il ‘credo’ di frei Betto

calle viola

UN NUOVO CREDO
di Frei Betto

Credo nel Dio liberato dal Vaticano e da tutte le religioni esistenti e che esisteranno. Il Dio che è antecedente a tutti i battesimi, preesistente ai sacramenti e che va oltre tutte le dottrine religiose. Libero dai teologi, si dirama gratuitamente nel cuore di tutti, credenti e atei, buoni e cattivi, di quelli che si credono salvati e di quelli che si credono figli della perdizione, e anche di quelli che sono indifferenti al mistero di ciò che sarà dopo la morte.
Credo nel Dio che non ha religione, creatore dell’universo, donatore della vita e della fede, presente in pienezza nella natura e nell’essere umano. Dio orefice di ogni piccolo anello delle particelle elementari, dalla raffinata architettura del cervello umano fino al sofisticato tessuto dei quark.
Credo nel Dio che si fa sacramento in tutto ciò che cerca, attrae, collega e unisce: l’amore. Tutto l’amore è Dio e Dio è il reale. E trattandosi di Dio, non si tratta dell’assetato che cerca l’acqua ma dell’acqua che cerca l’assetato.
Credo nel Dio che si fa rifrazione nella storia umana e riscatta tutte le vittime di tutti i poteri capaci di far soffrire gli altri. Credo nella teofania permanente e nello specchio dell’anima che mi fa vedere gli altri diversi dal mio io. Credo nel Dio, che come il calore del sole, sento sulla pelle, anche se non riesco a contemplare la stella che mi riscalda.
Credo nel Dio della fede di Gesù, Dio che si fa bambino nel ventre vuoto della mendicante e si accosta nell’amaca per riposarsi dalle fatiche del mondo. Il Dio dell’arca di Noe, dei cavalli di fuoco di Elia, della balena di Giona. Il Dio che sorpassa la nostra fede, dissente dei nostri giudizi e ride delle nostre pretese; che si infastidisce dei nostri sermoni moralisti e si diverte quando il nostro impeto ci fa proferire blasfemie.
Credo nel Dio che, nella mia infanzia, piantò una acacia in ogni stella e, nella mia giovinezza, si mise in ombra quando mi vide baciare la mia prima innamorata. Dio festeggiatore e bisboccione, lui che creò la luna per adornare la notte della delizia e l’aurora per incorniciare la sinfonia del volo degli uccelli all’albeggiare.
Credo nel Dio dei maniaci-depressi, dell’ossessione psicotica, della schizofrenia allucinata. Il Dio dell’arte che denuda il reale e fa risplendere la bellezza pregna di densità spirituale. Dio ballerino che, sulla punta dei piedi, entra in silenzio sul palcoscenico del cuore e, cominciata la musica, ci afferra fino alla sazietà.
Credo nel Dio dello stupore di Maria, del camminare laborioso delle formiche e dello sbadiglio siderale dei fiorellini neri. Dio spogliato, montato su un asino, senza una pietra dove appoggiare il capo, atterrato dalla sua stessa debolezza.
Credo nel Dio che si nasconde nel rovescio nella ragione atea, che osserva l’impegno dei scienziati per decifrare il suo gioco, che si incanta con la liturgia amorosa dei corpi che giocano per ubriacare lo spirito.
Credo nel Dio intangibile all’odio più crudele, alle diatribe esplosive, al cuore disgustoso di quelli che si alimentano con la morte altrui. Dio, misericordioso, si fa quatto fino alla nostra piccolezza, supplica un soave messaggio e chiede una ninna nanna, esausto davanti alla profusione delle idiozie umane.
Credo, soprattutto, che Dio crede in me, in ognuno di noi, in tutti gli esseri generati per il mistero abissale di tre persone unite per amore e la cui sufficienza traboccò in questa creazione sostenuta, in tutto il suo splendore, dal filo fragile del nostro atto di fede.




la rivincita della ‘teologia della liberazione’

 

 

 

papa veglia

Il vangelo dei poveri

Con Papa Francesco la rivincita della teologia della liberazione

di Serena Noceti
in “l’Unità” del 17 settembre 2013

Sono passati sei mesi dall’elezione di papa Francesco: lo stile di vicinanza assunto fin dal primo saluto, il linguaggio libero dai paludamenti di un sacro per tanti incomprensibile e non significativo, l’attenzione all’esistenza umana e ai suoi bisogni, il riconoscimento di valore dei cammini plurali e spesso difficili di chi – credente e no – cerca verità, i segni chiari e incisivi di una fede coerente perché tradotta in scelte di amore e giustizia per tutti, sembrano orientare i cristiani sulle vie di una presenza nuova e insieme offrire un’«anima» alle necessarie, attese ma finora insperate, riforme strutturali che attendono la Chiesa cattolica per una piena attuazione del Concilio Vaticano II. Già con la scelta del nome, Papa Francesco ha richiamato i cristiani all’essenziale: alla scelta radicale di un vangelo che è pienezza di vita per tutti, in particolare per i poveri, gli emarginati, «coloro che non hanno diritto ad avere diritti» (H. Arendt). È in questo orizzonte di una chiesa che sta esplorando le vie antiche del vangelo di Gesù di Nazareth e le vuole declinare in modo nuovo in un contesto secolarizzato e pluralista, dopo i lunghi secoli della societas christiana, che si può collocare l’incontro avvenuto mercoledì scorso tra il Papa e Gustavo Gutierrez. Il teologo peruviano, riconosciuto come il «fondatore» della teologia della liberazione, era in Italia per partecipare al congresso dell’Associazione teologica italiana, e poi presentare al Festival della letteratura di Mantova il saggio scritto nel 2004 con Gerhard Ludwig Müller, oggi prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della chiesa. Fortemente criticata, quando non avversata, da una parte della gerarchia cattolica, oggetto di due pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della fede negli anni 80, accusata di ideologizzazione e immanentizzazione della fede, di ridurre la salvezza a una liberazione dalla povertà economica, di dipendere dalla lettura marxista della storia e di giustificare la lotta di classe e il ricorso alla violenza, rappresenta una delle correnti teologiche più significative e feconde del post-Concilio. Nata nell’America Latina della seconda metà degli anni 60, dalla volontà di incarnare il Vaticano II e di individuare categorie adeguate per pensare i temi classici di ogni teologia (Dio, Cristo, la Chiesa, l’uomo) in un contesto segnato dalla miseria, dalla sperequazione economica, dalla ferocia di dittature militari, ha offerto alla Chiesa intera prospettive inedite per pensare criticamente la fede cristiana, interrompendo di fatto la «pretesa» europea di essere il luogo primario e di riferimento del pensare teologico. Sono passati 45 anni dalla prima conferenza di Gutierrez (Chimbote, Perù, luglio 1968) che sostituiva al concetto di «sviluppo» il paradigma della «liberazione» e sono innumerevoli le voci di teologi e teologhe che, con sensibilità diverse e in diversi contesti continentali, hanno contribuito a ripensare la fede cristiana in questa prospettiva, tanto che è bene oggi parlare di «teologie della liberazione» al plurale. Per tutti rimane determinante lo sguardo sulla realtà e sulla rivelazione e la collocazione assunta: l’opzione preferenziale per i poveri, per coloro che Gutierrez definisce gli «insignificanti» agli occhi del mondo. In un tempo che sembra accettare passivamente la condizione di miseria di milioni di esseri umani, che misura tutto sul registro economico e non vuole ridiscutere l’attuale assetto neoliberista e gli equilibri della globalizzazione, la teologia della liberazione appare necessaria a una Chiesa che voglia essere «chiesa povera e dei poveri», come dichiara Papa Francesco: essa ribadisce – senza paura – che il Dio del Vangelo di Gesù sta dalla parte di coloro che sono schiacciati dal peso della vita e delle ingiustizie, senza speranza e senza futuro. Mentre denuncia che la povertà (economica, culturale, sociale) è inumana (e antievangelica), la teologia della liberazione afferma che è necessario lottare contro la povertà e le cause che la generano, non rassegnarsi all’ingiustizia, promuovere la dignità di tutti. Ai cristiani ricorda che non
si aderisce a una verità astratta e astorica su un divino puramente trascendente, ma si opera per una trasformazione del mondo secondo quella rivelazione su Dio e sull’uomo che Gesù ha proposto: nessuna ortodossia che non sia ortoprassi; nessun discorso sulla fede che non nasca da un concreto coinvolgimento nel contesto sociale di appartenenza e da una attenta lettura della storia; nessuna opera di misericordia per i singoli che dimentichi gli scenari dell’interdipendenza del genere umano. Esperienza e riflessione sull’esperienza, mediazione, prassi: tre parole chiave per vivere la vita cristiana anche in Europa, ma anche tre sollecitazioni per una rivisitazione dell’esercizio della politica oggi. Perché la teologia della liberazione rappresenta, indubbiamente, una delle voci più provocatorie nel dialogo culturale, che oltrepassa – per le vie di intelligenza della realtà adottate e per il coinvolgimento attivo con i movimenti di lotta per la giustizia – il solo ambito della vita della chiesa cattolica per condividere preziose suggestioni sull’umano con chiunque si preoccupi del bene comune.




intervista a G. Gutierrez

 

Gutierrez

«Anche l’Europa deve imparare»

intervista a Gustavo Gutierrez a cura di Serena Noceti
in “l’Unità” del 17 settembre 2013

L’elezione di Papa Francesco e il suo auspicio di “una Chiesa povera per i poveri” ha spinto molti osservatori a parlare di una “rivincita” della teologia della liberazione. Che ne pensa e quali ritiene siano le sfide di fronte al nuovo Papa?

«Il Papa ama i poveri perché ha letto il Vangelo e l’ha compreso. Può darsi che abbia letto di teologia della liberazione, ma è secondario. La radice non è mai in una teologia, ma nelle fonti. La sfida dei poveri è da tempo presente nell’orizzonte della Chiesa e se n’è tenuto conto, altrimenti non si capirebbe il martirio che abbiamo sperimentato in America Latina, a cominciare da vescovi come Angelelli in Argentina, Romero in Salvador e Gerardi in Guatemala, per non parlare dei moltissimi laici. La povertà resta una grande sfida per la vita della Chiesa, non solo latinoamericana. Già in Argentina l’attuale Papa ha dimostrato il proprio interesse per il mondo dei poveri: e costruire “una chiesa povera per i poveri”, come egli ha detto di desiderare, è una grande sfida». Si parla molto di riforme della Chiesa che il Papa potrebbe realizzare. Quali pensa sarebbero necessarie da questo punto di vista? «Nel dire che la povertà è una sfida molto grande alla Chiesa è implicito che ci siano cambiamenti da operare. Si tratta di raccogliere maggiormente la realtà del mondo della povertà e affermare con maggior forza in ciascun Paese la necessità che i bisogni dei poveri siano la principale preoccupazione politica, sia pur senza indicare vie concrete per risolverlo. In diversi casi la Chiesa l’ha già fatto, ma con questo Papa ciò dovrebbe rafforzarsi. C’è quindi molto da fare. E il problema della povertà è complesso, perché non si riduce all’aspetto economico, ma coinvolge, per esempio, la diversità culturale e la convivenza di storia ed etnie diverse, come accade in tanti Paesi del Sud America. Sono convinto che assumere la prospettiva degli ultimi, del povero, cambia molte cose nel comportamento dei cristiani. E non si può ignorare che dell’America Latina si parla sempre come di un “continente cattolico”, ma poi c’è questa immensa povertà, che va combattuta, perché si tratta di intendersi sul concetto di cattolico, che non si riduce all’assolvere alcuni obblighi religiosi, che sono necessari, ma se non sono accompagnati dalla lotta per la giustizia non hanno molto senso». Quali riforme vorrebbe veder realizzate? «Quella già annunciata della Curia romana, che ha conseguenze per la Chiesa universale. Di questa riforma fa parte, per esempio, un diverso orientamento nella nomina dei vescovi». Quali elementi di continuità vede tra Benedetto XVI e Francesco? «Hanno un carattere e uno stile personale molto diversi, legati alla provenienza, l’Europa centrale piuttosto che “la fine del mondo”. D’altro canto l’opzione preferenziale per i poveri è così presente nel documento di Aparecida perché Benedetto XVI ne parlò nel discorso di apertura, collegandola direttamente alla fede in Cristo. Credo che se non l’avesse detto, il documento ne avrebbe parlato meno. E naturalmente questa prospettiva è condivisa da Papa Francesco. Quindi c’è una continuità, anche se lo stile è molto differente. Ogni giudizio deve essere comunque prudente, perché il Papa è stato eletto solo pochi mesi fa». Frei Betto sostiene che oggi la teologia della liberazione ha più ascolto fuori dalla Chiesa che dentro, riferendosi al fatto che nell’ultimo decennio in America latina sono andati al governo leader che si richiamano idealmente alla “opzione per i poveri” e alla Chiesa della liberazione. Condivide questo giudizio? «Diffido molto di queste identificazioni. Certo, Correa è un uomo di formazione cristiana, avendo studiato a Lovanio con François Houtart: al contempo, però, è un economista con le sue idee. Funes cita spesso Oscar Romero, che peraltro è una figura di riferimento per tutto il Paese. Ma sono singoli casi. Credo che i politici abbiano tutto il diritto di usare questi riferimenti, perché vuol dire che per loro significano qualcosa e questo mi rallegra. Non penso però che si possa dire che in questi Paesi ci siano presidenti legati alla teologia della liberazione, perché essi fanno politica nel loro pieno diritto – e ritengo che si tratti della politica necessaria per cambiare un Paese – ma una teologia non può essere un riferimento ideologico. Un aneddoto: molti anni fa ricevetti una telefonata da un giornalista di Barcellona che mi chiedeva un parere a proposito della rivoluzione sandinista, definendola “una rivoluzione fatta da persone legate alla teologia della liberazione”. Gli ho risposto che pensavo ci fossero fattori molto più importanti della teologia della liberazione alla radice di quella rivoluzione, prima di tutto la dittatura dei Somoza. Non bisogna perdere il senso delle proporzioni e la capacità di analizzare i molti fattori sociali. Comunque non ho dubbi, e anzi me ne rallegro, che la posizione della Chiesa latinoamericana negli ultimi quarant’anni abbia influito molto nella società: e parlo di Chiesa perché le idee che si attribuiscono alla teologia della liberazione sono poi presenti nei documenti delle conferenze generali dell’episcopato latinoamericano. E, d’altro canto, molta repressione dei governi è stata motivata con la lotta alla teologia della liberazione! Nella conferenza degli eserciti americani del 1987 si sosteneva che la teologia della liberazione era contraria alla «civiltà occidentale cristiana». Quindi la teologia della liberazione è presente nell’ambito politico, nel bene e nel male, ma ci sono altri fattori che influiscono. Credo che abbia motivato molte persone, ma compito della Chiesa è cambiare le coscienze e la teologia contribuisce a questo dando ragioni e fondamenti. Si fa teologia anche per cambiare questo mondo!»
(ha collaborato Mauro Castagnaro)




violenza sui minori in Italia

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“Centomila bambini e adolescenti vittime di abusi e maltrattamenti in Italia”

Un’indagine a cura di Terres des Hommes e Cismai disegna un quadro chiaro del fenomeno: tra le cause principali trascuratezza materiale o affettiva (52,7%), violenza assistita (16,6%), danni psicologici (12,8%), violenza sessuale (6,7%), patologie delle cure (12,8%), maltrattamento fisico (4,8%)

 Elisabetta Ambrosi su il Fatto Quotidiano del 17 settembre

Quasi 100mila, lo 0,98% dei minori, in maggioranza femmine (52,51%): tanti sono i bambini o adolescenti vittime di maltrattamenti e abusi in Italia. Per la prima volta nel nostro Paese, infatti, un’indagine a cura di Terres des Hommes e Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso dell’infanzia), presentata oggi a Roma presso la presidenza del consiglio dei ministri, disegna un quadro chiaro del fenomeno. Anche se «i dati emersi», come spiega Dario Merlino, presidente del Cismai, «indicano solo i casi di minori ufficialmente presi in carico dai servizi per il maltrattamento – 15,46% del totale dei casi – mentre le cifre del sommerso potrebbero essere molto più alte: sarebbero circa 700.000 minori a rischio, di cui 140.000 in condizioni di maltrattamento».

Trascuratezza materiale o affettiva (52,7%), violenza assistita (16,6%), maltrattamento psicologico (12,8%), abuso sessuale (6,7%), patologie delle cure (12,8%), maltrattamento fisico (4,8%): queste le tipologie preponderanti del fenomeno, sul quale – come spiega Donatella Vergara, segretario generale Terres des Hommes – la mia associazione fa prevalentemente un lavoro di advocacy, aiuta cioè i decisori a trovare risposte adeguate, in termini di prevenzione e cura».

Ma proprio i decisori, emerge dal convegno, sono un punto debole della catena. Come fa notare nella sua relazione Vincenzo Spadafora, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (che tra l’altro ha potuto iniziare i suoi lavori solo un anno dopo la sua elezione), «attualmente la Commissione parlamentare per l’infanzia e danni ’adolescenza non è operativa, a causa del mancato accordo politico su presidenza e vicepresidenti, e questo ci priva di un interlocutore importante». Stesso problema per l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, attualmente decaduto a causa della rimessa nelle mani di Enrico Letta della delega alla Famiglia del ministero delle Pari opportunità, dopo le dimissioni della ministra Josefa Idem.

L’indagine condotta da Cismai e Terres des hommes, anche in vista degli “Stati generali 2013 sul maltrattamento all’infanzia in Italia” (previsti a Torino il 12 e 13 dicembre prossimo), comincia a colmare un vuoto statistico sempre più ingiustificabile. «Anche se i comuni presi in considerazione sono 49, di cui 31 hanno risposto – spiega Federica Giannotta, responsabile diritti infanzia Terres des hommes – il campione – circa 5 milioni di abitanti, di cui 758.932 minori, di cui 48.280 in carico ai servizi sociali – è comunque rilevante, e non comprende solo grandi città».

Ma anche se le percentuali ufficiali che vanno emergendo, e che pure non comprendono il sommerso, non sono lontane da quelle degli altri paesi – 0,91% negli Stati Uniti, 0,76% in Australia, ma ricerche europee viaggiano su dati analoghi – i tagli ai Comuni stanno mettendo a dura prova l’assistenza attuale, dunque il quadro potrebbe peggiorare ulteriormente. Ne sa qualcosa Roberta Greta, assessore al Welfare del Comune di Napoli, dove il 20% della popolazione è minore e dove, spiega, «molti adolescenti vengono allontanati per comportamenti criminali, invece che tutelati. Oppure molti minori finiscono nei centri di riabilitazione, in cui sono curati solo da neuropsichiatri, senza che si indaghi sulle ragioni della loro sofferenza. Per non parlare, «conclude», del problema della presenza di minori non censiti».

Non basta dunque, continua l’Autorità garante Spadafora, annunciando tra l’altro l’avvio di un’indagine sui fondi spesi e su quelli, europei, non spesi, «approvare ottime leggi o ratificare convenzioni internazionali. Né fermarsi ai casi di cronaca, spesso trattati malamente o spettacolarizzati dai media. Di fronte a un’emergenza crescente (ci sono due milioni di bambini in famiglie povere o poverissime), serve soprattutto la volontà del Parlamento a completare gli sforzi delle associazioni e delle authorities». Il primo, urgente, obiettivo è arrivare a procedure di standard di registrazione e una omogeneità dei sistemi di classificazione. «Per questo», conclude», siamo pronti, nonostante i pochi fondi, a cofinanziare un’ulteriore passo dell’indagine condotta da Cismai e Terres des hommes».




collegialità, gay, donne prete … e papa Francesco

 

due omo

Collegialità, gay e donne prete.

Il rettore dell’università cattolica di Cordoba a tutto campo

di Ingrid Colanicchia
in “Adista” – Notizie – n. 32 del 21 settembre 2013

Collegialità, sacerdozio femminile, accesso ai sacramenti per omosessuali e divorziati. Sono queste, per il gesuita Rafael Velasco, rettore dell’Università cattolica di Córdoba, in Argentina, le riforme urgenti che la Chiesa dovrebbe abbracciare. Così si è espresso in una lunga e articolata intervista concessa al giornalista argentino Mariano Saravia (e diffusa sul profilo Facebook di quest’ultimo ad agosto) in occasione dell’annuncio della sua rinuncia al rettorato – effettiva a partire da marzo 2014 –, in cui ha toccato tutti i temi caldi di questa stagione ecclesiale, a partire dalla riforma della Curia, «l’ultima corte medievale viva e vegeta nel XXI secolo». «Quando papa Francesco non si è recato al concerto (offerto dall’Orchestra sinfonica nazionale della Rai in occasione dell’Anno della Fede, ndr) dicendo che non è un principe rinascimentale ho cominciato a pensare che si sta muovendo contro questo stato di cose e contro l’oscurità che genera», ha detto p. Velasco. «Qui in Argentina, e anche a Cordoba, è necessaria una maggiore trasparenza perché c’è una segretezza inopportuna». Un esempio? La nomina dei vescovi che dovrebbe essere più partecipata dalla comunità: «Non dico democratizzare al punto che le persone si esprimano attraverso un voto, ma per lo meno che esprimano le proprie opinioni», che «le si ascolti». «Alcuni anni fa – racconta il rettore – mi toccò rispondere a una richiesta da parte del nunzio il quale, sottolineando la segretezza della questione, mi chiedeva informazioni in merito a una persona che stava per essere nominata come vescovo. Io risposi dicendo di chiedere ai suoi parrocchiani visto che nessuno poteva conoscerlo meglio. Non mi interpellarono più», conclude ridendo. «Quello che chiedo è che si realizzi una maggiore collegialità nella Chiesa, che è ciò che ha stabilito il Concilio Vaticano II. Che non governi solo il papa, ma il papa e i vescovi». «Mi sembra che papa Francesco vada in questa direzione», aggiunge p. Velasco sottolineando la necessità di passare dalle parole ai fatti: «La Chiesa ha un’agenda in sospeso molto importante, soprattutto con se stessa». «Se vuole essere segno che Dio si avvicina a tutti, la prima cosa che deve fare è non essere escludente. Ci sono riforme importantissime da fare: per esempio che i divorziati siano ammessi alla comunione, che se un omosessuale vive stabilmente in coppia possa fare la comunione»; «diciamo che non ci devono essere differenze tra uomo e donna, diciamo che la donna è importante, però la escludiamo dal sacerdozio». E le parole del papa sui gay durante la Gmg? «Se il papa è il leader spirituale e mi dice che non li giudichiamo, e quindi non li condanniamo, bene vorrei chiedergli che ruolo avranno d’ora in poi i gay nella comunità ecclesiale». «Credo che se tiriamo le conclusioni logiche di questo discorso dovremmo riabilitare totalmente per quanto riguarda i sacramenti, a cominciare dalla comunione, una persona omosessuale che vive secondo le stesse regole di amore e fedeltà che chiediamo agli eterosessuali». Quanto all’invito rivolto dal papa ai giovani, agli anziani e ai poveri di non restare ai margini? «Bisognerebbe dirlo ai vescovi», commenta p. Velasco. «Nella società è lo stesso: il problema non è dei poveri, il problema è di chi li esclude, di chi impedisce loro l’accesso alla terra, all’educazione, alla giustizia. A questi bisogna rivolgersi e dire chiaramente che sono ingiusti». «Quando dico questo mi dicono che sono politicizzato. Ma nello scontro tra un forte e un debole, se non prendo posizione di fatto è come se la prendessi, a favore del forte. La neutralità non è possibile. L’inganno teologico, in gran parte della Chiesa, è credere che sia possibile l’apoliticità». Insomma, anche rispetto alle aspettative suscitate da questo inizio pontificato, «bisogna essere cauti», secondo p. Velasco. «Nonostante guardi con speranza alle cose che sta facendo e aspetto cambiamenti concreti, non bisogna dimenticare che Bergoglio non ha mai visto con simpatia la
Teologia della Liberazione. Questa è la verità». «Lui va nelle villas miserias, ha un contatto diretto con il popolo, il che è positivo, però non è rivoluzionario in alcun modo». «Credo – conclude – che con il tempo, superato il polverone, vedremo chi è Francesco. Per esempio che cosa intende dire con l’espressione “Chiesa povera per i poveri”, perché questa frase può voler dire diverse cose. Può significare rafforzamento dei poveri per porre in essere movimenti di liberazione accompagnati dalla Chiesa, ma può significare anche un approccio più assistenziale e non di trasformazione della società».




“mio figlio è gay”

due omo

molti ragazzi lo vivono ancora come un grosso problema scoprirsi gay ed accettarsi come tali

anche le famiglie fanno fatica e sembrano del tutto impreparate ad accettare questa realtà quando i figli decidono di fare il salto difficile di comunicarsi ai genitori

prendo dal sito ‘pollicinoeraungrande’ questa bella puntualizzazione su questa problematica:

Mio figlio è gay! Come reagisce un genitore?

Preferirei essere negro piuttosto che gay, perché se sei negro non lo devi dire a tua madre!

Charles Pierce

I figli crescono e scoprono il sesso e la sessualità, il piacere e il desiderio. Si innamorano a scoprono cosa significa sognare di stringere una mano o di fare l’amore, attendere uno sguardo o essere toccati. I genitori questo lo temono e insieme ne sono emozionati, il bambino che hanno cresciuto diventa grande, ama. Ma cosa accade nelle famiglie quando ci sono ragazzi che amano ragazzi, ragazze che amano ragazze?

E’ normale che in adolescenza ci si interroghi sulla propria sessualità, si sperimenti il proprio corpo, si provino attrazioni diverse. Moltissimi ragazzi si sentono inizialmente portati a pensare a qualcuno dello stesso sesso,nelle ragazze poi è comunemente accettato che vadano in giro mano nella mano, dormano insieme, si carezzino. A volte sono emozioni passeggere altre volte no. Quando ci si accorge poi di amare persone dello stesso sesso, non tutti i ragazzi trovano accanto un genitore in grado di approfondire, parlare con loro. E se questo è già vero per gli adolescenti eterosessuali, per gli omosessuali diventa anche più complesso e spinoso. Eppure, secondo le stime adottate dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sulla popolazione umana, la percentuale degli omosessuali è almeno del 5%. Non un numero piccolo piccolo, quindi. Cosa accade in un genitore? L’argomento sesso è sempre spinoso e per i genitori, nel caso abbiano un figlio gay le fasi sono due, ben distinti e fondamentali: c’è un PRIMA e un DOPO.

PRIMA. E’ il momento del dubbio, del sospetto, quando i ragazzi non parlano ma non ci sono “prove” della loro sessualità, quando non escono con persone dell’altro sesso, quando non danno prova della loro “normalità”. Nei genitori, spesso, davanti alla ritrosia dei figli che non parlano, si fanno avanti due strade possibili. Quella del far finta di niente ( “è timido, esce solo con gli amici, prima o poi troverà la ragazza giusta”) o quella che li vede mettersi a fare il detective alla ricerca di segnali che siano in una direzione o l’altra. Ecco allora che si gira nella stanza dei figli in preda ad una fame di indizi, si spia persino il diario o il cellulare, facebook, magari si fanno domande agli amici ma non al diretto interessato. Questo crea distanza, il ragazzo che dovesse scoprirlo si sentirà tradito, non accettato, di certo non avrà voglia di trovare le parole giuste per parlare con i propri genitori, sebbene siano le madri le maggiormente addette alla ricerca di prove. La terza via, di solito, viene messa in secondo poco calcolata, lasciata in disparte. Si tratta del dialogo, della comprensione, di cercare di permettere al figlio di trovare le parole per raccontarsi. Battute a sfondo etero per “stanare” il macho della situazione porteranno solo dolore, o peggio, finzione. Far capire che si può parlare di sesso e che è possibile anche essere omosessuali, aiuterà i figli a sentirsi capaci di dire. Senza bisogno di sfide o pedinamenti, una atmosfera intrisa di possibilità fare in modo che si possa trovare come dire la propria scelta sessuale, senza tutta la paura de giudizio che accompagna le prime esperienze di tanti ragazzi.

Ma per poter accogliere un figlio, ogni genitore di certo dovrebbe sapere cosa pensa, cosa prova di fronte ad argomenti delicati come la sessualità. Come si sentono loro genitori per primi, cosa pensano, di quali stereotipi sono vittime, quanta libertà hanno di pensare serenamente ad una sana sessualità omosessuale o prima ancora ad una sana e semplice sessualità. O anche, quanto ne sanno davvero sull’omosessualità, come la immaginano, è una figura dell’immaginario o sanno distinguere da quanto si vede in TV quanto invece è vita reale? Molti genitori sono ancora sicuri che se il loro ragazzo fosse gay si dovrebbe trattare con delicatezza e poi andrebbe curato, come fosse malato. Sono spaventati dal mondo esterno, dai pregiudizi, da come la prenderanno fuori nel mondo, ma il mondo inizia dentro casa e comunicare “Mamma, papà sono gay!” non è ancora facile anche perché la famiglia non è sempre pronta.

DOPO. E se poi è lo stesso ragazzo a comunicare la propria omosessualità? Quando dovesse arrivare il cosiddetto Coming Out ( dall’inglese, significa “uscire fuori”) le cose si fanno, volendo, anche più difficili. Una volta che il proprio figlio abbia trovato il modo di comunicare chiaramente di essere omosessuale, magari dopo anni e anni di silenzio, sarà importante essere disponibili ad un incontro dove sia possibile guardare il mondo con gli occhi di un figlio, ascoltare senza giudicare, accettare e proteggere il legame con lui, evitando che le scelte rispetto alla sessualità siano scelte di rottura con la famiglia, e per questo spesso che si decide di non dire niente a casa, per non dover scegliere di essere soli.

Perchè è tanto difficile? Ci sono le aspettative dei genitori, quello che si vorrebbe per i figli prima ancora di conoscere il figlio, queste pesano sempre, anche se si sogna un figlio dottore e quello vuole diventare pittore edile. Alcuni genitori, poi, sono realmente e sinceramente terrorizzati dalla possibilità di un figlio gay, davanti anche alla dichiarazione, dicono a se stessi che si tratta di un periodo di transizione verso la “normalità” magari sperando di poterli “curare” con un colloquio dallo psicologo, ritenendo sia possibile aiutarli con il loro problema. Sulle prime sono molte le emozioni che un genitore si trova ad affrontare. Sono increduli, spaventati, pieni di imbarazzo. E’ importante che si prendano il loro tempo, che facciano i conti con le emozioni che provano, con i timori ma anche le loro storie familiari prima di rispondere velocemente e male. Solo quando si avrà in qualche modo fatta propria la notizia, allora sarà possibile incontrare il proprio pargolo tutto intero, non più diviso dalle aspettative di un tempo, dai sogni di matrimonio eterosessuale, visto con gli occhi con cui lo si guardava da piccolo ma come una persona essenzialmente uguale ma in parte nuova.

Le paure sono presenti da tutte e due le parti, non facciamo che minino un rapporto importante come quello tra figli e genitori. Se non si riesce da soli come famiglia è bene chiedere aiuto ad un professionista ma l’importante e riuscire ad andare al di là di quella iniziale vergogna che arriva spesso con le dichiarazioni di omosessualità.

E poi? Parlare con i propri figli perché sono i propri figli e come tutti i figli fanno, spesso non sono quello che si sognava quando li si portava in grembo o ci si fantasticava su, ma sono anche molto altro, di fantastico e speciale e hanno bisogno del genitore che hanno di fronte, per crescere, vivere e non sentirsi malati.

Gli etero non saranno mai realmente liberi finché non lo saranno i gay; e questo vale, ovviamente, per ogni altro schieramento sui due versanti di un muro di discriminazione.

 




papa Francesco e le donne

 

margheritona

non c’è molto feeling tra le donne, meglio tra le femministe, in specie tre le teologhe, con papa Francesco

riporto, qui sotto, le ‘preoccupazioni’ di Ivonne Gebara nei confronti della ‘teologia delle donne’ di papa Francesco:

“Papa Francesco e la teologia delle donne: alcune preoccupazioni”

di Ivone Gebara

Papa Francesco, per favore, si informi su Google su alcuni aspetti della teologia femminista, almeno nel mondo cattolico. Forse questo interessamento potrebbe aprire altre strade per realizzare il pluralismo di genere nella produzione teologica!

Dato il largo successo e la valutazione positiva della prima visita di Papa Francesco in Brasile in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), qualsiasi critica potrebbe non essere bene accolta. Ma dopo tanti anni di lotta, “Guai a me se taccio”. Così saranno qui solo poche righe alcune brevi riflessioni, solo per condividere alcuni spunti a partire dalla posizione delle donne.
Non voglio commentare i discorsi di Papa Francesco né la gioia che molti di noi hanno sperimentato davanti alla simpatia, affetto e vicinanza di Francesco. Né voglio parlare di alcune prese di posizione coerenti annunciate in relazione alle strutture della Curia Romana. Voglio solo fare due brevi osservazioni. La prima riguarda l’intervista del Papa sull’aereo di ritorno a Roma, alla domanda circa l’ordinazione delle donne, in cui ha detto che la questione è stata chiusa, pertanto era NO. Ha aggiunto che doveva essere fatta una “teologia della donna” e che la Vergine Maria è stata superiore agli apostoli, quindi nessuno chieda un posto diverso per le donne.

La seconda osservazione ha a che fare con l’identificazione di un nuovo cattolicesimo giovanile con una certa tendenza carismatica molto in voga nella Chiesa cattolica oggi. Questo dovrebbe indurci a porre domande molto serie, anche indipendenti dalla nostra posizione, sull’avere dei leader che parlino al nostro cuore e rinuncino ai discorsi teologici razionalistici e dogmatici del passato.

1 – Come può il papa Francesco semplicemente ignorare la forza del movimento femminista e la sua espressione nella teologia femminista cattolica da oltre trenta / quaranta anni, a seconda dei luoghi? Mi ha stupito anche il fatto che egli ha dichiarato che potremmo anche avere più spazio nella pastorale, quando, in realtà, in tutte le parrocchie cattoliche sono per lo più donne che portano avanti i numerosi progetti di missione. Sono consapevole che quelle poche parole in relazione alle donne, poche parole senza dubbio limitate a un viaggio di ritorno a casa, non possono e non dovrebbero creare ombre su una visita di tanto successo. Tuttavia, sono i piccoli gesti che facciamo, i nostri gap che svelano il lato nascosto, il lato d’ombra che è anche in noi. Questi sono piccoli gesti che aprono le porte della riflessione per cercare di andare un po’ oltre rispetto alla prima impressione.
La teologia femminista ha una lunga storia in molti paesi del mondo e una storia lunga e marginalizzata nelle istituzioni cattoliche, soprattutto in America Latina. Pubblicazioni su Bibbia, Teologia, Liturgia, Etica, Storia della Chiesa hanno popolato le librerie di molte scuole di teologia in diversi paesi. Sono circolate anche in molti ambienti laici interessati dalla novità, portatrice di nuovi significati. Ma questi testi non sono studiati nelle principali facoltà teologiche, specialmente nella formazione dei futuri sacerdoti e degli istituti di vita consacrata. L’ufficialità della Chiesa non ha dato loro il diritto di cittadinanza, perché la produzione intellettuale delle donne è ancora considerata inadeguata per la razionalità teologica maschile. E, inoltre, appare come una minaccia per il potere maschile prevalente nelle chiese. La maggior parte non sa che esiste né come pubblicazioni a stampa né come formazione alternativa organizzata, così come sono sconosciuti i nuovi paradigmi proposti da queste teologie plurali e contestuali. Ne ignora la forza e e l’appello inclusivo alla responsabilità storica per le nostre azioni. La maggior parte degli uomini di Chiesa e dei fedeli vive ancora come se la teologia fosse una scienza eterna basata su verità eterne e insegnata in primo luogo da uomini e in seconda battuta da donne che seguono la scienza maschile prestabilita. Negano la storicità dei testi, la contestualità delle posizioni e delle ragioni. Ignorano le nuove filosofie che informano il pensiero teologico femminista come l’ ermeneutica biblica e i nuovi approcci etici.

Papa Francesco, per favore, si informi su Google su alcuni aspetti della teologia femminista, almeno nel mondo cattolico. Forse questo interessamento potrebbe aprire altre strade per realizzare il pluralismo di genere nella produzione teologica!

Quanto al dire, magari in forma di consolazione, che la Vergine Maria è superiore agli apostoli è, ancora una volta, l’espressione di una teologia maschile di astratta consolazione. Amare la Vergine tanto distante quanto vicina all’intimità personale, ma non sentire le grida delle donne in carne e ossa. E’ più facile fare poesie alla Vergine e inginocchiarsi davanti alla sua immagine che essere attenti a ciò che accade alle donne in molti angoli del nostro mondo. Tuttavia, se gli uomini vogliono affermare l’eccellenza della Vergine Maria dovranno combattere perché i diritti delle donne siano rispettati, estirpando molte forme di violenza contro di loro. Dovranno anche essere consapevoli del fatto che le istituzioni religiose e il contenuto teologico e morale che veicolano non solo possono rafforzare, ma anche generare altre forme di violenza contro le donne.

Temo che molti fedeli e pastori che hanno bisogno della figura del papa buono, del padre spirituale, del papa che ama tutti, si arrendano alla figura amichevole e amorevole di Francesco e rafforzino così un nuovo clericalismo maschile e una nuova forma di adulazione del papato. Papa Ratzinger ci ha portato a una critica del clericalismo e dell’istituzione del papato attraverso le sue posizioni rigide. Ma ora, con Francesco, sembra che i nostri fantasmi del passato ritornino, ora addolciti con la semplice e forte figura di un papa capace di rinunciare al lusso dei palazzi e dei privilegi connessi. Un papa che sembra introdurre un nuovo volto pubblico per l’istituzione che ha fatto la storia, e non sempre una bella storia in passato. Il momento richiede prudenza e vigilanza critica, non per non riconoscere il papa, ma per aiutarlo a essere sempre di più con noi, la Chiesa, una Chiesa plurale e rispettosa dei suoi tanti volti.

2 – Il mio secondo breve commento è in relazione alla necessità di identificare la maggior parte dei gruppi giovanili presenti nella Jornada a applaudire calorosamente il papa. In che Vangelo e in che teologia che sono stati formati? Da dove vengono? Sono in ricerca di che? Non ho risposte chiare. Solo sospetti e intuizioni per quanto riguarda la presenza di una marcata tendenza più conservatrice carismatica e più celebrativa nella linea Gospel. Le manifestazioni di passione per il papa, di amore intenso e improvviso che porta alle lacrime, a volerlo toccare, a vivere i miracoli improvvisi, a ballare e scuotere il corpo sono stati comuni anche nel movimento neo-pentecostale nelle sue molteplici manifestazioni. Senza fare sociologia della religione, penso che sappiamo che questi movimenti cercano la stabilità sociale ben più delle trasformazioni politiche in vista del diritto e della giustizia per tutti i cittadini. Credo che corrispondano senza dubbio al momento presente in cui viviamo e rispondano ad alcune esigenze immediate del popolo. Tuttavia, vi è un altro volto del cristianesimo che quasi non si è potuto manifestare nella Jornada. Cristianesimo che ancora ispira i movimenti lotta sociale per le case, le terre, i diritti LGBT, i diritti delle donne, dei bambini, degli anziani, ecc. Il cristianesimo delle comunità cristiane di base (CEBS), le iniziative ispirate alla teologia della liberazione e alla teologia femminista della liberazione. Questi, pur presenti, erano quasi soffocati a forza da ciò che la stampa ha voluto rafforzare in quanto corrispondeva ai suoi interessi. Tutto questo ci invita a pensare.

Il papa ha viaggiato non più di una settimana fa e i giornali e le reti televisive ormai ben poco ne parlano. E cosa accade nelle comunità cattoliche, dopo questa apoteosi? Mentre continuiamo i nostri viaggi di tutti i giorni?

Oltre alla visita del Papa e a una possibile nuova forma del papato di Francesco, siamo insieme invitate/i a pensare la vita, a pensare il corso della nostra storia e a salvaguardare quanto vi è di più forte e prezioso nell’etica liberante dei Vangeli. Non basta dire che Gesù ci ama. Abbiamo bisogno di capire come noi amiamo e cosa stiamo facendo per crescere nella costruzione di relazioni più eque e solidali.




questi cattolici!

altro tris

cosa fanno questi cattolici?

Vanno in pellegrinaggio a Madjugorie a pregare la Madonna degli umili; poi tornano in Italia e votano Lega, il partito dei razzisti. Si dicono “cattolici” e sono solo dei “provinciali”.

Vanno in Chiesa a festeggiare i Santi del calendario ed escono fuori e calpestano i martiri in carne ed ossa che incontrano per strada.

Si dicono cristiani e si chiamano fratelli; ma poi, se possono, si fanno le scarpe a vicenda, arrampicandosi sui cadaveri degli “altri”.

Pregano Dio per la Pace e la Giustizia, ma votano a destra, dove ingrassano i partiti di quel liberismo economico e di quel turbocapitalismo che seminano violenza e fomentano guerre.

Hanno lottato contro il divorzio, contro l’aborto, contro l’eutanasia, contro la contraccezione ed hanno spalancato la porte a quella globalizzazione che non è altro che la riduzione del mondo ad un mercato, dove investono i padroni del capitale e nel quale la condizione di cittadino interessa meno che quella di consumatore.

Hanno chiuso gli occhi pregando Dio e si sono ritrovati servi di un altro dio, il dio denaro.
Senza avvedersene, hanno voluto coniugare, in un rapporto incestuoso, ciò che il loro Maestro aveva avvertito non essere possibile: “Non potete servire Dio e la ricchezza!” (Matteo 6,24).

Sotto questa dittatura tutto si è trasformato in merce: idee, progetti, relazioni, oggetti, ecc.; perfino la religione!

Frei Betto, teologo brasiliano, incarcerato per anni e anni sotto la dittatura militare degli anni di piombo (1964-1985), denuncia: “Si vendono imprese, strade, influenze e governi. (…) Si trasforma Che Guevara in birra inglese, la liturgia in uno show business e i figli di Gandhi in un carro del carnevale. L’importante è mercificare e reificare tutto: dall’emblema rivoluzionario alle natiche della ballerina.

Rendere il superfluo necessario. Solo così si dilata il consumo. (…)

Creata per elevare le persone ad un altro livello di coscienza, perché vivano la comunione con Dio e tra loro, e fondata su valori derivati dalla rivelazione trascendente, la religione stessa, poco a poco, ha finito per perdere la sua dimensione profetica, di denuncia e di annuncio. Si sveste del suo carattere etico, di critica verso ciò che disumanizza, per adeguarsi all’imballaggio che la rende, nel mercato, un prodotto attraente. Così, essa risplende sotto le luci della ribalta, scambiando il silenzio con l’isterismo pubblico, la meditazione con l’emozione truccata, la liturgia con la danza aero¬bica. Nella sfera cattolica, rende il prodotto più appetitoso”

dal post di don A. Antonelli su ‘profezia e liberazione’: “la chiesa di papa Francesco e lo scandalo dei cattolici’




Cristina Simonelli: “soglia come benedizione”

cristina 2

una bella riflessione di Cristina Simonelli come intervento conclusivo al convegno annuale di Brescia organizzato da Missione Oggi dal titolo: “siamo gli ultimi cristiani?”

Soglia come benedizione

RINTRACCIANDO FILI E CONSONANZE
Pensare queste osservazioni come una conclusione, sia pure come si usa dire aperta, è cosa audace: non solo perché concludere lo è sempre e porta con sé una qualche arroganza di portoni e di chiavi, ma anche per lo statuto ampio e poliedrico che ha caratterizzato questo evento. Con una ragione ulteriore: riflettere e dunque anche fare teologia ha dei luoghi, co- me suggeriva Paolo Boschini. Questo di Missione Oggi è un luogo, che ha sue complicità e simpateticità che, mi sembra, hanno permesso ai partecipanti di rintracciare fili e consonanze anche tra interventi tematicamente disparati. Il mio essere qui non è privo di simpatia, ma non ha probabilmente la stessa complicità e dunque forse coglie meno nessi: di questa parziale estraneità mi scuso, cercando comunque di trarne profitto. Una seconda osservazione previa la riterrei dalla riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy, che parla di comunità operosa e inoperosa: sembrerebbe dover essere positiva la prima, ma nel suo lessico è in- vece il contrario, operosa è una comunità che fa affidamento sul- l’opera e in ultima analisi si rivela ottusa e incapace di cambia- mento, mentre inoperosa sarebbe una comunità aperta all’alterità, all’inaspettato, capace dunque di integrare il limite, perché può “far spazio”. Certo, in questa accezione, ci poniamo qui in un contesto inoperoso o “insaturo” (Wilfred Bion), dunque aperto a un inedito da portare a sintesi provvisoria, sì, ma rinunciando alla tentazione di “gestirlo completamente”.
SENZA NOSTALGIA
Raccogliendo dunque in questo orizzonte alcuni spunti te- matici, penso che una chiave di lettura di questo convegno sia una delle affermazioni di Andrés Torres Queiruga: “Il rischio peggiore, in questi casi, consiste sempre nel ri- conoscere la novità del problema, ma cercare di risolverlo senza rompere i vecchi schemi”. Sono schemi superati certamente le categorie di interpretazione della questione da lui illustrate. Ma, vorrei aggiungere, altrettanto fuori luogo e fuori tempo risulta un atteggiamento di malcelata nostalgia, un modo di affrontare la situazione che si annida in al- cune visitazioni del tema, anche benintenzionate. Da questo punto di vista, dunque, se la domanda che dà il titolo a questo convegno, sottintendesse “siamo gli ultimi cristiani della cristianità”, secondo un paradigma tridentino (un paese, una Chiesa, un parroco), si potrebbe rispondere tranquillamente: no, non siamo gli ultimi… semplicemente perché tutto questo non esiste più! Può piacere di più o di meno, ma non è questo il punto, se non esiste non esiste.
ACCETTANDO LA SFIDA DEL CAMBIAMENTO
Provo a fare due esempi, di diverso peso, forse un po’ impertinenti dal punto di vista della forma, ma spero pertinenti nella sostanza al tema che qui ci interessa. È stata svolta dall’Osservatorio socio-religioso del Triveneto una ricerca sulla religiosità: realizzazione di notevole importanza, data appunto la necessità di accostare all’esame dei modelli teorici la con- siderazione delle forme pratiche, di condurre l’analisi, “non quindi direttamente il piano delle rappresentazioni mentali di oggetti cui si aderirebbe, che si ‘crederebbero’ veri o si ‘saprebbero’ corretti, ma sul piano che Michel de Certeau chiamerebbe delle ‘arti del fare’” (Pierre Gisel). Un’impresa dunque notevole, nell’ideazione e nella realizzazione. Non posso tuttavia respingere del tutto l’impressione che certe modalità di parlarne e di diffondere i dati sottintendano l’idea “ci scappano” o “ci sono scappati” – tra l’altro significativamente legata alla disaffezione mostrata dalle donne, di ogni fascia di età, e dai giovani in generale. Affrontare le questioni in questo modo non può portare altro che ulteriore frustrazione. Il secondo esempio è istituzionalmente più impegnativo. Mi riferisco infatti all’idea sottesa alla Nuova Evangelizzazione: se si pensa di declinarla come recupero di spazi senza accettare che la figura della presenza cristiana in occidente è cambiata, è un’impresa finita in partenza.
VERSO UNA DIVERSA FORMA DI VITA CRISTIANA
Altro può essere invece quel movimento di conversione a una promessa di cui pure qui si parlava: vivere una diversa forma di vita cristiana, che non si pensi più “l’intero”, ma presenza in grado di esporsi comunicando ciò per cui vive e perciò an- che di ricevere: “in definitiva, tornare all’esperienza radicale della grazia: ‘Date gratuitamente quello che gratuitamente avete ricevuto’ (Mt 10,8), che di per sé implica la reciproca ‘accogliete gratuitamente quello che gratuitamente vi è offerto’” (Torres Queiruga). In questo non c’è ansia di perdita, ma serenità di consegna e attestazione: “non sta a voi conoscere tempi e momenti, ma riceverete la forza dello Spirito mi sa- rete testimoni a Gerusalemme, in Giudea, in Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,7s). Aggiungerei a questo proposito che l’idea di inreligionazione proposta da Queiruga è molto interessante: si può forse integrare sottolineando che il confronto può e deve porsi anche sul piano di ogni vita umana, semplicemente – per evitare che si possa pensare comunque un’alleanza di religioni che, in contesto di “ritorno del sacro”, possano escludere anche un solo uomo o una sola donna perché non aderisce a nessuna di esse.
IN CUI L’EUROPA NON PARLA PER TUTTI
Si impone a questo punto, mi sembra, un’altra osservazione attorno a un’affermazione di Mendoza-Álvarez: ogni teologia è contestuale. Anche in questo caso tuttavia l’adesione teorica può permettere che ne resti in secondo piano la logica conseguenza: e plurale. Ha dunque il diritto, se si può dir così, di riflettere spinta dal peso del vecchio continente, ma ha contemporaneamente il dovere di sapere che non par- la per tutti. Certo i fenomeni di globalizzazione economica e politica producono interconnessioni di portata inedita: tuttavia i punti di vista sono molto diversi e qui lo hanno mostrato “in atto e in pratica” gli interventi proposti dall’Asia e dall’America latina. In ogni caso mi sembra corretto aggiungere che l’Europa non è solo un sogno di collaborazione fra popoli, ma è anche una potenza economica e militare. La questione dell’acquisto italiano degli F35 lo mostra, insieme a molto altro, non ultimi, dal punto di vista delle sottoculture identitarie che manifestano, gli insulti reiterati al ministro Cécile Kyenge.
E LE PERIFERIE SONO VALORIZZATE PER LA RIFORMA DELLA CHIESA
In questo quadro europeo mi proponevo dunque di riprendere la prospettiva della pluralità dei luoghi – le eterotopie di Michel Foucault – unendola a quella delle comunità di pratica proposta da Etienne Wenger: spesso sono coloro che stanno alla periferia di un gruppo a introdurre elementi esterni, perché i leaders sono troppo vincolati agli elementi più statici dell’identità. Mi chiedo ora, alla luce del contributo latinoamericano soprattutto, se applicare questa prospettiva ai luoghi minoritari – penso alle comunità Rom cui ho avuto grazia di accompagnarmi per larga parte della mia vita – o considerati tali anche a livello ecclesiale, come la produzione teologica in prospettiva di genere, possa essere comunque appropriato. La disinvoltura con cui Mendoza-Álvarez proponeva una prospettiva di genere è tuttora molto rara in Italia e comunque minoritaria in Europa: proprio per questo, comunque, non deve passare inosservata l’attenzione con cui Torres Queiruga ha sempre declinato dio al maschile e al femminile. Ritengo infatti che non sia sempre necessariotrattare estesamente la questione, ma sia sufficiente almeno interrompere l’omogeneità imperante. In ogni caso, comunque vada interpretato, per dir così, il rapporto fra centri e periferie anche nelle Chiese resta il fatto che vi sono degli appuntamenti, mancare o centrare i quali è tutt’altro che indifferente. Mi riferisco alla necessità di una riforma delle istituzioni: mi colpiva riavere tra le mani un vecchio – ma pur- troppo attuale – intervento di Karl Rahner che nel 1972 (Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance) affermava che la riforma della Chiesa non può con- tentarsi di pie affermazioni, ma necessita di cambi strutturali. Ora, di fronte all’emozione suscitata dal linguaggio e dalle posizioni pratiche e simboliche di papa Francesco, vescovo di Roma, speriamo veramente che la frase che ho appena scritto risulti presto superata e che le auspicate urgenti riforme vengano per lo meno prese in considerazione.
ABITARE LE SOGLIE DEL NUOVO
Concludendo, certamente ci troviamo su di una soglia, ma, speriamo, non volti nostalgicamente indietro, bensì protesi verso una meta che pur inedita non è ignota e pur chiedendo dedizione è accogliente e promettente. La promessa tuttavia non è quella di conquistare il mondo, ma di essere “benedizione”, come nello stupendo oracolo di Isaia 19,23-25. A tale promessa ben si accompagna l’immagi- ne della trebbiatrice riparata co- me cura per il futuro, di cui ha parlato Antonella Fucecchi. Ave- re sogno e visione (cfr. Gl 3,1 in At 2,17) è dunque accoglienza di un dono, ma è anche sfida intellettuale ed educativa: le qualità indispensabili per abitare queste soglie non si possono trasmettere come un pacco, ma si possono cura- re, come un germoglio.
CRISTINA SIMONELLI
laica, nel 1997 si è diplomata in teologia e scienze patristiche con la tesi: La fede nella resurrezione di Cristo nel “De Trinitate” di Agostino presso l’Augustinianum di Roma, dove sullo stesso tema nel 1999 ha poi difeso la tesi dottorale. È docente di teologia patristica a Verona e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano); è socia fondatrice nonché presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI)




l’appello di tre vescovi profeti

 

“Tornare al primo amore»

albero fiorito

questo l’appello di tre vescovi profeti per una Chiesa sinodale per rivivere una nuova primavera conciliare

Giungono da ogni parte del corpo ecclesiale le pressioni per una riforma strutturale della Chiesa: riemergendo dal panorama di desolazione lasciato dai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – da quel “ritorno alla grande disciplina” che ha richiuso violentemente le finestre aperte dal Concilio – le speranze legate alle parole e ai gesti del nuovo papa alimentano con crescente intensità la richiesta di cambiamenti concreti. Si tratta, sottolinea il teologo Víctor Codina, di una sfida di immane portata, considerando la quantità e la qualità dei cambiamenti necessari: «Il ritorno al Concilio e alla Chiesa dei poveri, il decentramento ecclesiale, la partecipazione del popolo all’elezione dei vescovi e la revisione dell’attuale metodo di elezione papale, la trasformazione dei sinodi episcopali da consultivi a deliberativi, la riforma dei ministeri ordinati (il celibato non obbligatorio per il clero latino, l’ordinazione di uomini sposati, l’accesso delle donne ai ministeri), il ripensamento della morale sessuale e matrimoniale e della pastorale dei divorziati, il dialogo con le scienze e con la biogenetica, l’apertura alla problematica ecologica, l’avvicinamento ecumenico tra le Chiese, il dialogo interreligioso, una maggiore considerazione nei confronti dei teologi, la riforma della Curia vaticana e un lungo eccetera». Anche solo riguardo alla riforma della Curia, a cui papa Francesco ha iniziato a porre mano attraverso la creazione del consiglio di otto cardinali (al di là del profilo controverso di alcuni di essi), il compito si annuncia tutt’altro che semplice.

È un progetto chiaramente ambizioso quello a cui guarda, per esempio, il teologo Leonardo Boff, convinto che il modo migliore di riformare la Curia sia quello di operare «un grande decentramento delle sue funzioni»: «Perché – scrive il 16 agosto sul suo blog (leonardoboff.wordpress.com) – il dicastero per l’Evangelizzazione dei Popoli non può trasferirsi in Africa? Quello del Dialogo interreligioso in Asia? Quello di Giustizia e Pace in America Latina? Quello della Promozione dell’unità dei cristiani a Ginevra, insieme al Consiglio ecumenico delle Chiese? Alcuni, per gli aspetti più immediati, resterebbero in Vaticano. Attraverso videoconferenze, skype e altre tecnologie della comunicazione, potrebbero mantenere un contatto quotidiano immediato. Si eviterebbe così la creazione di un anti-potere, su cui la Curia tradizionale è tanto esperta. Ciò renderebbe la Chiesa cattolica realmente universale».Un «decentramento del processo decisionale nella Chiesa», insieme al «riconoscimento di una responsabilità collegiale», all’«abbandono di strutture assolutiste e monarchiche», all’«emancipazione delle donne a tutti i livelli» è quanto sollecita anche il movimento internazionale Noi Siamo Chiesa, evidenziando la necessità che il processo di riforma non avvenga «a porte chiuse», ma «in maniera trasparente e in dialogo aperto con le Chiese locali». Tanto più che, come evidenzia ancora Codina, «lo Spirito opera solitamente dal basso, dalla periferia, da quanti non fanno parte del sistema sociale ed ecclesiale, dai laici, dai giovani, dalle donne, dai poveri, dagli indigeni, da quegli esclusi della storia che erano i prediletti di Gesù». È a partire da loro, conclude il teologo, che lo Spirito sta «invitando tutta la Chiesa a tornare a Gesù di Nazareth».

Nel dibattito intervengono anche tre voci d’eccezione, quelle di dom Tomás Balduino, vescovo emerito di Goiás, dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia e dom José Maria Pires, arcivescovo emerito di Paraíba, ultimi rappresentanti dell’eroica e profetica generazione di vescovi della Chiesa della Liberazione nata a Medellín, i quali, in una lettera ai fratelli dell’episcopato brasiliano, rivolgono loro un forte e pressante invito ad agire, riprendendo concretamente «la mistica del Regno di Dio nel cammino con i poveri e a servizio della loro liberazione» e intervenendo «con più libertà e autonomia» sulle «questioni che richiedono una revisione pastorale e teologica». «Se i pastori di tutto il mondo – scrivono i tre vescovi – esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo ed esprimessero più liberamente la propria opinione su vari temi, certamente cadrebbero alcuni tabù e la Chiesa riuscirebbe a riprendere quel dialogo con l’umanità a cui Giovanni XXIII ha dato inizio e a cui sta guardando papa Francesco».

Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, la lettera dei tre vescovi e, dallo spagnolo, il comunicato del movimento internazionale Noi Siamo Chiesa. (claudia fanti)

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Il momento di agire

di José María Pires, Tomás Balduino, Pedro Casaldáliga

Cari fratelli nell’episcopato,

siamo tre vescovi emeriti che, sulla base dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, pur non essendo più pastori di una Chiesa locale, partecipiamo comunque al Collegio episcopale, e insieme al papa, ci sentiamo responsabili della comunione universale della Chiesa cattolica.Ci ha molto rallegrato l’elezione di papa Francesco alla guida della Chiesa, per i suoi messaggi di rinnovamento e di conversione, i suoi ripetuti appelli ad una maggiore semplicità evangelica e ad un più accentuato zelo di amore pastorale per tutta la Chiesa. Ci ha anche colpito la sua recente visita in Brasile, in particolare le sue parole ai giovani e ai vescovi. E questo ci ha richiamato alla memoria lo storico Patto delle Catacombe.Sarà possibile per noi vescovi renderci conto di cosa, teologicamente, significhi questo nuovo orizzonte ecclesiale? In Brasile, in un’intervista, il papa ha ricordato la famosa massima medievale: “Ecclesia semper renovanda”.Pensando a questa nostra responsabilità come vescovi della Chiesa cattolica, ci permettiamo questo gesto di fiducia di scrivervi queste riflessioni, rivolgendovi una richiesta fraterna a sviluppare un più intenso dialogo al riguardo.

1. LA TEOLOGIA DEL VATICANO II SUL MINISTERO EPISCOPALE

Il Decreto Christus Dominus dedica il 2º capitolo alla relazione tra il vescovo e la Chiesa locale. Ogni diocesi è presentata come «porzione del Popolo di Dio» (e non più solo come un territorio) e si afferma che «in ogni Chiesa locale è presente e opera autenticamente la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» (CD 11), poiché ogni Chiesa locale non è solo un pezzo di Chiesa o una filiale del Vaticano, ma è veramente Chiesa di Cristo e così la designa il Nuovo Testamento (LG 22). «Ogni Chiesa locale è unita dallo Spirito Santo per mezzo del Vangelo, ha la sua propria consistenza nel servizio alla carità, cioè nella missione di trasformare il mondo e di testimoniare il Regno di Dio. Tale missione è espressa nell’Eucarestia e nei sacramenti. E vissuta nella comunione con il suo pastore, il vescovo».Tale teologia pone il vescovo non al di sopra o al di fuori della sua Chiesa, ma come cristiano inserito nel gregge con un ministero di servizio ai suoi fratelli. È a partire da questo inserimento che ogni vescovo, locale o emerito, come pure gli ausiliari e coloro che ricoprono funzioni pastorali senza diocesi, in quanto portatori del dono ricevuto da Dio nell’ordinazione sono tutti membri del Collegio Episcopale e responsabili della cattolicità della Chiesa.

2. LA SINODALITÀ NECESSARIA NEL XXI SECOLO

L’organizzazione del papato come struttura monarchica centralizzata è stata istituita a partire dal pontificato di Gregorio VII, nel 1078. Durante il primo millennio del cristianesimo, il primato del vescovo di Roma era organizzato in forma più collegiale e l’intera Chiesa presentava una maggiore sinodalità.Il Concilio Vaticano II ha orientato la Chiesa alla comprensione dell’episcopato come un ministero collegiale. Tale innovazione si è scontrata tuttavia, durante il Concilio, con l’opposizione di una minoranza critica. La questione, in realtà, non è stata sufficientemente fissata. Tanto più che il Codice di Diritto Canonico del 1983 e i documenti emanati dal Vaticano a partire da allora non danno risalto alla collegialità, ma anzi ne restringono la comprensione e creano barriere al suo esercizio. Il tutto a vantaggio della centralizzazione e del crescente potere della Curia romana e a scapito delle Conferenze nazionali e continentali e dello stesso Sinodo dei vescovi, di carattere solo consultivo e non deliberativo, organismi che pure detengono, insieme al vescovo di Roma, la piena e suprema potestà in relazione alla Chiesa intera.Ora, papa Francesco sembra voler restituire alle strutture della Chiesa cattolica e a ciascuna delle nostre diocesi un’organizzazione più sinodale e una dimensione di comunione collegiale. In questo quadro, egli ha costituito una commissione di cardinali di tutti i continenti per studiare una possibile riforma della Curia Romana. Tuttavia, per muovere passi concreti ed effettivi in questa direzione – come già sta avvenendo – egli ha bisogno della nostra partecipazione attiva e cosciente. Dobbiamo farlo come forma di comprensione della funzione stessa dei vescovi: non come meri consiglieri e ausiliari del papa, che lo aiutano nella misura in cui egli lo chiede o lo vuole, ma come pastori incaricati insieme al papa di provvedere alla comunione universale e alla cura verso tutte le Chiese.

3. IL CINQUANTENARIO DEL CONCILIO

In questo momento storico, che coincide anche con il cinquantenario del Concilio Vaticano II, il primo contributo che possiamo offrire alla Chiesa è assumere la nostra missione di pastori che esercitano il sacerdozio del Nuovo Testamento, non come sacerdoti della legge antica, ma come profeti. Ciò ci obbliga a collaborare effettivamente con il vescovo di Roma, esprimendo con più libertà e autonomia la nostra opinione su questioni che richiedono una revisione pastorale e teologica. Se i vescovi di tutto il mondo esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo ed esprimessero più liberamente la propria opinione su vari temi, certamente cadrebbero alcuni tabù e la Chiesa riuscirebbe a riprendere quel dialogo con l’umanità a cui Giovanni XXIII ha dato inizio e a cui sta guardando papa Francesco.L’occasione, allora, è quella di assumere un Concilio Vaticano II attualizzato, superando una volta per tutte la tentazione della Cristianità, in maniera da vivere all’interno di una Chiesa plurale e povera, segnata dall’opzione per i poveri, da un’ecclesiologia di partecipazione, di liberazione, di diaconia, di profezia, di martirio… Una Chiesa esplicitamente ecumenica, di fede e politica, attenta all’integrazione della Nostra America, alla rivendicazione piena dei diritti della donna, superando al riguardo le chiusure provenienti da un’ecclesiologia sbagliata.Concluso il Concilio, alcuni vescovi – molti dei quali brasiliani – hanno sottoscritto il Patto delle Catacombe di Santa Domitilla. E, in questo impegno di radicale e profonda conversione personale, sono stati seguiti da circa 500 vescovi . È stato così che si è inaugurata una ricezione coraggiosa e profetica del Concilio.

Oggi, varie persone, in diverse parti del mondo, stanno pensando ad un nuovo Patto delle Catacombe. Per questo, volendo contribuire alla vostra riflessione ecclesiale, vi inviamo in allegato il testo originale del Primo Patto.Il clericalismo denunciato da papa Francesco sta sequestrando la centralità del Popolo di Dio nella comprensione di una Chiesa i cui membri, attraverso il battesimo, sono innalzati alla dignità di “sacerdoti, profeti e re”. Lo stesso clericalismo sta escludendo il protagonismo ecclesiale dei laici e delle laiche, facendo sì che il sacramento dell’ordine si sovrapponga al sacramento del battesimo e alla radicale uguaglianza in Cristo di tutti i battezzati e le battezzate.Inoltre, in un contesto mondiale in cui la maggior parte dei cattolici si trova nei Paesi del Sud (America Latina e Africa), diventa importante dare alla Chiesa altri volti oltre a quello espresso nella cultura occidentale. Nei nostri Paesi, è necessario avere la libertà di de-occidentalizzare il linguaggio della fede e della liturgia latina, non per creare una Chiesa diversa, ma per arricchire la cattolicità ecclesiale.Infine, ad essere in gioco è il nostro dialogo con il mondo. È l’immagine di Dio che diamo al mondo e che testimoniamo attraverso il nostro modo di essere, il linguaggio delle nostre celebrazioni e la forma che assume la nostra pastorale. Questo è il punto che deve più preoccuparci ed esigere la nostra attenzione. Nella Bibbia, per il Popolo di Israele, “tornare al primo amore” significava riprendere la mistica e la spiritualità dell’Esodo.

Per le nostre Chiese dell’America Latina, “tornare al primo amore” significa riprendere la mistica del Regno di Dio nel cammino con i poveri e a servizio della loro liberazione. Nelle nostre diocesi, le pastorali sociali non possono essere mere appendici dell’organizzazione ecclesiale o espressioni minori della nostra cura pastorale. Al contrario, è questo che ci costituisce come Chiesa, assemblea riunita dallo Spirito per testimoniare che il Regno è vicino e che è ciò che chiediamo e vogliamo: venga il tuo Regno!

Questo è senza dubbio, soprattutto per noi vescovi, urgentemente, il momento di agire. Papa Francesco, rivolgendosi ai giovani durante la Giornata mondiale della gioventù ed esprimendo il suo appoggio alle loro mobilitazioni, così si è espresso: «Voglio che la Chiesa vada in strada». E questo fa eco all’entusiastica parola rivolta dall’apostolo Paolo ai Romani: «È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (13,11-12). Sia questa la nostra mistica e il nostro più profondo amore.Un abbraccio, con fraterna amicizia.