matteo (“il protocollo con il quale saremo giudicati”) costituiscono per il papa “il piano d’azione” dei credenti (discorso ai giovani argentini in Brasile). I detrattori più aspri di papa Francesco mi fanno venire in mente l’auspicio di Tonino Bello, rivolto in forma orante a Oscar Romero, a liberare il mondo da tutti «gli aspiranti al ruolo di Dio».
* Vicepresidente nazionale di Pax Christi

tragedia lavoro

Allarme lavoro:

6 milioni  a casa disoccupati e sfiduciati

Le persone potenzialmente impiegabili nel processo produttivo sono oltre 6 milioni, se ai 3,07 milioni di disoccupati si sommano i 2,99 milioni di persone che non cercano ma sono disponibili a lavorare (gli scoraggiati sono tra questi), oppure cercano lavoro ma non sono subito disponibili. E’ questa la fotografia scattata dall’Istat nelle tabelle sul II trimestre 2013.

Nel secondo trimestre 2013 – secondo la tabella sulle ‘forze lavoro potenziali’ – c’erano 2.899.000 persone tra i 15 e i 74 anni che pur non cercando attivamente lavoro sarebbero state disponibili a lavorare (con una percentuale dell’11,4% più che tripla rispetto alla media europea pari al 3,6% nel secondo trimestre 2013). A queste si aggiungono circa 99.000 persone che pur cercando non erano disponibili immediatamente a lavorare.

Nel primo gruppo, ovvero gli inattivi che non cercano pur essendo disponibili a lavorare, ci sono quasi 1,3 milioni di persone ‘scoraggiate’, ovvero che non si sono attivate nella ricerca di un lavoro pensando di non poter trovare impiego.

Trovare un lavoro resta una chimera soprattutto al Sud e tra i giovani: su 3.075.000 disoccupati segnati nel secondo trimestre 2013 quasi la metà sono al Sud (1.458.000) mentre oltre la metà sono giovani (1.538.000 tra i 15 e i 34 anni, 935.000 se si considera la fascia 25-34 anni). Se si guarda alle forze lavoro potenziali il Sud fa la parte del leone con 1.888.000 persone sui 2.998.000 inattivi potenzialmente occupabili.

Se si guarda alla fascia dei più giovani sono potenzialmente occupabili nel complesso (ma inattivi) 538.000 persone tra i 15 e i 24 anni e 720.000 tra i 25 e i 34 anni con una grandissima prevalenza di coloro che non cercano pur essendo disponibili a lavorare. L’Istat infine individua nell’area della ”sotto-occupazione” nel secondo trimestre 2013 circa 650.000 persone mentre oltre 2,5 milioni di persone sono occupati con un ‘part time involontario’, in crescita di oltre 200.000 unita’ rispetto allo stesso periodo del 2012.

“rom ‘biondo’ di carnagione chiara”: parla un rohttp://www.padreluciano.it/wp-admin/plugins.phpm abruzzase dopo il caso della ‘bimba bionda’

bimba bionda

si è fatto un gran parlare nei giorni scorsi a proposito del ‘caso’ della ‘bimba bionda’ non figlia ‘biologica’ dei ‘genitori’ subito definiti ‘rapinatori’, soprattutto un gran sparlare conseguente ad assoluta non conoscenza della realtà rom e soprattutto a quasi compiaciuta ripetitività dei peggiori pregiudizi che ogni volta infangano in modo sempre più irrecuperabile l’immagine del popolo rom, anche dopo le prevedibili, rituali e scontate correzioni di tiro dei mezzi di comunicazione a breve distanza temporale dal lancio di notizie incontrollate.

di seguito le parole di un rom abruzzese, Nazzareno Guarnieri, che si autodefinisce ‘rom di carnagione chiara’, gestore del sito: www.fondazioneromani.it e lui stesso testimone, all’interno della sua stessa famiglia, di qualcosa di simile a quanto vissuto dalla ‘bimba bionda’

Rom “”biondo” di carnagione chiara

Una bambina rom “BIONDA”, di carnagione chiara, è la protagonista del claim della campagna contro il pregiudizio della Fondazione romanì Italia.  (link: http://www.fondazioneromani.it/it/campagna­3r ).
Nelle ultime settimane è scattata la caccia ai bambini rom “biondi” e “carnagione chiara”, presunte vittime di rapimento da parte di famiglie rom. Il pregiudizio falso più antico del mondo  negli ultimi giorni ha ripreso quota: i rom rubano i bambini.
Nelle ultime settimane in tutto il mondo si è parlato di una bambina “bionda” rubata da una famiglia rom in Grecia e l’esame del dna ha accertato che NON erano i genitori biologici. Subito è scattata la psicosi dei bambini “biondi” che non possono essere rom.
In Irlanda la polizia ha individuato la presenza di una bambina rom “bionda” in una famiglia rom, è scattato il pregiudiziale allarme, l’esame del dna ha accertato che la bambina era figlia naturale della coppia rom.
La notizia greca della bambina bionda rubata da una coppia rom ha fatto il giro del mondo e dopo qualche giorno la polizia greca, con una ricerca internazionale, ha trovato i genitori naturali, si tratta di un’altra famiglia rom.  La coppia di rom greci incriminata per rapimento della bimba ha sempre negato l’accusa, sostenendo che la bambina le era stata affidata volontariamente dalla madre che non poteva prendersi cura di lei, e che la richiesta di registrazione presso il comune greco era stata rifiutata.
Chi conosce la realtà rom scopre che a volte,  per diverse motivazioni,  un  bambino  rom    di una determinata famiglia ROM, vive consensualmente e stabilmente in un’altra famiglia ROM, NON per un questione di interessi, ma solo ed esclusivamente per una questione affettiva.
Non è possibile in poche righe spiegare ed illustrare questo dato che sarebbe importante conoscere.   Non è un caso che la Fondazione romanì Italia nell’azione di sistema TRE ERRE abbiamo costruito il progetto ADOZIONE IN VICINANZA, che sarà avviato nell’autunno dell’anno 2014.
Per essere chiaro presento il caso della mia famiglia. Uno dei miei 9 fratelli dopo pochi mesi dalla nascita ha avuto diversi problemi clinici ed è stato costretto alle cure dei sanitari con continui ricoveri in ospedale fino all’età di 4 anni periodo in cui ha iniziato a muovere i primi passi. In tutto questo periodo di malattia mio fratello è stato accudito da due donne rom della mia famiglia allargata che giorno e notte si sono presi cura del suo benessere unitamente ai  miei genitori. Mio fratello con il consenso dei miei genitori ha vissuto con loro per sempre.  I miei genitori non hanno mai abbandonato o venduto il proprio figlio, ma hanno permesso ad altre persone della propria comunità rom di dare ulteriore affetto ed opportunità al proprio figlio. Oggi mio fratello è una persona serena, felice e realizzata.
Le cronache di questi giorni dimostrano quando poco e mal conosciuta sia la realtà romanì a tutti i livelli per l’assenza di una partecipazione attiva e qualificata della popolazione romanì.
Dr. Nazzareno Guarnieri

un papa che ci converte

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anche ‘il Foglio’, dopo articoli tendenti a suscitare preoccupazione per certe espressioni di papa Francesco e per le sue aperture verso chi è lontano o diverso o marginale o impoverito o non credente fino a balenare pericoli di soggettivismo, relativismo, tradimento della tradizione … anche ‘il Foglio’ talvolta è costretto ad ospitare articoli positivi nei confronti del nuovo pontefice. Questo di Costanza Miriano ne è un bel esempio:

 Costanza Miriano

   da Il Foglio

Una si trova con anni di trincea sulle spalle, veterana, piena di stellette in onore al merito di avere difeso Benedetto XVI a spada tratta in riunioni di redazione, cene di amici, raduni di parenti e assemblee condominiali, a volte anche con i passanti; si è letta di notte i suoi libri meravigliosi ma densissimi, lottando eroicamente contro il sonno e contro Nora Ephron che ammiccava dallo scaffale; ha elogiato la coscienza, si è introdotta allo spirito della liturgia, ha sfoderato sant’Agostino per tenere testa al collega colto; ha vegliato e pregato in piazza san Pietro per far sentire tutto l’affetto possibile al vicario di Cristo martire mediatico, e poi, così, a un certo punto, di botto, stanca e piena di cicatrici ma con ancora la scimitarra tra i denti, in un giorno solo, si ritrova senza preavviso pericolosamente circondata da amici.

Ma come? Dove sono finiti quelli che dovevo convincere? Dove sono finiti quelli che insultavano il mite Papa dandogli del nazista, e la Chiesa retrograda e ricca (dir male della Chiesa si porta sempre)? Rivoglio il mio mondo rassicurante, diviso in due, i vicini e i lontani. Certo, si sapeva sempre ben distinguere tra errore ed errante, tra carità e verità, tra amore per il fratello e chiarezza di giudizio, ma insomma uno schema era fatto. Io sto dalla parte della ragione, tu del torto, ma ti voglio bene lo stesso.

Adesso che è questo coro di consensi al Papa? Tutti in visibilio per croci di ferro e scarponi e metropolitane e case semplici. Che nervi la folla osannante. È molto meglio sentirsi tra i pochi che hanno capito. Anzi, meglio ancora sentirsi sulla soglia, sempre a un pelo dall’entrare tra i pochi, i felici (perché anche io come Groucho non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci una come me).

Insomma, che piccolo fastidio all’inizio il coro forse un po’ superficiale di consensi. E insieme che dispiacere scoprire di non provare lo stesso slancio per certi atteggiamenti e parole del Papa, che pure riconoscevo evangelici.

In questa mancata adesione mi sono trovata in compagnia di tanti cattolici, che pure stimo, e di cui condivido le idee. Il loro dissenso ha cominciato ad essere ampio, e anche sostanziale. Di fronte ai dubbi rispettosi e riservati mi si è stretto il cuore, di fronte a certe loro durezze contro il Papa, invece, ho provato un grande disagio soprattutto se ad esprimerle erano miei amici.

Nel tentativo di trovare il bandolo, proverei invece a capovolgere la questione, non solo perché il Catechismo dice che i fedeli devono aderire al successore di Pietro “col religioso ossequio dello spirito” credendo che lui è assistito da Dio, non solo perché un cattolico non si sceglie in cosa credere, si prende il pacchetto completo, ma perché trovo molto più interessante il punto di vista opposto, almeno sul piano spirituale (mentre mi dichiaro ampiamente priva di strumenti e inadeguata a valutare un pontificato dal punto di vista storico, che è probabilmente, legittimamente, l’aspetto che più interessa gli atei devoti e questo giornale).

Se alcune scelte del Papa danno fastidio a molte persone, tra cui diverse che stimo moltissimo, e se a volte anche io, lo ammetto, non ho condiviso lo slancio entusiastico che sembra avere contagiato tutti, mi sembra fondamentale chiedermi il perché. Quando qualcosa ci dà fastidio, può anche succedere che invece il problema siamo noi. Quindi: che problema ho io?

È come quando ai miei figli non torna qualcosa in un compito: la loro primissima ipotesi è sempre che sia il libro ad essere sbagliato, anche se si astengono dall’esprimere la loro intima convinzione, perché la filippica  che si beccherebbero li allontanerebbe dall’unico vero obiettivo della loro dedizione al sapere: la merenda.

Cosa ci dà fastidio, dunque, e perché? Il problema è il nostro?giornata_con_papa_francesco_645

Perché fatico a capire che quando il Papa dice che il bene è una relazione non sta affatto facendo concessioni al relativismo, ma mettendo l’accento sulla carità? Perché dimentico che quando un Papa dice che bisogna obbedire alla coscienza non parla di assecondare pensieri ed emozioni spontanei ma intende certo tendere una mano ai lontani, sapendo che per la nostra dottrina è la coscienza il luogo nel quale “l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi”, (Catechismo della Chiesa Cattolica, niente di meno), e che la coscienza va sempre rettamente formata?

Io credo che a volte mi capiti di dimenticare tutte queste cose fondamentalmente perché una figura di Papa sacrale e lontana permette a noi “vicini” di sentirci un po’ migliori degli altri. A noi piace essere figli di Dio, certo. Significa che siamo di stirpe regale, e lo siamo davvero; ma non ci piace, invece, essere fratelli – siamo tutti figli, ma io un po’ più figlia degli altri – perché dei fratelli vediamo tutti i limiti, le meschinità, le scarpe sporche, la puzza, la goffaggine, l’inadeguatezza. Quello che vediamo ci dà fastidio perché ci ricorda esattamente come siamo noi, è come vedere noi stessi in uno specchio: dei tipi sgangherati. Creature. E creature in cui “il mistero dell’iniquità è in atto”.

Il fatto è che la fede nasce da un incontro, mentre il modo in cui tendiamo a intenderla è piuttosto una religiosità naturale che è segno della nostra immaturità, una religiosità che serve a confermarci e non a convertirci.

Ci sono delle persone che hanno fatto l’incontro che cambia davvero la vita, quello con Gesù Cristo. Loro oltre a sapersi figli amatissimi – sgangherati ma amatissimi – si scoprono anche fratelli, e il male degli altri piano piano cominciano a non vederlo più. È perché non risuona in loro. Non rispondono alle calunnie, non si accorgono degli sgomitamenti e delle cattiverie, sembrano quasi scemi. Ma non è così: è che stando vicino a Gesù, anche per poco, anche a tratti, si vedono tutte le proprie magagne, faticosamente mascherate in pubblico.

La fede è sostanzialmente diffidare di sé, aderire a Gesù Cristo, spegnere il nostro ego cialtrone, chiacchierone e millantatore, e anche la nostra bontà da quattro soldi. Fare spazio a Dio. Quando uno ha incontrato davvero Gesù diventa credibile, e il cristianesimo allora non è più una dottrina ma una somiglianza. È così, solo così che è possibile una vera evangelizzazione: per inseguimento. Lasciarci inseguire per la nostra bellezza, pienezza e ricchezza è esattamente il contrario del proselitismo. Quando i nostri mosci inviti a portare la gente a raduni parrocchiali cadono nel vuoto, è perché non siamo attraenti (quando, peggio, non facciamo da tappo: non lasciamo entrare, ma non lasciamo neanche uscire, come se Gesù fosse nostra proprietà, e la religione qualcosa per giudicare gli altri).

Come è potuto succedere che Gesù, uno che camminava per le strade persino prima del catechismo di san Pio X, convertendo con la sua autorevolezza e innamorando con la sua misericordia, sia stato trasformato in uno schema che giudica chi non ci rientra dentro?foto

È ovvio che sia necessario il Magistero, la Tradizione, cioè la trasmissione del deposito che attraverso i santi e i martiri ci è stato lasciato nei secoli, il Catechismo, il Papa: solo tutto questo ci conferma nella nostra fede e ci garantisce che quello in cui crediamo non è un parto della nostra fantasia, né una nostra proiezione. È anche chiaro che siamo in un momento storico in cui i cristiani sono da soli, chiamati a difendere, insieme a pochi uomini di buona volontà, l’idea stessa di uomo, maschio e femmina, la vita, soprattutto quando è più fragile, alcuni fondamentali dell’umanità tutta che per la prima volta da parecchi secoli sembrano messi in discussione. Perché poi ci sono anche sacerdoti che spendono la loro vita in confessionale, e che costretti a negare l’assoluzione, si sentono chiedere “ma come, non vi siete ancora aggiornati, col nuovo Papa?”, e devono fare un paziente, eroico lavoro per spiegare che  la dottrina non è cambiata di una virgola, né pare in procinto di, visto che le regole che questa Chiesa retrograda insiste a proporre sono perché l’uomo viva.

Ma è altrettanto vero che un rapporto vivo e vero con Gesù ti scomoda in continuazione. È bellissimo, ma è una relazione, e l’unico equilibrio possibile è quello della bicicletta: ci si regge solo in movimento, mentre avere a che fare con delle regole rigide e rassicuranti è sicuramente più facile. Basta fare quello che fa la maggioranza dei cosiddetti credenti: mettiamo al posto di Dio il nostro superIo. In una sorta di sconfinamento nei confronti di Dio, lo mettiamo su quel tasto della nostra coscienza sul quale i genitori quando eravamo piccoli hanno posizionato le regole base, il senso di colpa e della punizione che servono a evitare che i bambini facciano troppi danni, a se stessi e agli altri. L’uomo è anarchico e disordinato, e il superIo che i genitori cercano di costruire serve a mettere ordine. Ma in un rapporto maturo con Dio la dinamica è tutta un’altra, si diventa figli, figli del re, si è davvero, davvero liberi, entra la misericordia e la creatività e lo Spirito Santo, senza la cui forza “nulla è nell’uomo, nulla senza colpa”. Allora, pur da sgangherati, si diventa anche fecondi, padri e madri (non solo biologicamente): se non si è fecondi, come anche tanti credenti, si perde il contatto con la realtà, e la religione diventa un modo per alimentare e confermare le nostre stramberie o nevrosi o chiamiamole come vogliamo.

Signore abbi pietà di me, delle mie fisse. Signore, perdona me e perdona gli altri che sono proprio come me, questa è la preghiera di chi vuole diventare davvero figlio. Tutti i litigi e le polemiche, le riunioni e i convegni e i seminari inutili vengono dal non avere un rapporto personale e diretto con Dio, un rapporto che nasce dall’incontro con Cristo, molto più pericoloso e avvincente dell’incontro con i cattoliconi che tanto mi piacciono. L’amore di Cristo stringe e assedia da ogni parte. Da assediati si sta un po’ scomodi. Ma “occhio non vide né orecchio udì né mai salì in cuore d’uomo quello che Dio tiene preparato per quelli che lo amano”.

Io credo che il Papa voglia ricordarcelo in un modo potentissimo, e che se a volte qualche stonatura – anche lui è una creatura – ci va contropelo non sia poi così importante.

da Il Foglio

cristianesimo uguale vangelo? non sempre, spesso il contrario secondo L. Boff

Boff

La tradizione di Gesù contro la religione cristiana 

Leonardo Boff
Per comprendere adeguatamente il cristianesimo è necessario fare delle distinzioni, accettate dalla maggioranza degli studiosi. Così, è importante distinguere tra il Gesù storico ed il Cristo della fede. Per Gesù storico si intende il predicatore e profeta di Nazareth come esisté realmente sotto Cesare August…o e sotto Erode. Il Cristo della fede è il contenuto della predicazione dei suoi discepoli che lo vedono come il Figlio di Dio ed il Salvatore.
Un’altra distinzione importante che bisogna fare è tra il Regno di Dio e la Chiesa. Regno di Dio è il messaggio originale di Gesù. Significa una rivoluzione assoluta ridefinendo le relazioni degli esseri umani con Dio, figli e figlie, con gli altri, tutti fratelli e sorelle, con la società (centralità dei poveri), e con l’universo, la gestazione di un nuovo cielo ed una nuova terra. La Chiesa è stata possibile poiché Gesù fu respinto e, per quel motivo, non si realizzò il Regno. Si tratta di una costruzione storica che tratta di portare a termine la causa di Gesù nelle differenti culture ed epoche. L’incarnazione dominante è nella cultura occidentale, ma si è incarnato anche nella cultura orientale, nella copta ed ancora in altre.
È anche importante distinguere la Tradizione di Gesù e la religione cristiana. La Tradizione di Gesù si situa in precedenza alla redazione dei Vangeli, benché sia contenuta in essi. I Vangeli furono scritti tra 30 e 60 anni dopo l’esecuzione di Gesù. In quel tempo intermedio si erano organizzate già comunità e chiese, con le loro tensioni, conflitti interni e forme di organizzazione. I Vangeli riflettono e prendono posizione dentro questa situazione. Non pretendono di essere libri storici, bensì libri di edificazione e di diffusione della vita e del messaggio di Gesù, come Salvatore del mondo.
Dentro questo groviglio che significato assume la Tradizione di Gesù? È quel nucleo duro, il contenuto che sta in un guscio di noce e che rappresenta l’intenzione originale e la pratica di Gesù, ipsissima intentio et verbali Jesu, prima delle interpretazioni che  furono fatte. Può riassumersi nei seguenti punti: In primo luogo viene il sogno di Gesù, il Regno di Dio, come una rivoluzione assoluta della storia e dell’universo, proposta conflittuale perché si oppone al regno di Cesare. Dopo, la sua esperienza personale di Dio che egli trasmise ai suoi seguaci: Dio è Padre (Abba), pieno di amore e tenerezza. La sua caratteristica speciale è essere misericordioso, ama gli ingrati e i cattivi (Lucas 6,35). Dopo predica e vive l’amore incondizionato che mette alla stessa altezza  l’amore e Dio. Un altro punto è dare centralità ai poveri e a gli  invisibili. Essi sono i primi destinatari e beneficiari del Regno, non per la loro condizione morale, bensì perché questi sono privati della vita, e questa loro condizione è la porta che li conduce a Dio vivo e che induce Dio a optare per essi. Nel comportamento che assumiamo verso questi, si decide se ereditiamo o no la salvezza (Mt 25 ,46). Un altro punto importante è la comunità. Egli scelse a dodici uomini per vivere con lui; questo numero dodici è simbolico: rappresenta la riunione delle 12 tribù dell’Israele e la riconciliazione di tutti i popoli, fatto Popolo di Dio. Infine, l’uso del potere. Solo Lui legittima quell’uso che è servizio alla comunità ed il portatore di potere deve cercare sempre l’ultimo posto.
Questo insieme di valori e visioni è la Tradizione di Gesù. Come si deduce, non si tratta di un’istituzione, dottrina o disciplina. Quello che Gesù voleva era insegnare a vivere e non creare una nuova religione con parrocchiani come istituzione. La Tradizione di Gesù è un sogno buono, una strada spirituale che può acquisire molte forme e che può avere anche seguaci fuori della cosa religiosa ed ecclesiale.
La Tradizione di Gesù si trasformò durante la storia in una religione, la religione cristiana: un’organizzazione religiosa sotto forma di varie Chiese, specialmente la Chiesa romana-cattolica. Queste si caratterizzano per essere istituzioni con dottrine, discipline, determinazioni etiche, forme rituali di celebrazione e canoni giuridici. La Chiesa cattolica romana in concreto si organizzò intorno alla categoria del potere sacro, sacro potestas, concentrandolo nelle mani di una piccola elite che è la gerarchia con il Papa alla testa, con esclusione dei laici e delle donne. Ella detiene le decisioni ed il monopolio della parola. È gerarchica e creatrice di grandi disuguaglianze. Si identificò illegittimamente con la Tradizione di Gesù.
Questo tipo di traduzione storica coprì di ceneri gran parte dell’originalità e dell’incantesimo della Tradizione di Gesù. Per questo motivo tutte le Chiese stanno in crisi, perché non sono “gioia per tutto il popolo”, come Lc 2,11, lo furono all’inizio.
Gesù stesso, comprendendo questo sviluppo, notò che a poco serve osservare le leggi “e non preoccuparsi della cosa più importante che è la giustizia, la povertà e la fede; questo è quello che importa, senza smettere di fare la cosa altra” (Mt 23,23).
Attualizzando: Dove possiamo ritrovare il fascino della figura e dei discorsi del Papa Francesco? In ogni suo discorso si lega direttamente alla Tradizione di Gesù. Afferma che “l’amore sta prima che il dogma ed il servizio ai poveri prima che le dottrine” (Civiltà Cattolica). Senza questo investimento il cristianesimo perde “la freschezza e la fragranza del Vangelo”, si trasforma in un’ideologia religiosa e si trasforma in un’ossessione dottrinale.
Non c’è un’altra strada per recuperare la credibilità persa dalla Chiesa, se non quella di ritornare alla Tradizione di Gesù, come lo sta facendo saggiamente il Papa Francesco.
Leonardo Boff
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