l’ambiguità politica dei cristiani verso i rom

 

 

 

 

carovane di rom

la politica del governo francese di Hollande verso i rom non è delle più aperte all’accoglienza, in questo molto vicina o identica a quella precedente di Sarcozy

e i cristiani francesi come reagiscono? al tempo di Sarcozy molti avevano alzato la voce per farsi sentire forte da un governo dei ‘cattivi’, ma ora sembra che vogliano “trattare coi guanti”il presente governo per paura del peggio … come da noi! e sempre a pagarla sono loro!

Per i rom, dei cristiani molto discreti

di Philippe Clanché
in “cathoreve.over-blog.com” del 26 settembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Sostenuta da Manuel Valls e convalidata da François Hollande, la politica del nostro governo verso i rom è ormai chiara. A loro avviso, i rom, in grande maggioranza, non avrebbero il desiderio di integrarsi né di restare in Francia. Nessun lettore serio del Vangelo può ammettere quello che sta succedendo: né le pratiche, né i discorsi. Le ONG di sostegno agli stranieri, in particolare quelle di ispirazione cristiana (Secours Catholique, Acat, CCFD Terre solidaire, Cimade…) hanno già suonato il campanello d’allarme sul proseguimento da parte del governo socialista dello spirito che aveva prevalso nell’era Sarkozy, con i ministri Hortefeux e Guéant. A quel tempo, i cristiani di base e i loro dirigenti, sia l’episcopato cattolico che la Fédération protestante de France, avevano alzato la voce. Ricordiamo che i francescani di Tolosa avevano avviato nel 2007 i cerchi del silenzio per denunciare le condizioni riservate agli stranieri nei Centres de rétention. Questo movimento prosegue, aperto a tutti i cittadini, ma animato soprattutto da cristiani. Che cosa fanno allora oggi quegli stessi cristiani, numerosi e ammirevoli, impegnati dalla parte degli stranieri? Le loro proteste sono state ascoltate? Questi militanti, culturalmente di sinistra, si sentivano più a loro agio quando al potere c’erano “i cattivi”. Forse, coscientemente o meno, vogliono trattare coi guanti un governo, certo deludente, ma la cui caduta potrebbe aprire la strada ad un potere ancora peggiore. Ad ogni modo, le loro voci non hanno alcuna influenza nel gioco politico ad alto livello. Quanto ai cattolici che hanno sfilato in questi ultimi mesi contro un altro progetto governativo (dal carattere antievangelico poco evidente), non hanno l’intenzione, pare, di cambiare obiettivo alla loro lotta. E le ipotetiche evoluzioni legislative sul fine vita o la procreazione medicalmente assistita per le lesbiche li mobilitano più di un dramma reale che si svolge davanti alla porta di casa. Dato che quei cattolici non hanno paura a protestare contro un governo di sinistra, dato che sono numerosi e ben organizzati, dato che hanno preso gusto a scendere in piazza, che si mobilitino per l’accoglienza degli stranieri. Avranno dalla loro parte i cristiano-sociali (indipendentemente dalle loro idee sul matrimonio) e molti militanti di sinistra. Potremmo assistere ad una bella riconciliazione del popolo cattolico dopo i dibattiti dell’inverno scorso. Non contro un governo guidato dalla demagogia e dall’elettoralismo, ma per i più deboli. Se questo non accadrà, potrà solo voler dire che il mondo cattolico, o almeno la sua maggioranza, sta precipitando verso il lato oscuro dello scacchiere politico




sconfiggere la morte: la bella intervista di p. Maggi

 

p. Maggi

“chi non muore si rivede” : questo il titolo dello spiritoso saggio che p. Maggi ha scritto all’indomani della sua brutta (o bella?!) avventura che lo ha portato a vedere la morte da vicino:

Sconfiggere la morte

intervista ad Alberto Maggi

a cura di Franco Marcoaldi
in “la Repubblica” del 27 settembre 2013

Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di “eresia”, è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell’esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona: Chi non muore si rivede.«Avevo appena ultimato un saggio sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva. Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi… Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell’azione creatrice del Padre». Fatto sta che oggi si persegue tutt’altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie. «È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell’uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all’infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l’uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa…Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po’, ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla morte. Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l’estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un’ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto». Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti. «Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: “Noi che siamo già resuscitati”, “noi che sediamo nei cieli”. Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentre bios indica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovanisce di giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai». E allora l’Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni? «Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando
risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa». Non è una visione del cristianesimo un po’ troppo gioiosa, consolatoria? «Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall’alto. Quando stavo male, le persone pie — che sono sempre le più pericolose — mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione». Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all’effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio. «Questo secondo l’immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l’uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un’offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l’uomo ». Ecco che salta fuori Maggi l’eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede. «La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l’uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l’uomo. Con Gesù invece Dio è all’inizio e il traguardo finale è l’uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l’osservanza della legge divina e il bene dell’uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell’uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all’uomo». Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos’altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite? «Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l’apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si possiede soltanto quello che si dà». Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario. «Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all’immensità dell’amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell’Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce».




la sfida di papa Feancesco: verso nuove frontiere

altare

Chris Lowney, autore di Pope Francis e direttore di uno dei più grandi sistemi di assistenza sanitaria ospedaliera, riflette sulla sfida che papa Francesco rivolge alla chiesa di “percorrere strade polverose verso nuove frontiere”:

Francesco ci sfida a percorrere strade polverose verso nuove frontiere

di Chris Lowney*
in “ncronline.org” del 27 settembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Credo che papa Francesco stia cercando di attivare un enorme cambiamento culturale nella Chiesa cattolica. E vedo l’inconfondibile impronta spirituale di Sant’Ignazio di Loyola nella spiritualità e nello stile di leadership del papa. “Chi è Jorge Mario Bergoglio?”, ha chiesto padre Antonio Spadaro al papa durante la ormai famosa intervista fatta in agosto. Mentre molti politici e celebrità avrebbero sfruttato questa semplice domanda per dare una risposta autopromozionale, ecco che cosa ha detto il papa: “Sono un peccatore”. Una risposta che trae da una pagina degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che comprende alcune meditazioni forti sul peccato personale: “Mi considero come una piaga e un ascesso, da cui sono usciti gravi peccati”. Ma non c’è una visione deprimente nella spiritualità ignaziana di Francesco; è solo una maniera semplice e schietta di parlare della condizione umana. E benché i postmoderni qui nella New York cosmopolita possano rifiutare il discorso cattolico sul peccato, tutti possono sentire dentro di sé una risonanza rispetto alla visione papale di una chiesa-“ospedale da campo” che si concentra innanzitutto sullo sforzo di guarire. Siamo tutti profondamente imperfetti, papi inclusi, ma ciononostante intrinsecamente resi degni e incondizionatamente amati da Dio. Questo è stato un motivo ricorrente di tutta la vita di Bergoglio. Mentre scrivevo Pope Francis: Why He Leads the Way He Leads, ho parlato con molti gesuiti che si sono formati sotto di lui quando era rettore di un grande seminario gesuita. Il padre gesuita Hernàn Paredes mi ha detto: “Per Bergoglio era importante che noi ci amassimo così come eravamo”. Paredes ci fa partecipi di un curioso aneddoto su un collega equadoregno che un giorno orgogliosamente indossava una giacca tradizionale, in cui erano intessute delle immagini di lama. Un seminarista argentino crudelmente dileggiava la tenuta del ragazzo, come se si trattasse di un burino appena arrivato nella grande città. Allora Bergoglio invitò l’argentino a portare quella giacca per un giorno, come meditazione “ambulante” per l’intera comunità: ogni persona ha una fondamentale dignità, è degna di rispetto per diritto di nascita; l’amore costante di Dio non è condizionato da ciò che gli altri pensano di noi, dal nostro status o dalla nostra cattiveria. Questo messaggio chiave del cattolicesimo e degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola è fondamentale per la visione di Francesco sulla chiesa. Nell’intervista, ha parlato di una chiesa che “è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate”. Quando visita i rifugiati a Lampedusa, abbraccia i disabili in Piazza San Pietro, dice che vuole una chiesa che sia “per i poveri”, o ci incoraggia a diffondere la notizia della misericordia di Dio, implicitamente ci sta dicendo che la nostra cappella è ancora troppo piccola. Non ne abbiamo ancora fatto una casa per tutti, e fare questo è compito di ogni cattolico perché, nella ignaziana visione del mondo di papa Francesco, non siamo soltanto peccatori amati, ma siamo ognuno personalmente, pur peccatori, chiamati a lavorare accanto a Gesù e diffondere la buona notizia di Gesù. Questo ci porta al secondo potente tema ignaziano nell’intervista di Spadaro: lo spirito di frontiera. Francesco ha detto che fu inizialmente attratto dall’ordine gesuita per tre ragioni, una delle quali era il suo “spirito missionario”. Ignazio di Loyola esortava i gesuiti a vivere “con un piede alzato”, sempre pronti a cogliere la prossima opportunità. Istituì anche uno speciale quarto voto di obbedienza: essere sempre disponibili ad essere inviati in missione dal papa. Questo atteggiamento mentale liberò una straordinaria energia centrifuga nelle prime generazioni gesuite, che notoriamente andarono in ricerca al di fuori delle frontiere del mondo allora conosciuto dagli europei. Lo stesso paese natale del papa, l’Argentina, ad esempio, è ancora punteggiato dalle rovine di importanti insediamenti innovativi – le cosiddette “riduzioni del Paraguay” (1) – che i
gesuiti, da pionieri, fecero sorgere nelle zone abitate dagli indigeni. Ma Francesco ci sta invitando ad interpretare la “frontiera” in un senso molto più ampio. Le frontiere del cattolicesimo del XXI secolo non riguardano tanto le persone lontane geograficamente, quanto piuttosto coloro che non danno molto valore alla religione organizzata e che sono stati trascurati o esclusi. Il papa ha detto al suo intervistatore che ammirava il “dialogo con tutti… perfino con i suoi avversari” di uno dei primi gesuiti, padre Peter Faber. E, ha detto il papa, “cerchiamo di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente”. Questa non è una banalità, questa è una strategia. Un altro gesuita che ho intervistato per il progetto del mio libro ha detto che a padre Bergoglio fu chiesto una volta di assumersi la responsabilità di una nuova parrocchia in una comunità impoverita e che lui “arruolò” alcuni seminaristi volontari per assisterlo. A fare cosa? Ebbene, ad andare in giro per la città. Ad incontrare tutti, non solo quelli che andavano in chiesa. A trovare i più poveri e vedere che cosa era possibile fare per aiutarli. Quando i seminaristi tornavano da quelle visite, Bergoglio era solito controllare quali scarpe fossero impolverate – cioè chi mostrava uno spirito di frontiera per incontrare le persone lì dove realmente vivono. Quando il gruppo scoprì quanto effettivamente fossero poveri i loro vicini, un gesuita ricorda che Bergoglio disse qualcosa come: “Non possiamo stare qui seduti a braccia conserte, mentre abbiamo tutto, e quella gente non ha nemmeno abbastanza da mangiare”. Così passarono all’azione, mettendo un grande pentolone in un campo per dare avvio ad una primitiva mensa dei poveri. Questo stile innovativo, instancabilmente energico e volto all’esterno è fondamentale per lo “spirito di frontiera” che Francesco vuole instillare. Nell’omelia del giorno successivo alla sua elezione ha detto: “La nostra vita è un viaggio, e quando smettiamo di essere in movimento, le cose vanno male”. La frontiera è ora il nostro vicinato, non un posto all’altro capo del mondo. Lo riusciremo a capire più chiaramente accogliendo il grande mantra della spiritualità ignaziana raccomandato dal papa: trovare Dio in ogni cosa. Questo significa trovare Dio presente non solo nel nostro pasto eucaristico, ma nel costituire il personale di quegli “ospedali da campo” che guariranno sofferenza, alienazione, disperazione o povertà dei nostri vicini. All’inizio di questo scritto, sostenevo che Francesco sta cercando di attivare un enorme cambiamento culturale nella nostra chiesa. Enorme cambiamento culturale: è un’iperbole? Ebbene, considerate la pioggia di parole e frasi sollevate dalle dichiarazioni dell’intervista del papa sulla chiesa, sulla vita dei gesuiti o dei cattolici: “vivere al confine ed essere audaci”, “essere in ricerca, creativi e generosi”, “trovare nuove strade”, “dialogare con tutti, anche con gli avversari”. Purtroppo, pochi osservatori obiettivi assocerebbero totalmente queste caratteristiche alla nostra chiesa di oggi. Francesco sta chiedendo a ciascuno di noi di contribuire a guidare il cambiamento culturale che renderà quelle caratteristiche più pienamente vive. Sì, ognuno di noi deve aiutare a guidare. Dopo tutto, ha detto che i vescovi “devono essere capaci di accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade”. Allora, impolveriamo le nostre scarpe e troviamo nuove strade.
(1) Riduzioni gesuite: piccoli nuclei cittadini in cui erano strutturate le missioni, con lo scopo di civilizzare e di evangelizzare. *Chris Lowney,  autore di Pope Francis: Why He Leads the Way He Leads (Loyola Press), è stato amministratore delegato di J.P. Morgan & Co. ed è ora direttore del consiglio di Catholic Health Initiatives, uno dei più grandi sistemi nazionali di assistenza sanitaria e ospedaliera.




Razzismo, un caso al giorno di cattiva informazione e odio contro rom

popolo rom

A far luce sulla loro discriminazione è il rapporto “Antiziganismo 2.0”. Dei 370 casi di incitamento all’odio e alla discriminazione, il 75% sono opera di esponenti politici, 58 di privati cittadini e 20 di giornalisti.

Politica, media e internet: la cattiva informazione su rom e sinti scorre abbondante nei canali che plasmano l’opinione pubblica. Modificando la percezione e alimentando pregiudizi antichi che inseguono da sempre questi popoli. A far luce sulla loro discriminazione è il rapporto “Antiziganismo 2.0”, presentato dall’ “Osservatorio 21 luglio” e realizzato grazie al monitoraggio di circa 140 fonti selezionate tra i principali mezzi di informazione italiani. Nel mirino dei ricercatori, dal primo settembre 2012 al 15 maggio 2013, parole chiave quali rom, zingari, nomadi, sinti e giostrai.

I risultati dello studio confermano che politica e stampa contribuiscono in modo determinante alla discriminazione dei rom: ogni giorno, in Italia, si registrano in media 1,43 casi di incitamento all’odio, per lo più da parte di esponenti politici; mentre sono in media 1,86 gli episodi quotidiani di informazione scorretta su giornali nazionali e locali. In totale, negli otto mesi e mezzo di osservazione, sono stati rilevati 370 casi di incitamento all’odio e 482 casi di informazione scorretta.

Numeri che danno un’idea delle dimensioni dell’antiziganismo. Fenomeno definito dalla “Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza” come “una forma di razzismo particolarmente persistente, violenta, ricorrente e comune”. Nell’Europa dei diritti e della cittadinanza, insomma, i rom sono ancora considerati ospiti indesiderati. Anche se sono la minoranza europea più numerosa: solo nei paesi membri del Consiglio d’Europa, contano tra gli 11 e i 12 milioni di persone. La maggioranza di loro, inoltre, non sono affatto nomadi. E nel nostro paese, dove sono circa 200mila, almeno la metà sono cittadini italiani.

“L’emergenza non sono i rom ma le politiche europee. Per fortuna si moltiplicano gli appelli per la piena parità dei diritti e dei doveri”, osserva a questo proposito Giovanni Rossi, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. “Il problema non è solo italiano, ma europeo. Sono stati spesi troppi milioni per politiche sbagliate”.

Scavando tra i dati raccolti dall’Osservatorio, si comprende meglio la geografia dell’antiziganismo: dei 370 casi di incitamento all’odio e alla discriminazione, 281 (il 75% del totale) sono opera di esponenti politici, 58 di privati cittadini e 20 di giornalisti.

I quotidiani risultano il principale strumento di diffusione (234 casi), seguiti da Internet (51), Twitter (23), e Facebook (10). Per la carta stampata, la maglia nera va al Corriere della sera, che tra edizioni locali e nazionali raccoglie il numero più elevato di segnalazioni (12,9%), seguito da Tirreno (11%), Messaggero (7,5%), Tempo (6%) e Repubblica (6%). Quasi sempre, comunque, non si tratta di scorrettezze deliberate, ma di informazioni diffuse in modo acritico e tale da rafforzare stereotipi e pregiudizi.

Ancora più interessante è l’analisi del panorama politico. Il 59% dei casi di incitamento all’odio riguarda esponenti di partiti di destra o centro-destra. Per 90 volte, i responsabili sono politici della Lega Nord, seguiti dal Popolo delle libertà (74), la Destra (30) e Forza Nuova (11). Neanche il Partito Democratico, con 9 segnalazioni, risulta immacolato.

Dal punto di vista geografico, la discriminazione vede al primo posto il centro-nord, con il 52% delle segnalazioni, di cui il 22% nella sola Lombardia. Il centro-sud si attesta invece sul 43%, di cui il 34% nella sola Roma, che registra così quasi un terzo di tutte le segnalazioni sul territorio nazionale.

In questo scenario, il rapporto dell’Osservatorio 21 luglio è un contributo utile per comprendere e, quando possibile, prendere decisioni: “Il fenomeno assume oggi in Italia dimensioni preoccupanti. Ai rom si associano indistintamente e automaticamente degrado, incuria, malvivenza, pericolosità sociale”, dichiara Carlo Stasolla, presidente dell’Osservatorio. “E’ necessario contrastare questi stereotipi e pregiudizi, alimentati da esponenti politici che intendono parlare alla pancia del proprio elettorato”.

di Gabriele Carchella




don Angelo Casati commenta il vangelo di domani

la parola della domenicaAnno liturgico C omelia di don Angelo nella 26ª Domenica del Tempo Ordinario mare fiore

Am 6,1.4-7  Sal 14 1 Tm 6,11-16  Lc 16,19-31

p. Maggi commenta il vangelo di domani

 

p. Maggi

XXVI TEMPO ORDINARIO – 29 settembre 2013

NELLA VITA, TU HAI RICEVUTO I TUOI BENI, E LAZZARO I SUOI MALI; MA ORA LUI E’ CONSOLATO, TU INVECE SEI IN MEZZO AI TORMENTI – Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi
Lc 16,19-31
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:  «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Per la terza e ultima volta appare nel vangelo di Luca l’espressione “uomo ricco”. Questa espressione è sempre negativa. E’ già apparsa una prima volta come l’uomo stolto, sciocco, ricco, ingordo, demolisce i granai per costruirne degli altri e il Signore gli dice “oh stupido! Questa notte muori e tutto quello che hai lasciato, per chi sarà?”
1
Abbiamo visto la volta precedente la stessa espressione nell’uomo ricco che loda il fattore disonesto e Gesù denuncia il fatto che la ricchezza è sempre disonesta. I disonesti sono talmente perversi nel loro sistema di ricchezza e di valori, che ammirano i disonesti. E questa è la terza volta, è la parabola conosciuta da tutti come quella del ricco e del povero Lazzaro.
E’ il capitolo 16, versetti 19 e segg. di Luca.  L’evangelista dice “«C’era un uomo ricco»”, e con un’abile pennellata ne da un ritratto, “«indossava vestiti di porpora e di lino finissimo»”. Oggi potremmo dire che vestiva firmato da capo a piedi; la povertà interiore ha bisogno di esprimersi nel lusso esteriore.
“«E ogni giorno si dava a lauti banchetti»”, quindi una fame insaziabile; è la fame interiore che crede di sopire ingurgitando dei cibi. L’unica descrizione che Luca da del ricco è questa, non si dice che – come a volte si pensa – questo ricco sia  malvagio, cattivo, nulla di tutto questo. E’ un uomo ricco e, secondo la tradizione biblica ebraica, era benedetto da Dio perché Dio premiava i buoni con la ricchezza e li malediva con la povertà.
“«Un povero, di nome Lazzaro»”, l’unica volta che un personaggio delle parabole ha un nome, e questo nome significa ‘Dio aiuta’,  “«stava alla sua porta, coperto di piaghe»”. Le piaghe erano considerate un castigo inviato da Dio, secondo il libro del Deuteronomio, cap. 28. Quindi è un uomo che è colpevole della sua miseria e delle sue piaghe.
“«Bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani»”, cioè gli animali più impuri, gli esseri considerati più impuri, “«che venivano a leccare le sue piaghe»”. Quindi è impuro chi vive fra gli impuri. Ebbene, a sorpresa, dice Gesù “«Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli».
L’uomo che sulla terra aveva come unica compagnia gli esseri più impuri, i cani, viene portato dagli angeli, cioè gli esseri più puri, quelli più vicini a Dio.  “«Accanto ad Abramo», per comprendere bene questa parabola di Gesù, notiamo che è rivolta ai farisei che si beffavano di Gesù che aveva detto che non è possibile servire Dio e il denaro, e, proprio perché rivolta ai farisei, Gesù parla con le categorie farisaiche del premio e del castigo da ricevere nell’aldilà.
E lo fa secondo un libro conosciutissimo a quell’epoca, il libro di Enoch, dove il regno dei morti veniva considerato un grande baratro, dove il punto più luminoso era il seno di Abramo, il punto più oscuro era dove andavano a finire i malvagi.
“«Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi», il termine ‘inferi’ traduce il termine greco ‘ade’ che significa ‘regno dei morti’, “«tra i tormenti, alzò gli occhi»”, e finalmente si accorge di Lazzaro. Il ricco di questa parabola non viene condannato per essere stato malvagio nei confronti del povero, per averlo maltrattato, ma semplicemente non si è accorto della sua esistenza.
Solo adesso, quando è nel bisogno, finalmente se ne accorge. Ma i ricchi non cambiano, i ricchi sono animati da una perversione che non è possibile sradicare dalla loro esistenza. E infatti non chiede, ancora comanda, “«’Padre Abramo, mostrami pietà’»”, mostrami misericordia, e ordina, “«’Manda Lazzaro’»”, lui, il ricco pensa che tutto gli sia dovuto. Lui si serve delle persone, non ha mai servito. 2
E Abramo gli risponde, sempre secondo la teologia farisaica, con il fatto del premio e del castigo “«’Tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali’»”. E quindi, come in terra vivevano su due mondi differenti dove non si incontravano – ripeto il ricco ha ignorato l’esistenza del povero – adesso sono su due mondi completamente distanti.
Ma ecco l’egoismo del ricco, l’egoismo che non si può sradicare, che arriva fino in fondo. Dice, “«Allora padre, ti prego di mandare Lazzaro’»”, lui di Lazzaro di serve, “«’a casa di mio padre perché ho cinque fratelli’»”. Gli interessa soltanto la sua famiglia, non dice “mandalo al popolo, alla gente, mandalo ad annunciare cosa succede se accumulano denari, se non pensano agli altri”.
No, il ricco è incurabilmente egoista, pensa soltanto a sé stesso e che tutto gli sia dovuto. Allora manda ai suoi fratelli, alla sua famiglia, degli altri non gli interessa.
Ed ecco la risposta di Abramo, “«Hanno Mosè e i Profeti’»”, cioè quelli che hanno legiferato a favore dei poveri, Mosè ha detto “la parola del Signore è che nessuno sia bisognoso”, i profeti hanno tanto tuonato contro i ricchi,   “«’Ascoltino loro’»”.
E la replica del ricco: “«No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno’»”. Ed ecco la sentenza importante e drammatica di Gesù, “«Abramo rispose: ‘Se non ascoltano Mosè’»”, la parabola è rivolta ai farisei, quelli che si fanno scudo della legge di Mosè, della dottrina, soltanto per coprire i propri interessi.
Queste persone tanto pie, tanto devote, i zelanti custodi della tradizione e della fede, quando non conviene, sono i primi ad ignorare la legge di cui sono difensori. “«’Se non ascoltano Mosè e i Profeti non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti’»”.
Perché Gesù afferma questo? Perché quanti sono stati incapaci di condividere il pane con l’affamato, non riusciranno mai a credere nel Gesù risorto, che è riconoscibile soltanto – come scriverà Luca nell’episodio di Emmaus – nello spezzare del pane. Quindi è un monito molto severo contro il cancro della ricchezza.
Una persona che viene affetta da questa malattia è incurabile e non si guarisce neanche nell’aldilà.




Cardenal: “tra cristianesimo e rivoluzione non c’è contraddizione”

Ernesto Cardenal
La sua popolarità la deve alla rivoluzione sandinista vittoriosa nel 1979, di cui fu animatore e ministro di governo nella prima giunta, ma anche al dito alzato di Giovanni Paolo II nel marzo del 1983, con cui il pontefice polacco lo redarguisce assieme al fratello Fernando nell’aeroporto di Managua, da poco ribattezzato Augusto Cesar Sandino. La fotografia di Ernesto Cardenal inginocchiato davanti al Papa con l’indice alzato fece il giro del mondo. Ed anche quel che successe dopo alla presenza di Giovanni Paolo II, nella piazza della rivoluzione di Managua, con centinaia di migliaia di persone e il coro sandinista davanti all’altare, sapientemente amplificato dal sistema televisivo, che scandiva «entre cistianismo y revolución no hay contraddicion», il celebre slogan coniato da Cardenal.
Sono passati trent’anni da quel momento e a vederlo oggi, 88enne, camminare lentamente appoggiato al tripode, incurvato e con la folta chioma bianca cinta dall’immancabile basco nero alla Che Guevara, si direbbe che il tempo è passato anche per lui, e che l’isolamento nell’isola di Solentiname, nel Lago Nicaragua, non l’abbia preservato dalla corruzione degli anni. Ma è una impressione esteriore, perché dopo le prime parole si capisce che Ernesto Cardenal non è cambiato affatto. Tra cristianesimo e rivoluzione non c’è proprio contraddizione, ripete imperterrito. «Non sono la stessa cosa, ma sono perfettamente compatibili. Si può essere cristiani e marxisti o scientifici» ribadisce mentre non nasconde la sua sorpresa per l’elezione di un Papa del suo stesso emisfero, anche se di qualche meridiano più a sud rispetto al Nicaragua. «Ero appena arrivato a Mendoza, in Argentina, lo scorso aprile quando un giornalista mi ha chiesto cosa pensassi del Papa argentino. Non potevo crederlo e per tre volte gli ho chiesto di chi stesse parlando» ricorda. «Non mi aspettavo proprio un Papa di questo continente, un Papa rivoluzionario in questo momento e per di più eletto da un collegio di cardinali conservatore».
Perché Ernesto Cardenal non ha dubbi che con lui, Francesco, le cose cambieranno in profondità. Sono cambiate, dice, stanno cambiando. «All’inizio non pensavo che potesse fare quello che sta facendo… qualcosa di veramente incredibile perché sta mettendo le cose al rovescio. O meglio, al loro posto, dove devono stare… Gli ultimi saranno i primi, ecco quello che sta facendo Francesco».
Su Ernesto Cardenal grava ancora la sospensione a divinis che gli venne inflitta dal cardinal Ratzinger nella sua veste di Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede. Ma la cosa non gli pesa. «La proibizione è per amministrare i sacramenti e io non mi sono fatto sacerdote per amministrare sacramenti e passarmela celebrando battesimi e matrimoni, ma per essere contemplativo». Ernesto Cardenal vive nella comunità contemplativa di Solentiname, in Nicaragua, che fondò negli anni 70 con Thomas Merton.
E se il successore di Benedetto XVI quel Papa “rivoluzionario” che elogia, gliela togliesse? Il “poeta della Teologia della Liberazione” come viene chiamato, non fa affatto salti di gioia. «Mi complicherebbe la vita…». da http://albainformazione.wordpress.com
 



“davvero non esistono verità assolute” di L. Boff

 

continuando il dialogo aperto dai due papi col mondo laico, così L. Boff si esprime in una lettera al direttore de ‘la Repubblica’:

Boff

 Caro direttore, scrivendo una lettera a un giornale e rispondendo alle domande poste attraverso un giornale da Eugenio Scalfari, Papa Francesco ha compiuto un atto di straordinaria importanza. Non solo perché lo ha fatto in una forma senza precedenti ma perché lo ha fatto come un uomo che parla a un altro uomo, nel contesto di un dialogo aperto a tutti che ci porta a metterci allo stesso livello degli altri. E di fatti Francesco, che come sappiamo preferisce la definizione di vescovo di Roma a quella di Papa, ha risposto a Eugenio Scalfari in modo cordiale, con l’intelligenza calorosa del cuore piuttosto che con quella intellettuale fredda. La sua si può definire una “ragione sensibile”, come si dice oggi nella discussione filosofica in Europa, negli Stati Uniti e anche fra noi, quella che parla direttamente all’altro, al suo profondo, e non si nasconde dietro dottrine, dogmi, istituzioni. In questo senso, per Francesco non è rilevante se Scalfari sia o meno un credente, poiché ognuno ha la sua storia e il suo percorso, ma è importante la capacità di essere aperti all’ascolto. Per dirla con le parole del grande poeta spagnolo Antonio Machado, “la tua verità? No, la Verità e vieni con me a cercarla. La tua, tienitela”. Più importante che sapere è non perdere mai la capacità di imparare. Questo è il senso del dialogo. Con la sua lettera, Francesco ha mostrato che tutti cerchiamo una verità più piena e più ampia, una verità che ancora non possediamo. Per trovarla, non servono i dogmi e le dottrine, ma caso mai il presupposto che esistono ancora risposte da cercare, che esiste un mistero, e che questa ricerca è una forza che ci mette tutti sullo stesso piano, i credenti come i non credenti, i fedeli di chiese diverse, ognuno dei quali ha diritto di portare la sua visione del mondo. Non è un caso che ogni fede conosca profonde difficoltà, e che una in particolare le accomuni tutte: è la contraddizione terribile che attraversa credenti e atei, la domanda su come Dio possa consentire le grandi ingiustizie del mondo. È la domanda che anche Papa Benedetto XVI si è fatto con sgomento a Auschwitz, spogliandosi per un attimo dal suo ruolo di pontefice e parlando solo come un uomo, a cuore aperto. È la domanda “dov’era Dio quando accadeva questo?”. Tutti noi cristiani dobbiamo accettare che la risposta non c’è, che la domanda è ancora aperta. Dio può essere quello che la nostra ragione non capisce. Che la sola intelligenza non può rispondere a tutto, che la Genesi, come diceva il filosofo della speranza Ernst Bloch, non è al principio ma al termine, che le cose camminano in una direzione buona che comprenderemo soltanto alla fine. Solo alla fine possiamo dire veramente: “E tutto è buono”, perché mentre viviamo non tutto è buono. Verità assolute, verità relative? Io preferisco rispondere con il vescovo brasiliano dal cuore della Amazzonia, poeta, profeta e pastore, Pedro Casaldaliga: “Solo Dio e la fame sono assoluti”. Per questo io stesso ho molta fiducia in ciò che Francesco potrà fare e mi sento in dialogo con lui. Ha già fatto un’importante riforma del Papato e ne farà una della Curia, e in molti discorsi ha indicato come tutti i temi possano essere discussi, un’affermazione impensabile fino a poco tempo fa. Temi come il celibato dei preti, il sacerdozio delle donne o la morale sessuale e l’omoaffettività erano semplicemente proibiti per vescovi e teologi e ora non lo sono più. Credo che questo Papa sia il primo a non volere un governo monarchico, il “potere” di cui parla Scalfari, ma invece voglia restare il più possibile vicino al Vangelo traendone i principi di misericordia e comprensione, tenendo al centro l’umanità. Per questo anche il suo dialogo con i non credenti può davvero svilupparsi, e aprire una nuova stagione di modernità etica che non guarda solo alla tecnologia, alla scienza e alla politica ma che può portare al superamento dell’atteggiamento di esclusione fin qui tipico della chiesa cattolica, all’arroganza di chi ritiene che la sua chiesa sia l’unica vera erede del messaggio di Gesù. Per questo è importante non dimenticare mai che Dio ha inviato il suo Figlio al mondo e non solamente ai credenti. E lui illumina ogni persona che viene in questo mondo, come dice il Vangelo di San Giovanni. In questo senso, come ho già scritto a Francesco, è urgente un Concilio Vaticano III, aperto a tutti i
cristiani e non solo ai cattolici, a tutte le persone, anche atee, che possono aiutarci a analizzare le minacce che gravano sul pianeta e come affrontarle. Le donne in primo luogo, dato che è la vita stessa a essere minacciata. Il Cristianesimo è un fenomeno occidentale. Deve trovare il suo spazio nella nuova fase dell’umanità, nella fase planetaria. Solo così può essere una Chiesa di tutti e per tutti. In Francesco, che lo ha già dimostrato in Argentina, io non vedo la volontà di conquistare e di fare proselitismo, ma piuttosto quella di testimoniare e percorrere, come ha scritto a Scalfari, un tratto del cammino insieme: il cristianesimo è in movimento, come Gesù camminava insieme agli Apostoli. E in tutto questo la dimensione etica e il senso dei diritti universali è più importante dell’appartenere o meno a una chiesa, come nel caso di Eugenio Scalfari. Dobbiamo guardare alla dimensione luminosa della storia più che alle sue ombre, vivere come fratelli e sorelle nella stessa Casa Comune, nella Madre Terra, rispettando le diverse opzioni, sotto un unico grande arcobaleno, segno della trascendenza dell’essere umano. Un lungo inverno è finito, ci aspetta una primavera con la sua dimensione gioiosa di fiori e di frutti, una primavera nella quale vale la pena di essere umani anche nella forma cristiana di questa parola.




I sì i no e i ni di papa Francesco

 

papa-francesco_h_partb

una bella riflessione di D. Gabrielli:

Tra le novità del servizio di Francesco come vescovo di Roma, giunto al giro di boa dei sei mesi, tutti hanno sottolineato: uno stile di povertà e semplicità, una libertà di spirito che lo porta a ricevere in udienza persone umili o sofferenti che hanno chiesto a lui consolazione, a telefonare a bambini che gli inviano messaggi, o a scrivere una lettera a Eugenio Scalfari, «illuminista» conclamato, che su Repubblica gli aveva posto delle domande senza prevedere che avrebbe avuto un’elaborata risposta. Insomma, un notevolissimo cambio di stile, rispetto al recente passato, che sembra voler arditamente aprire finestre sbarrate da decenni, e avviare una stagione dei «cento fiori». Ma non mancano ombre: così (piccolo esempio) in luglio Giovanni Franzoni, l’ex abate di San Paolo fuori le Mura, e uno dei rari «padri» conciliari ancora viventi, aveva scritto al papa contestando la canonizzazione di Karol Wojtyla. Non ha ancora avuto risposta. Lo stile bergogliano non può non scontrarsi con uno status quo incrostato da secoli, per cui non sarà facile trasporre nelle nervature della Chiesa romana la sua visione ascetica e pastorale. E, poi, alcune sue uscite – come quella sui gay: «Chi sono io per giudicarli?», e l’appello alla misericordia per i divorziati – aprono delle questioni teologiche che prima o poi mostreranno tutta la loro asprezza. Il Catechismo della Chiesa cattolica, del 1992, infatti, precisa bene tutti i «peccati». La domanda è se in ogni caso quella catalogazione rispecchi i comandamenti di Dio, o se il magistero romano non sia stato, spesso, prigioniero di schemi culturali inadeguati, e tuttavia imposti come una traduzione coerente del disegno divino. Così, che significa l’invito del papa alla «accoglienza» dei conviventi e dei divorziati risposati, pur senza sottacere la «verità» del Vangelo? Ammesso che una persona sia responsabile, di fronte a Dio, del tradimento del suo patto coniugale, che farà il parroco, citando Francesco, se essa, ritenendo in coscienza ormai distrutto il primo matrimonio, e vivendo con amore la nuova unione, gli chiede l’Eucaristia? Di fatto, confrontandolo con l’afflato evangelico da una parte, e con la modernità dall’altra, molta parte del Catechismo, soprattutto in materia sessuale e di fine-vita, verrebbe scalzato: non per negare la «verità», ma una presunta verità, quella stabilita dalle gerarchie. Proprio questa «rivisitazione», dolorosa e inevitabile, di un magistero che dovrebbe contraddirsi, appare l’acuto problema ormai posto sul tappeto. Tale questione, ci sembra, aleggia sui pensieri che Francesco ha manifestato a La Civiltà cattolica del 19 settembre. Le sue parole – umanissime, e insieme traboccanti di riferimento al Dio che «sorprende» e alla misericordia di Gesù – sono un benedetto colpo di maglio contro il legalismo vaticano, e dischiudono una nuova e promettente magna charta dell’approccio papale all’ecclesiologia e all’etica; ma, non ipotizzando che sia la stessa «dottrina», nei casi in cui può esserlo, a dover essere cambiata, non toccano la radice delle sofferenze delle persone. Analoga, seppure su un altro fronte, è la questione dell’ordinazione della donna: il 28 luglio Francesco ha ricordato che, in merito, Giovanni Paolo II «ha detto “no” con una formulazione definitiva. Quella porta è chiusa»: parole affrettate, che non potrebbero dirimere una problematica «risolta» – si fa per dire – dai maschi senza ascoltare le donne. Sulla gestione, poi, del potere nella Curia romana, Bergoglio è insofferente verso la permanenza di tracce di temporalismo. «San Pietro aveva forse una banca?», ha affermato un giorno, adombrando una radicale riforma dello Ior (Istituto per le opere di religione, la banca vaticana). Non l’ha detta, ma sarebbe del tutto bergogliana l’espressione: «Ma san Pietro aveva uno Stato?»; e in questo senso vanno comunque molte sue parole. Perciò ci è parso davvero strano che, un mese fa, un papa francescano abbia nominato un «Segretario di Stato» (la critica, ovviamente, non va alla persona di monsignor Pietro Parolin, ecclesiastico di tutto rispetto, ma alla denominazione della sua carica), quando già nel 1967 Paolo VI aveva ipotizzato che quel titolo si trasformasse in «Segretario papale», al fine di abbandonare ogni parvenza di potere temporale.
Non si può che sottolineare l’onda benefica di trascinamento che Francesco ha innescato con la sua giornata di preghiera e digiuno per la pace in Siria (7 settembre): con lui cristiani, altri credenti, e non credenti, hanno detto no alla guerra e sì solo alla pace. Un impegno, tuttavia, non senza conseguenze, sul versante cattolico, perché esigerebbe, tra l’altro, la messa in discussione dei cappellani militari. Insomma, da ogni lato i problemi implicati da Francesco nella sua coraggiosa decisione di sposare «madonna povertà» e rendere più credibile la Chiesa romana come «mamma», innescano uno tsunami ecclesiale che, riteniamo, nemmeno un vescovo di Roma che viene dalla «fine del mondo» potrebbe, da solo, gestire; lo potrebbe, forse, un Concilio generale della Chiesa cattolica, aperto anche ai laici, uomini e donne. Una grande e inedita Assemblea per far fiorire gli input del Vaticano II – il popolo di Dio, la collegialità, l’ecumenismo, la libertà di coscienza… – e affrontare i temi sorti nei decenni successivi, e oggi incombenti (tra essi: un’etica condivisa tra le varie religioni; il riconoscimento reale dell’autonomia della polis; l’accettazione delle conseguenze della modernità, della democrazia e della laicità; il rapporto Chiesa romana-donna). Un Concilio per incarnare nell’istituzione la Chiesa povera e per i poveri che Francesco sogna. È eresia, sperarlo?




“La lista di Bergoglio”

 

 un piccolo libro edito dall’EMI (nelle librerie dal 3 ottobre) racconta della rete clandestina con cui il giovane Bergoglio salvò decine di ‘sovversivi’ dalla ferocia dei dittatori  argentini :  la ricostruzione di S. Magister                                               

Il gesuita che umiliò i generali

di Sandro Magister

70705271

La storia finora mai raccontata della rete clandestina con cui il giovane Bergoglio salvò decine di “sovversivi” dalla ferocia dei dittatori argentini

Nella sua intervista a “La Civiltà Cattolica” che ha fatto il giro del mondo, papa Francesco descrive la Chiesa come “un ospedale da campo dopo una battaglia”, dove la primissima cosa da fare è “curare i feriti”.

Ma che cosa cambia quando la battaglia è in pieno corso?

Nella sua Argentina, tra il 1976 e il 1983, Jorge Mario Bergoglio ha traversato gli anni di piombo della dittatura militare. Sequestri, torture, massacri, 30 mila scomparsi, 500 madri uccise dopo aver partorito in prigione i figli a loro sottratti.

Ciò che fece in quegli anni l’allora giovane provinciale dei gesuiti argentini è rimasto per lungo tempo un mistero. Così fitto da far trapelare il sospetto che avesse assistito inerte all’orrore, o peggio, avesse esposto a maggior pericolo alcuni suoi confratelli, i più impegnati tra i resistenti.

La scorsa primavera, subito dopo la sua elezione a papa, queste accuse furono rilanciate.

Furono anche immediatamente contraddette da voci autorevoli, pur molto critiche del ruolo complessivo della Chiesa argentina in quegli anni: le madri di Plaza de Mayo, il Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, Amnesty International. La stessa magistratura argentina aveva esonerato Bergoglio da ogni accusa, dopo averlo sottoposto a interrogatorio in un processo tra il 2010 e il 2011.

Ma se a questo punto era assodato che l’attuale papa non avesse fatto niente di condannabile, ancora restava ignoto che cosa avesse fatto eventualmente di buono in quegli anni terribili, per “curare i feriti”.

Ignoto fino a ieri. Perché a sollevare per la prima volta il velo su questa faccia nascosta del passato di papa Francesco giunge ora un libro edito dall’EMI, piccolo di mole ma esplosivo nei contenuti. Sarà nelle librerie italiane dal 3 ottobre, e poi man mano in altri otto paesi del mondo dove già sono in corso le traduzioni. “La lista di Bergoglio”, si intitola. E il pensiero va subito alla “Schindler’s list” immortalata dal film di Steven Spielberg. Perché la sostanza è la stessa, come dice il seguito del titolo del libro: “I salvati da Francesco durante la dittatura. La storia mai raccontata”.

1236108_10200727157610484_1124538713_a

C’è nella parte finale del libro la trascrizione integrale dell’interrogatorio cui l’allora arcivescovo di Buenos Aires fu sottoposto l’8 novembre del 2010.

Di fronte ai tre giudici, Bergoglio è incalzato per tre ore e cinquanta minuti dalle domande insidiose soprattutto dell’avvocato Luis Zamora, difensore delle vittime. Un passaggio chiave dell’interrogatorio è quando a Bergoglio chiedono di giustificare i suoi incontri con i generali Jorge Videla ed Emilio Massera, nel 1977.

Due sacerdoti a lui molto vicini, i padri Franz Yalics e Orlando Yorio, erano stati sequestrati e rinchiusi in un luogo segreto. Il primo era stato per due anni suo direttore spirituale e il secondo suo professore di teologia, poi si erano impegnati a fondo con i poveri delle “villas miserias” di Buenos Aires è questo li aveva resi bersaglio della repressione. Quando furono catturati, l’allora provinciale dei gesuiti si attivò per sapere dove fossero detenuti. Lo seppe, erano nella famigerata Escuela Superior de Medicina degli ufficiali della marina, dalla quale pochi uscivano vivi.

Per chiedere la loro liberazione, Bergoglio volle incontrare anzitutto il generale Videla, all’epoca il  numero uno della giunta. E ci riuscì due volte, la seconda convincendo a darsi per malato il sacerdote che diceva messa nella casa del generale e sostituendosi a lui. Dal colloquio col generale, ebbe la conferma definitiva che i due gesuiti erano nelle prigioni della marina.

Non restava quindi che puntare all’ammiraglio Massera, personaggio irascibile e vendicativo. Gli incontri furono anche qui due. Il secondo fu brevissimo. “Io gli dissi: Guardi, Massera, io li voglio indietro vivi. Mi alzai e me ne andai”, ha riferito Bergoglio nell’interrogatorio del 2010.

La notte successiva i padri Yalics e Yorio furono narcotizzati, caricati su un elicottero e scaricati nel mezzo di una palude.

Ma ai due sacerdoti, in sei mesi di prigionia e di torture, era stato fatto credere che erano vittime di una delazione del loro padre provinciale. E in una scheda dei servizi segreti qualcuno scrisse: “Nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la Compagnia di Gesù argentina non ha fatto pulizia al suo interno”, insinuando una sua complicità con la repressione.

“Una canagliata”, tagliò corto a proposito di questa insinuazione il procuratore del processo del 1985 che condannò all’ergastolo sia Videla che Massera.

Quanto ai padri Yalics e Yorio, riconobbero poi entrambi la falsità delle accuse contro il loro superiore, con il quale si rappacificarono pubblicamente. * Ai generali l’allora provinciale dei gesuiti era riuscito a dare di sé l’idea che se ne stesse rintanato nel suo Colegio Máximo di San Miguel, in attesa della bonaccia. Ma quello che il libro rivela per la prima volta è enormemente di più.

Nello Scavo, l’autore dell’inchiesta, cronista giudiziario di “Avvenire”, ha scoperto, rintracciando numerosi scampati e accostando come in puzzle le loro testimonianze, che Bergoglio tesseva silenziosamente una rete clandestina che arrivò a salvare molte decine se non centinaia di persone in pericolo di vita.

Mentre il generale Videla ordiva i suoi piani sanguinosi dai saloni della Casa Rosada, a pochi passi, lungo il vicolo che si addentra nel quartiere di Monserrat, c’era la chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, con annessa una residenza dei gesuiti e una scuola. E lì il provinciale dei gesuiti dava appuntamento ai ricercati, per le ultime istruzioni prima di imbarcarli clandestinamente sui battelli che trasportavano frutta e mercanzie da Buenos Aires a Montevideo, in Uruguay, a un’ora di navigazione. Mai i militari avrebbero potuto immaginare che quel sacerdote li avrebbe sfidati così da vicino.

La riuscita di ogni operazione era legata alla segretezza che intercorreva anche tra chi la compiva o ne beneficiava. Le persone che entravano nella rete di protezione organizzata da Bergoglio non sapevano di altri che erano nelle loro stesse condizioni.

Nel collegio di San Miguel arrivavano e partivano, per motivi apparentemente di studio o di ritiro spirituale o di discernimento della vocazione, uomini e donne che in realtà erano ricercati come “sovversivi”. Per metterli al sicuro la meta era spesso il Brasile, dove a sua volta c’era una rete analoga di protezione organizzata dai gesuiti del posto.

Ma era Bergoglio il solo che teneva le fila di tutto. L’anziano gesuita Juan Manuel Scannone, che è oggi il teologo più importante dell’Argentina e più stimato dall’attuale papa, era anche lui all’epoca a San Miguel. Ma non si avvide di nulla. Solo dopo molti anni lui e altri cominciarono a confidarsi e a capire: “Se uno di noi avesse saputo e fosse stato sequestrato e sottoposto a tortura, l’intera rete di protezione sarebbe saltata. Padre Bergoglio era consapevole di questo rischio e per questo tenne tutto segreto. Un segreto che ha mantenuto anche in seguito, perché non ha mai voluto farsi vanto di quella sua eccezionale missione”.

La “lista” di Bergoglio è un insieme di storie personali diversissime, di appassionante lettura, il cui tratto comune è d’essere state salvate da lui.

C’è Alicia Oliveira, la prima donna a diventare giudice penale in Argentina e anche la prima ad essere licenziata dopo il golpe militare, non cattolica e neppure battezzata, entrata in clandestinità, che Bergoglio portava in macchina, nel bagagliaio, dentro il collegio di San Miguel, per farle incontrare i suoi tre bambini.

Ci sono i tre seminaristi del vescovo di La Rioja Enrique Angelelli, ucciso nel 1976 dai militari con un incidente stradale simulato, dopo che aveva scoperto i veri responsabili di numerosi assassini.

C’è Alfredo Somoza, il letterato salvato a sua insaputa.

Ci sono Sergio e Ana Gobulin, impegnati nelle baraccopoli, sposati da padre Bergoglio, lui arrestato e lei ricercata, entrambi salvati e fatti espatriare con l’aiuto dell’allora viceconsole italiano in Argentina, Enrico Calamai, un altro degli eroi della storia.

Come papa, ma prima come uomo, Francesco non cessa di stupire.