don vitaliano e il nuovo corso di papa Francesco

Francesco papa
“E ora si faccia chiarezza,”

di Vitaliano Della Sala 1 ottobre 2013

«Non aspettatevi cambiamenti del prodotto, aspettatevi cambiamenti della pubblicità». A sei mesi dall’elezione di papa Francesco la risposta del cardinale di New York, Timothy Dolan, ad una domanda sul nuovo papa, sembra racchiudere l’essenza di questo pontificato. Non so se sono l’unico, ma di fronte a questo papa mi sento combattuto tra due sentimenti: sta solo cambiando la forma o anche la sostanza della gerarchia cattolica? Bergoglio è solo un papa che guarda ottimisticamente il bicchiere mezzo pieno, mentre finora quasi tutti i papi hanno fatto il contrario? Fa gesti straordinari o appaiono tali solo perché nessun altro papa ne ha mai fatti di tanto normali? E quello che dice è scontato e già detto da altri o è la banalità che diventa eccezionalità solo per il contesto azzeccato in cui lo si pronuncia?
Insomma, papa Francesco rappresenta quella Chiesa-altra che in molti abbiamo sognato e ci siamo sforzati di costruire o è la solita musica suonata diversamente? Certo è che c’è credibilità e coerenza nelle sue parole chiare, semplici, incisive, che si accompagnano ai gesti “nuovi”. E c’è da sperare che non sia soltanto una squallida – e riuscita – operazione di marketing a favore di una gerarchia della quale, fino a sei mesi fa, si parlava quasi esclusivamente in relazione agli scandali sessuali e finanziari.«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e metodi contraccettivi», dice, tra l’altro papa Bergoglio nell’intervista a Civiltà Cattolica. Parole chiare e gesti concreti: questo papa sembra aver spiazzato e sorpassato anche quella parte di Chiesa “progressista” e di base. Ma la storia della Chiesa ci insegna che per una volta che si sceglie un papa buono “che puzza di pecora” e di Spirito Santo, ne possono poi venir fuori altri che invece “puzzano” di interessi personali o di cordata, di troppa teologia e di poca pastoralità, di più o meno autoritarismo, di più o meno democraticità. E il volto della Chiesa, la percezione che fedeli e non fedeli laici hanno di essa, non può cambiare dopo ogni Conclave come se la Chiesa fosse l’espressione di questa o quella cordata e non la sposa di Cristo.
Lo confesso, sono anche arrabbiato perché troppa parte di Chiesa “progressista” sembra subire e acriticamente applaudire le parole e i gesti del papa, senza ricordarsi quanto sia preoccupante, se non pericoloso, quando gli annunci di cambiamento vengono dal vertice: il Francesco poverello d’Assisi che restaura la Chiesa cadente, può veramente coincidere con un papa, solo perché si chiama anch’egli Francesco, o non si rischia di creare un inevitabile corto circuito? Qualche fedele meno plaudente e più attento, mi ha ricordato che «tante cose di quelle che oggi dice e fa il papa, le hai dette e fatte anche tu anni fa». È vero, ovviamente con le dovute proporzioni, e sono stato solo l’ultimo tra tanti che, per parole e gesti che oggi sembrerebbero scontati, è stato pesantemente punito e ancora vive gli strascichi di assurdi e ingiusti provvedimenti canonici. Come me e molto peggio di me, altri hanno subìto la moderna inquisizione, e non nel Medioevo, ma solo pochi anni fa, sotto il pontificato mediatico e reazionario di Woityla/Ratzinger, mentre Bergoglio era già cardinale, senza che abbia speso una parola di giustizia. Forse che nella Chiesa bisogna aspirare o brigare per diventare papa prima di poter parlare liberamente?
Invece oggi papa Bergoglio dice: «Ci vuole audacia e coraggio. Trovare strade nuove per chi se ne è andato», e spero che intenda anche dire: per chi è stato cacciato, e per chi è rimasto, punito, calpestato, ridotto al silenzio, umiliato, senza un briciolo di quella tenerezza di Dio, che i vertici della Chiesa avrebbero dovuto incarnare. Se il clima sembra realmente cambiato, chi restituirà il tempo perso a doversi difendere, l’insegnamento tolto ingiustamente a bravi docenti, la serenità a comunità punite e sconvolte, la salute compromessa? Chi dirà al mio vecchio ed ex vescovo che aveva torto lui, e alla mia ex comunità parrocchiale che avevamo ragione noi? Alle sue parole chiare, ai suoi gesti coerenti, papa Francesco dovrebbe far corrispondere scelte e fatti concreti. Si potrebbe iniziare dal dire apertamente se ha ragione o torto, chi ipocritamente e per intraprendere una carriera senza meriti, si è accodato al pensiero dominante di una gerarchia tesa solo ad accontentare un papa polacco e un inquisitore tedesco, divenuto a sua volta pontefice, che hanno portato avanti un’idea di Chiesa autoritaria, immischiata nella peggiore politica, invischiata nei peggiori scandali, senza un briciolo di misericordia, che ha sguazzato nella contraddizione per cui si pretende il rispetto dei diritti umani all’esterno della Chiesa, mentre li si nega al proprio interno. Sì, è indispensabile iniziare con un chiarimento, senza meschine vendette o ritorsioni, ma per «fare la verità nella carità».Sono certo che è comunque saggio e lungimirante vivere questo momento come una grande opportunità storica per la Chiesa. E per non ridurre le parole e i gesti di papa Francesco a qualcosa di stravagante; e per non arrivare ancora una volta tardi all’appuntamento con la Storia, non bastano più le parole e i gesti di “Pietro”, occorre che si coinvolga tutta la Chiesa in questo cammino. Forse è veramente giunto il tempo di un nuovo Concilio, da celebrare in una delle tante periferie del mondo, con vescovi e cardinali invitati come periti, esperti o osservatori. E con protagonisti questa volta donne e uomini fedeli laici.

*Amministratore parrocchiale a Mercogliano (Av)

Fonte: Adista n. 34/13




anche M. Fox dice la sua sul dialogo di papa Francesco coi laici

abbracio papale

anche M. Fox dice la sua sul nuovo taglio che papa Francesco sta dando alla chiesa cattolica

Il dialogo e la verità da vivere
di Matthew Fox
“la Repubblica” del 2 ottobre 2013

È un piacere poter prendere parte all’importante dialogo ispirato dallo scambio di lettere tra Eugenio Scalfari e papa Francesco. Nel corso del lavoro preparatorio per il mio libro Lettere a papa Francesco ho letto il libro che riporta le conversazioni tra Bergoglio e il rabbino argentino (e scienziato) Skorka, per cui so bene quanta importanza attribuisca il nuovo pontefice al dialogo e a un profondo scambio di idee, e soprattutto quanto sia «vulnerabile» all’ascolto attento e all’apprendimento. È questa, a mio parere, la chiave del dialogo: parlare e ascoltare per imparare, non semplicemente per «segnare dei punti». È questo che fa di papa Francesco, una boccata d’ossigeno dopo trentaquattro anni di papi che sembravano più inclini a dettare le risposte e anche le domande, senza dare quasi mai la sensazione di avere qualcosa da imparare. La modestia del pontefice attuale è palese non solo dal suo rifiuto di trasferirsi nei palazzi pontifici, ma anche dalla sua disponibilità a prendere la penna in mano e rispondere con sincerità, dal profondo del cuore, alle domande poste da Scalfari. Papa Francesco, come molti gesuiti, conserva la smania di apprendere, e questo per me è motivo di lode. Sono i saccenti, che avvolgono tutte le loro risposte in dogmi rigidi e congelati e domande preconfezionate, che tradiscono il significato più profondo e lo spirito di avventura che una religione sana dovrebbe avere.

La verità, che la si apprenda da una persona che si autodefinisce «atea», o «laicista», o «credente », o «agnostica», o «non credente», non è vincolata a un’unica espressione. Quello che conta nel dialogo è quella parte di verità che impariamo gli uni dagli altri. La verità è qualcosa che viviamo, non qualcosa che congeliamo in dogmi e credenze liofilizzati. E poiché la viviamo, siamo in grado, a prescindere dalla nostra ideologia, di provare un’ammirazione comune per persone che ci hanno mostrato, attraverso la vita che hanno vissuto, la verità della giustizia, della bellezza, della gioia o della generosità.
La domanda diventa: in che genere di Dio crediamo? Che genere di Dio rifiutiamo? Cantiamo le lodi di un Dio del Controllo e degli imperi? O di un Dio dei poveri e di chi non ha voce? Un Dio del razzismo, del sessismo, dell’omofobia o dell’antropocentrismo, oppure un Dio della Condivisione, dei poveri, della giustizia razziale. Voglio proporre qualche altro genere di Divinità che vale la pena di venerare.

La Divinità apofatica è il Dio del silenzio, della contemplazione, dell’ascolto attento, del niente più proiezioni, il Dio che è «oscurità sovraessenziale, che non ha nome e non avrà mai nome» (Eckhart). Questo Dio ci insegna a tacere, ad apprezzare il silenzio e ad andare in profondità, e a non presumere più che chiunque di noi conosca la grandezza di Dio. In questo modo ci aiuta a placare il cervello rettile (sì, la «bestia» che è in tutti noi) lasciando spazio alla nostra intelligenza più recente, la Compassione.

Un’altra dimensione della Divinità su cui vale la pena dialogare è quella della Luce. Con la scienza che oggi ci insegna che «la materia è luce congelata » (parole del fisico David Bohm), possiamo fare piazza pulita del pericoloso dualismo tra materia e spirito, perché lo Spirito in tutte le culture del pianeta è definito come «Luce » (vedi il Buddha – «Sii una luce per te stesso» – e il Cristo – «Io sono la luce del mondo»), ma la materia secondo la scienza odierna incorpora la luce. L’incarnazione dello spirito è ovunque, anche nella materia in tutte le sue dimensioni. Vale la pena discuterne e dialogarne.

Naturalmente, l’insegnamento che Dio è Giustizia (Tommaso d’Aquino: «Dio è giustissimo») è un terreno comune, in questo momento critico della storia della Terra e dell’umanità, dove tantissime cose sono messe a rischio dai cambiamenti climatici e da sistemi economici che favoriscono i ricchi e rendono i poveri più numerosi e più poveri. La giustizia ecologica, la giustizia di genere, la giustizia economica: sono tutti nomi di lavoro per Dio, il Dio della giustizia. Quanto alla giustizia ecologica, il poeta Bill Everson commenta che «la maggioranza della gente conosce Dio nella natura o non lo conosce affatto». La natura è sacra. Dio è dentro la natura, non al di sopra o al di là di essa. È questo che significa lo spirito; è questo, sicuramente, che significa l’Incarnazione.

Sono stato felice di leggere Enzo Bianchi, nel suo contributo a questo scambio, parlare di Dio in quanto Vita e di come «ognuno di noi sia uno specialista, un esperto della vita». Dio è intrinseco alla natura e alla storia, alla materia e alla vita, perché la vita è sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di meraviglioso, qualcosa di straordinario, qualcosa di bello.
Un modo utile per definire attraverso il linguaggio le nostre esperienze del Dio in quanto Vita è dare nome al dispiegarsi e svelarsi (la rivelazione) del Dio in quanto Vita come la Via Positiva (le nostre esperienze di sgomento, meraviglia, gioia, bellezza), la Via Negativa (le nostre esperienze di silenzio, oscurità e anche dolore, sofferenza e cuore spezzato), la Via Creativa (l’impeto di co-creazione e ceatività, e lo sgomento che si genera in questo processo) e la Via Trasformativa (l’opera di giustizia, compassione, guarigione e clebrazione). Dio non è un sostantivo. Dio è un verbo. Se non sperimentiamo queste dimensioni della Divinità siamo destinati a parlare soltanto e non agire: solo parole e niente cammino.

Voglio proporre alcuni modi per tenere vivo questo importante dialogo e celebrare la vita in tutte le sue variazioni e meravigliose dimensioni, e gli aspetti Sacri legati a tutto questo. Sì, siamo in parte «bestia» e la nostra avidità, la nostra brama di potere, la nostra invidia, la nostra capacità di odiare parlano alle nostre ombre e alla nostra necessità di autoesaminarci e cercare assistenza nella psicologia, oltre che nella religione, per guarire e trovare perdono e cambiare nel profondo.
Dialoghiamo fra noi e impariamo le lezioni profonde e spesso antiche dei nostri antenati: possiamo innalzarci al di sopra del nostro cervello rettile e dare corpo al nostro cervello mammifero, che è compassionevole. Non mi dite qual è l’ideologia di cui vi ammantate. Ditemi piuttosto quale contributo date alla Vita, la Vita Sacra. Questo è il tipo di dialogo che cerco.

(Traduzione di Fabio Galimberti)




Mancuso e le domande di Scalfari a papa Franceco

 

bei fiori

una interessante riflessione di V. Mancuso in riferimento alle domande e risposte nel contesto del dialogo fra Scalfari e papa Francesco
la chiesa sta imboccando una vera svolta, ma il pensiero laico è pronto a ripensare certe proprie rigidità o radici culturali inadeguate ad affrontare le grandi problematiche attuali?

Il bene del mondo e la Chiesa
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 4 ottobre2013

Inizierà davvero una nuova epoca per la Chiesa, e quindi inevitabilmente anche per la società, come prefigurava Scalfari a conclusione dell’intervista a papa Francesco? Ciò che sorprende nelle risposte del Papa è il punto di vista assunto, un inedito sguardo extra moenia o “fuori le mura” che non pensa il mondo a partire dalla fortezza-Chiesa, ma, esattamente all’opposto, pensa la Chiesa a partire dal mondo. Nei suoi ragionamenti non c’è traccia della consueta prospettiva ecclesiastica centrata sul bene della Chiesa e la difesa a priori della sua dottrina, della sua storia, dei suoi privilegi e dei suoi beni così spesso oggetto di cura gelosa da parte degli ecclesiastici di ogni tempo (un monumento del pensiero cattolico quale il Dictionnaire de Théologie Catholique dedica 9 pagine alla voce “Bene” e 18 alla voce “Beni ecclesiastici”!). C’è al contrario un pensiero che ha di mira unicamente il bene del mondo e per questo il Papa può dire che il problema più urgente della Chiesa è la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi. Non le chiese, i conventi e i seminari semivuoti; non il relativismo culturale; non il sentire morale del nostro tempo così difforme dalla morale cattolica; non la minaccia alla vita e al modello tradizionale di famiglia. No, la disoccupazione dei giovani e la solitudine degli anziani. L’aver assunto il bene del mondo quale punto di vista privilegiato ha condotto il Papa alle seguenti due affermazioni capitali: 1) la Chiesa non è preparata al primato della dimensione sociale, anzi c’è in essa una prospettiva vaticanocentrica che produce una nociva dimensione cortigiana («la corte è la lebbra del papato»); 2) storicamente essa non è quasi mai stata libera dalle commistioni con la politica – e a questo proposito la Chiesa italiana di Ruini e Bagnasco dovrebbe recitare non pochi mea culpa per non aver denunciato l’immoralità pubblica e privata di chi per anni governava l’Italia, di cui al contrario si è giunti persino a contestualizzare benignamente le pubbliche bestemmie. Ma l’azione del papa e la nuova epoca per la Chiesa che prefigura può non avere effetti anche sul mondo laico? Dei mali della Chiesa e delle riforme di cui necessita si è detto, ma penso sia saggio domandarsi se non esista anche qualcosa nella mente laica che occorre riformare. È solo la Chiesa che deve cambiare, oppure il cambiamento e la riforma interessano anche chi si dichiara laico e non credente? Naturalmente sotto queste insegne si ritrovano gli ideali più vari, dall’estrema destra all’estrema sinistra, e io qui mi limito a discutere il pensiero laico progressista rappresentato da Scalfari. Alla domanda del Papa sull’oggetto del suo credere, Scalfari ha risposto dicendo «io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti», e poco dopo ha precisato che «l’Essere è un tessuto di energia, energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità», attribuendo a combinazioni casuali l’emergere delle forme tra cui l’uomo, «il solo animale dotato di pensiero, animato da istinti e desideri», ma che contiene dentro di sé anche «una vocazione di caos». Insomma Scalfari si è professato, come già nei suoi libri, discepolo di Nietzsche. Ma cosa manca a questa visione del mondo? Trattandosi di un’eredità di colui che volle andare “al di là del bene e del male”, manca ovviamente la possibilità di fondare l’etica in quanto primato incondizionato del bene e della giustizia. Per Nietzsche infatti l’Essere è un “mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea”, il mondo “è la volontà di potenza e nient’altro”. Ma se il mondo è questo, ne consegue che il liberismo, in quanto volontà di potenza che vuole solo incrementare se stessa, ne è la più logica conseguenza. Perché mai quindi si dovrebbe lottare nel nome della giustizia, della solidarietà, dell’uguaglianza? Come non dare ragione a Nietzsche che considerava questi ideali solo un trucco vigliacco dei deboli, incapaci di lottare ad armi pari coi forti? Se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento. Da tempo vado pensando che la cultura progressista viva la grande aporia dell’incapacità di fondare teoreticamente la propria stessa idea-madre, cioè la giustizia. Darwin ha sostituito Marx, e
Nietzsche (attento lettore di Darwin) è diventato il punto di riferimento per molti. Il risultato è Darwin + Nietzsche, ovvero “l’eterno ritorno della forza”, cioè una cupa e maschilista visione del mondo secondo cui la forza e la lotta sono la logica fondamentale della vita. Se è giunto il tempo di una Chiesa che dia più spazio al femminile, è altresì tempo di un pensiero laico altrettanto capace di ospitare il femminile, intendendo con ciò una visione del mondo e della natura che fa dell’armonia e della relazionalità il punto di vista privilegiato. Da Aristotele a Spinoza a Nietzsche, la sostanza è sempre stata pensata come prioritaria rispetto alla relazione: prima gli enti e poi le relazioni tra essi. Oggi la scienza ci insegna (questo è il senso filosofico della scoperta del bosone di Higgs) che è vero il contrario, che prima c’è la relazione e poi la sostanza, nel senso che tutti gli enti sono il risultato di un intreccio di relazioni e tanto più consistono quanto più si nutrono di feconde relazioni. Questo è il pensiero femminile, un pensiero del primato della relazione, di contro al pensiero maschile basato sul primato della sostanza, e va da sé che pensiero femminile non significa necessariamente pensiero delle donne, perché ogni essere umano contiene la dimensione femminile e vi sono donne che pensano e agiscono al maschile (si consideri per esempio Margaret Thatcher, per tacere di alcune politiche italiane), mentre vi sono uomini che pensano e agiscono al femminile (si pensi per esempio a Gandhi e prima ancora al Buddha o a Gesù). Io penso che il nostro tempo abbia veramente bisogno di un nuovo paradigma della mente, di una ecologia della mente nel senso etimologico di riscoperta del logos che informa oikos,il termine greco per “casa” da cui viene la radice “eco” e che rimanda alla natura. Scalfari nel suo credo insiste sul caos e non sbaglia, perché il caos è una dimensione costitutiva della natura; non è la sola però, c’è anche il logos, alla cui azione organizzatrice si deve l’emersione dalla polvere cosmica primordiale degli enti e della loro meraviglia, tra cui la mente e il cuore dell’uomo. I grandi sapienti dell’umanità l’hanno sempre compreso, chiamando il logos anche dharma, tao, hokmà ecc. a seconda della loro tradizione. Cito volutamente un pensatore non cristiano, il pagano Plotino: «Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io; in quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio» (Enneadi IV, 8, 1). L’unione di logos + caos è la dinamica dentro cui il mondo si muove ed evolve. Essa ci fa comprendere che la verità non è un’esattezza, una formula, un’equazione, un dogma o una dottrina, insomma qualcosa di statico; la verità è la logica della vita in quanto tesa all’armonia, quindi è un processo, una dinamica, un flusso, un’energia, un metodo, una via. La verità è il bene in quanto armonia delle relazioni. In questo senso Gesù diceva “io sono la via, la verità e la vita”, non intendendo certo con ciò innalzare il suo ego in un supremo narcisismo cosmico, ma prefigurando il suo stile di vita basato sull’amore come ciò che al meglio serve l’Essere. Ne viene una visione del mondo nella quale l’ontologia cede il primato all’etica, nella quale cioè il vero non si può attingere se non passando attraverso i sentieri del bene, e l’amore diviene la suprema forma del pensare. Amor ipse intellectus,insegnava il mistico medievale Guglielmo di Saint-Thierry. I credenti sono chiamati a rinnovarsi e penso che con umiltà sotto la guida di questo papa straordinario in molti stiano iniziando a farlo; anche i non credenti però sono chiamati a rinnovare la loro mente alla luce dell’Essere non solo caos ma anche logos, cioè relazionalità originaria a livello fisico che fonda il bene a livello etico. Forse così l’ideale della giustizia e dell’uguaglianza al centro del pensiero progressista mondiale sarà distolto dalle nebbie del buonismo dei singoli e radicato su una più armoniosa visione del mondo.




Messaggio del 33° Congresso di Teologia La Teologia della Liberazione, oggi

avversità

Dal 5 all’8 settembre, si è svolto in Madrid il 33° Congresso di  Teologia su La Teologia della Liberazione, oggi, che ha riunito un  migliaio di persone provenienti da vari paesi e continenti in un clima  di riflessione, comunione fraterna e dialogo interreligioso,  interculturale, interetnico.
1. Viviamo in un mondo gravemente ammalato, ingiusto e crudele, dove  la ricchezza si concentra sempre più in meno mani mentre crescono le  disuguaglianze e la povertà. Tra 40.000 e 50.000 persone muoiono ogni  giorno per la fame e per le guerre, quando ci sono risorse sufficienti  per nutrire il doppio della popolazione mondiale. Il problema non è,  quindi, la scarsità, ma la competitività, l’accumulo smisurato e la  distribuzione ingiusta, prodotte dal modello neoliberale. I governanti  lasciano che governino i poteri finanziari e la democrazia non è  arrivata all’economia. L’attuale crisi europea ha come effetto lo  smantellamento della democrazia.
2. La crisi economica si è trasformata in una crisi dei diritti  umani. Gli eufemisticamente chiamati “tagli” in materia di istruzione e  sanità sono, in realtà, violazioni sistematiche dei diritti individuali, sociali e politici, che avevamo ottenuto con tanto sforzo nel corso dei secoli precedenti.
3. Questa situazione, però, non è inevitabile, né naturale, né  risponde alla volontà divina. Si può rompere la passività cambiando il  nostro modo di vivere, di produrre, di consumare, di governare, di  legiferare e di fare giustizia e cercando modelli alternativi di  sviluppo nella direzione che propongono e praticano non poche  organizzazioni oggi nel mondo.
4. In questi giorni abbiamo ascoltato le testimonianze e le  molteplici voci delle differenti Teologie della Liberazione presenti in  tutti i continenti e che cercano di collaborare per dare risposte ai più gravi problemi dell’umanità: in America Latina, in sintonia con il  nuovo scenario politico e religioso e con le esperienze del socialismo  del XXI secolo; in Asia, in dialogo con le visioni del mondo orientali,  scoprendo in esse la loro dimensione liberatrice; in Africa, in  comunicazione con le religioni e le culture originarie, alla ricerca  delle fonti della vita nella natura.
5. Abbiamo verificato che la Teologia della Liberazione continua ad  essere viva e attiva di fronte ai tentativi del pensiero conservatore e  della teologia tradizionale di condannarla e darla per morta. La TdL è  storica, contestuale e si riformula nei nuovi processi di liberazione  attraverso soggetti emergenti di trasformazione: donne discriminate che  prendono coscienza del loro potenziale rivoluzionario; culture, in altri tempi distrutte, che rivendicano la loro identità; comunità contadine  che si mobilitano contro i Trattati di Libero Commercio; giovani  indignati, ai quali viene negato il presente e chiuse le porte del  futuro; la natura saccheggiata, che grida, soffre, si ribella ed esige  rispetto; emigranti maltrattati che lottano per migliori condizioni di  vita; religioni indigene e di origine africana che rinascono dopo essere state per secoli ridotte al silenzio.
6. La TdL è teologia della vita, che difende con particolare  intensità la vita più minacciata, quella dei poveri, che muoiono presto, prima del tempo. Fa realtà le parole di Gesù di Nazaret: «Sono venuto  affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Chiama a scoprire  Dio negli esclusi e crocifissi della terra: questa è la missione  fondamentale delle chiese cristiane, una missione dalla quale sono state finora molto lontane.
7. I riformatori religiosi hanno aperto e continuano ad aprire  percorsi di compassione e di liberazione integrale, che devono tradursi  politicamente, socialmente ed economicamente in ogni momento storico, in modo particolare, Siddhartha Gautama il Buddha e Gesù di Nazareth il  Cristo (tema dell’ultima conferenza del Congresso).
8. Denunciamo la mancanza di etica nelle politiche dello Stato che  presentano i tagli come riforme necessarie per la ripresa economica. La  nostra denuncia si estende a banche, multinazionali e poteri finanziari  come veri responsabili della crisi attuale in connivenza con i governi  che lo permettono. Optiamo per un altro modello economico i cui criteri  siano il principio del bene comune, la difesa dei beni della terra, la  giustizia sociale e la condivisione comunitaria.
9. Denunciamo l’uso della violenza, il militarismo, la corsa agli  armamenti e la guerra come forme irrazionali e distruttive di soluzione  dei conflitti locali e internazionali, a volte giustificati  religiosamente. Optiamo per un mondo in pace, senza armi, dove i  conflitti vengono risolti attraverso la via del dialogo e del negoziato  politico. Sosteniamo tutte le iniziative pacifiche che vanno in quella  direzione, come la giornata di digiuno e preghiera proposta da Papa  Francesco. Rifiutiamo la teologia della guerra giusta e ci impegniamo a  elaborare una teologia della pace.
10.   Denunciamo il razzismo e la xenofobia che si manifestano  soprattutto nelle leggi discriminatorie, nella negazione dei diritti  degli immigrati, nel trattamento umiliante cui sono sottoposti da parte  delle autorità e nella mancanza di rispetto per il loro stile di vita,  cultura, lingua e costumi. Optiamo per un mondo senza frontiere retto  sulla solidarietà, l’ospitalità, il riconoscimento dei diritti umani  senza alcuna discriminazione e della cittadinanza-mondo contro la  cittadinanza restrittiva vincolata all’appartenenza ad una nazione.
11.   Denunciamo la negazione dei diritti sessuali e riproduttivi e  la violenza sistematica contro le donne: fisica, simbolica, religiosa,  di lavoro, esercitata dall’alleanza dei differenti poteri: leggi sul  lavoro, pubblicità, mezzi di comunicazione, governi, imprese, ecc. Tale  alleanza favorisce e rafforza il patriarcato come sistema di oppressione di genere. Nella discriminazione e maltrattamento delle donne hanno una responsabilità non piccola le istituzioni religiose. La teologia  femminista della liberazione cerca di rispondere a questa situazione,  riconoscendo le donne come soggetto politico, morale, religioso e  teologico.
12.   Chiediamo la sospensione immediata delle sanzioni e la  riabilitazione di tutti le teologhe e teologi discriminati (coloro che  hanno visto le proprie opere proibite, condannate o soggette a censura,  coloro che sono stati espulsi dalle cattedre di insegnamento, coloro ai  quali è stato ritirato il riconoscimento di “teologi cattolici”, quelli  sospesi a divinis, ecc.), soprattutto durante i pontificati di Giovanni  Paolo II e Benedetto XVI, che furono particolarmente repressivi in  questioni di teologia morale e dogmatica, nella maggioranza dei casi per il loro coinvolgimento con la Teologia della Liberazione e anche per  seguire gli orientamenti del Concilio Vaticano II. Tale riabilitazione è esigenza di giustizia, condizione necessaria per la tanto attesa  riforma della Chiesa e prova dell’autenticità della stessa.  Rivendichiamo, a sua volta, all’interno delle chiese, l’esercizio dei  diritti e libertà di pensiero, riunione, espressione, insegnamento,  pubblicazione, spesso non rispettati, e il riconoscimento dell’opzione  per i poveri come criterio teologico fondamentale. Con Pedro Casaldáliga affermiamo che tutto è relativo, compresa la teologia, e che sono  assoluti soltanto Dio, la fame e la liberazione.

Madrid, 8 settembre 2013




“la chiesa si spogli della mondanità!”

papa-francesco1
Il Papa ad Assisi : “La Chiesa si spogli della mondanità”

 

“Basta cristiani da pasticceria”

(MARCO ANSALDO)

 «Oggi qui il Signore dia a tutti noi il coraggio di spogliarci della mondanità, che è la lebbra, il cancro della società». Chissà perché Francesco è il primo Papa a entrare nella Sala della Spoliazione, al Vescovado di Assisi. Ben 19 Pontefici, in 800 anni, hanno visitato la città del Poverello, e gli ultimi due (Wojtyla e Ratzinger) complessivamente per otto volte. Ma forse non è un caso che a calarsi interamente nei gesti del santo patrono d’Italia sia un Papa come Jorge Mario Bergoglio, con il guizzo per quel nome semplice e impegnativo che si è dato, e nel cui segno ha compiuto un viaggio storico – Francesco nel cuore del francescanesimo – sei mesi dopo la sua elezione.
Sotto un quadro moderno che richiama il ben più potente Giotto della Basilica a fianco, e raffigura il santo d’Assisi nudo, spogliato di tutti i suoi averi per darli a coloro che ne erano privi – un gesto radicale e unico nella storia della Chiesa – il nuovo vescovo di Roma ha ancora una volta lasciato da parte il discorso preparato alla vigilia, e parlato a braccio. Eppure, a scorrerlo, era un testo bellissimo, valorizzato da una frase guida, quasi un monito ai media: «Sono qui non per “fare notizia”, ma per indicare che questa è la via cristiana, quella che ha percorso san Francesco ». No, Bergoglio mette da parte i fogli, toglie gli occhiali, e guarda in faccia i suoi interlocutori: «Nei giorni scorsi – comincia – si facevano fantasie: il Papa andrà lì per spogliare la Chiesa, per togliere gli abiti dei vescovi, dei cardinali, si spoglierà lui stesso». E affonda il colpo: «Senza spogliazione diventeremmo cristiani di pasticceria, dei dolci bellissimi ma non cristiani davvero».
Ci sono 130 mila persone, un clima di festa. Ma il volto di Francesco è triste per l’enorme tragedia di Lampedusa: «Oggi è un giorno di pianto – continua – non importa se c’è gente che deve fuggire dalla schiavitù, dalla fame, e vediamo che cercando la libertà con quanto dolore tante persone trovano la morte».
La mattina presto, arrivato poco dopo le 7, persino in anticipo sull’orario, Francesco ha visitato i giovani pluriminorati dell’Istituto Seraphicum: «Questi ragazzi – dice accarezzandoli – sono le piaghe di Gesù che hanno bisogno di essere ascoltate, di essere riconosciute ». Fuori dal Vescovado, con i giornalisti che gli chiedono di avvicinarsi, invece scherza: «Io? Con questa brutta faccia…». Poi li benedice: «Grazie del lavoro che fate ».
A pranzo, al centro Caritas di Santa Maria degli Angeli fa gli auguri di buon onomastico a un bambino col suo stesso nome, dopo essere stato accolto da un piccolo nordafricano che lo abbraccia e gli si incolla vicino per tutto il tempo del pasto. Nell’omelia rivolge un saluto al presidente del Consiglio Enrico Letta: «Preghiamo per la nazione italiana, perché tutti lavorino per il bene comune e perché tutti guardino a ciò che unisce più che a ciò che divide».
Nella cripta del santo, accompagnato dai frati dei quattro ordini francescani, Bergoglio si inginocchia davanti alla tomba per un momento intenso di preghiera. Nella basilica di Santa Chiara depone un semplice mazzo di rose bianche avvolte in un fascio di carta blu davanti alla cripta della sorella spirituale di san Francesco. «Insegnaci a essere strumenti di pace», invoca il Papa, chiedendo che tacciano le armi in Siria, in tutto il Medio Oriente e in Terra Santa, dove andrà in viaggio a gennaio. Poi esce. È un bagno di folla. La gente applaude. Lui esorta ognuno ad ascoltare, camminare e annunciare fino alle periferie. E invita a non fare caricature del santo: «La pace francescana non è un sentimento sdolcinato. La trova chi prende su di sé il suo giogo, cioè il suo comandamento: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». Seguono tre sferzate ai religiosi: basta con «queste omelie interminabili, noiose, nelle quali non si capisce niente». Alle consorelle: «A me dispiace quando trovo suore che non sono gioiose, che forse sorridono col sorriso di un’assistente di volo ma non con il sorriso della gioia che viene da dentro». E sul celibato sacerdotale: «La verginità per il Regno di Dio comporta la rinuncia a un legame coniugale e a una propria famiglia, ma alla base c’è il sì come risposta al sì totale di Cristo verso di noi». Altro passaggio di grande effetto quello sugli sposi, rivolto ai 50 mila giovani che l’aspettano, prima di concludere il viaggio con la tappa alla Porziuncola, il luogo dove il santo morì: «Litigate quanto volete, fate volare i piatti. Ma mai finire la giornata senza fare la pace e dire: scusa, ero stanco».
Le dodici lunghe ore di visita terminano quando quasi alle 8 di sera l’elicottero con le insegne s’invola verso Roma. Nella Basilica di Santa Maria degli Angeli le campane suonano e salutano Francesco, il Papa.

Da La Repubblica del 05/10/2013.




“chi è il nostro prossimo?” secondo A. Sofri

altare

“Perché sono loro il nostro prossimo”

di Adriano Sofri

un bellissimo articolo di Sofri che risponde ai più riottosi ad un’accoglienza dei migranti invitandoli a mettersi di fronte all’immediatezza della situazione al di là di posizioni precostituite che in quanto tali sono astratte:

in “la Repubblica” del 4 ottobre 2013

Ci si può commuovere tutti i giorni, o c’è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l’altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c’è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all’ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un’auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l’Isola dei famosi, la sera, e capiranno tutto. Dunque si è quasi offesi, da una giornata simile: centinaia di morti, l’ennesima, più lunga fila di sacchi da monnezza, non si può pretendere che ci commuoviamo ogni giorno che Dio manda, perbacco, e all’indomani di un allegro rilancio del governo, che prima era di necessità e ora è d’amore e d’accordo. Che c’entra il governo con la strage della barcaccia? Niente, appunto. Niente e nessuno, c’entra. È stata una disgrazia. Cioè: il cinismo degli scafisti, l’imprudenza dei passeggeri, il panico di tutti. I superstiti non presentavano problemi molto gravi, ha detto un bravissimo medico, qualcuno aveva bevuto, con l’acqua salata, parecchia nafta. Non c’entra nessuno, accusare, inventarsi dei colpevoli, è un lusso da salotto. (I leghisti sanno di chi è la colpa: di due signore). Però il papa ha detto: è una vergogna. Allora bisogna che qualcuno si vergogni, o che ci vergogniamo tutti. Di che cosa? Di tutto: della guerra civile in Siria, del mattatoio somalo, della violenza nigeriana che ricaccia indietro i ghanesi. Ah, va bene, campa cavallo! Vediamo più da vicino, allora. Controllare meglio quel tratto di mare? Ci sono occhi meccanici cui non sfugge un branco di sardine. Chi se ne intende dice che il lavoro che fanno la nostra capitaneria, la marina militare, la guardia di finanza, e anche i mezzi mercantili e da diporto è ammirevole, che i radar non bastano a vedere tutto, soprattutto con imbarcazioni piccole e mare mosso e sottocosta. Bene: eppure qualcosa occorre fare. Perché ieri non eravamo solo commossi fino alle lacrime, ma anche esasperati e furiosi. Perché anche piangendo, si pensa. Si pensa che in Giordania, in Libano, in Turchia, in Iraq, ci sono oggi un paio di milioni di profughi siriani, e da noi ne sono arrivati due o tremila; cui vanno sottratti – 250, 300? – quelli di ieri. Si pensa che due giorni fa sono state pubblicate le nuove cifre sugli immigrati in Italia, e quattro su dieci si propongono di tornare a casa o andare altrove, e molti l’hanno già fatto. Si pensa che in Grecia, tanto più povera di noi, e tanto sorella nostra – “stessa faccia, stessa razza” – gli immigrati dall’Europa orientale e dall’Asia e dall’Africa entrano per terra e per mare in numero assai superiore ai nostri, e poi ci restano chiusi, in omaggio a Dublino, in balia dei nazisti di Alba Dorata. E poi, si pensa alle obiezioni di chi, anche in mezzo a tutti questi morti – “una marea di cadaveri”, ha detto ieri un soccorritore, promuovendoli involontariamente a creature marine, quei viaggiatori che non sapevano nuotare – tiene a restare, secondo lui, freddo e lucido. “Non possiamo mica accogliere tutti i fuggiaschi del mondo”. No, infatti, non possiamo. Ma non stanno arrivando tutti i fuggiaschi del mondo. È ragionevole prevedere che ne arriveranno molti di più. Siccome ci si compiace a credere che l’alternativa sia fra buonismo e cattivismo, e chi non è né buonista né cattivista possa solo raccomandare l’anima e il corpo altrui a Dio, proverò a rispondere. Ammettiamo pure il caso più ottuso: che siate rigorosamente contrari all’immigrazione, che ve ne fottiate di tutte le avvertenze (“ma i nostri nonni, e il padre del papa Francesco, sono emigrati…”; e
“gli immigrati oggi coprono il 10 per cento del Pil italiano”, e così via). Bene. E ammettiamo ora che voi, i del tutto contrari, stiate bordeggiando sotto l’isola dei Conigli, e avvistiate una disgraziata che viene da Aleppo o da Samaria e che agita le braccia e annaspa: o la soccorrete, o no. Se non la soccorrete, siete davvero coerenti con la vostra convinzione, e il diavolo vi porti: l’avete meritato. Se la soccorrete, com’è infinitamente più probabile, non avrete affatto ripudiato la vostra convinzione, avrete saputo che c’era una cosa più importante. Che quando succede proprio a voi di imbattervi nella persona in pericolo, che da voi dipende la sua salvezza, le convinzioni politiche o demografiche si eclissano, e senza riflettere un momento lanciate il vostro salvagente o la vostra cima. (E non voglio ancora completare l’esempio, sicché succeda a voi di annaspare e agitare le braccia, venendo da Bergamo Alta, ed essere soccorso da una carretta di scafisti siriani). Questa non è la soluzione, ma è una gran parte della soluzione. La soluzione implica che in Siria finisca la guerra civile, che Dublino 2 non metta in croce la Grecia, che la Germania non si scandalizzi per l’arrivo di sbarcati a Scicli o a Riace, che l’Europa sia l’Europa. Cose grosse. Si possono affrontare, anche se sembrano così grosse. Ma intanto c’è la gran parte della soluzione, che consiste nel comportarsi seriamente, efficacemente, come si fa col disgraziato in cui vi siete imbattuti. Per esempio, quando in uno scampolo d’estate vi capita di fronte una di quelle barche di disperati, su una spiaggia siracusana o ragusana, o calabrese o pugliese, e fate una catena umana. Una catena umana – è gran parte della soluzione. Ma sarebbe ipocrita lasciarla al caso. Se il samaritano avesse saputo che tutti i giorni, sulla famosa strada, i briganti lasciavano tramortito un passeggero, avrebbe chiesto alla polizia di occuparsi dei briganti, e intanto avrebbe improvvisato con altri volontari il pronto soccorso a quell’angolo di strada. Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siamo buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell’immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che criminale, la politica dei “respingimenti”. Li respingi nei campi libici, a essere violati e bastonati e venduti. Li respingi “a casa loro”, dove gliela faranno pagare con la tortura e la pelle. E soprattutto li respingi: agitano le braccia, annaspano, gridano aiuto proprio a te, e li respingi. Perché questo non avviene, non abbastanza? Dobbiamo dirlo chiaramente. Perché le autorità, essendo responsabili (ciò che per molte di loro vuol dire ciniche) preferiscono un migrante annegato a un clandestino vivo che si aggiri per l’Europa. Un anonimo morto a un rifugiato vivo. Lo preferiscono, davvero, magari non dicendoselo così chiaro: se no non lo farebbero. Pensano (infatti pensano): “Se questi disperati arrivassero tutti vivi, sempre più disperati sarebbero incoraggiati a venire”. Bene: se pensano così, anche se non se lo dicono, stanno favorendo le stragi come quella di ieri, “magari non così grosse, non tanti in una volta”. Ciascuno, autorità o persona comune, può liberamente decidere che cosa pensa dell’immigrazione e dei migranti in carne e ossa – il nostro prossimo. Ma bisogna che sappia che cosa sta decidendo, e ne segua le conseguenze fino alla banchina di Lampedusa con la fila dei fagotti da monnezza. Resta da lodare ancora Lampedusa: perché quegli annegati non sono di nessuno, né del paese da cui fuggono, né di quello in cui sognavano di arrivare. Sono del mare, e di Lampedusa.




“siamo credenti!” : p. Pagola commenta il vangelo di domani

anemoni

il commento del teologo biblico Pagola sul vengelo di domani 7 ottobre, 27a domenica del tempo ordinario
Lc 17, 5 – 10

SIAMO CREDENTI?

Gesù aveva ripetuto loro in diverse occasioni: “Che piccola è la vostra fede!”. I discepoli non protestano. Sanno che ha ragione. Sono oramai gia da molto tempo con lui. Lo vedono dedito totalmente al Progetto di Dio; egli pensa solamente di fare il bene; egli vive solamente per fare la vita di tutti più degna e più umana. Lo potranno seguire fino alla fine?

Secondo Luca, in un determinato momento, i discepoli chiedono a Gesù: “Aumenta” la nostra fede. Sentono che la loro fede è piccola e debole. Devono fidarsi più di Dio e credere più in Gesù. Non lo capiscono molto bene, ma non discutono. Fanno secondo loro la cosa più importante: gli chiedono aiuto affinché faccia crescere la loro fede.

La crisi religiosa dei nostri giorni non rispetta gli apprendisti. Noi parliamo di credenti e non credenti, come se fossero due gruppi ben definiti: alcuni hanno fede, altri no. In realtà, non è così. Quasi sempre, nel cuore umano c’è, contemporaneamente, un credente ed un non credente. Per questo motivo, anche per noi che ci definiamo “cristiani” dobbiamo porci questa domanda: Siamo realmente credenti? Chi è Dio per noi? L’amiamo? È egli che dirige la nostra vita?

La fede può debilitarsi in noi senza che ci abbia assaltato mai un dubbio. Se non la curiamo, essa può diluirsi a poco a poco semplicemente nel nostro interiore per rimanere ridotta ad un’abitudine che non osiamo abbandonare. Distratti da mille cose, non cerchiamo oramai più di comunicare con Dio. Viviamo praticamente senza lui.

Che cosa possiamo fare? In realtà, non c’è bisogno di grandi cose. È inutile che ci facciamo propositi straordinari perché sicuramente non li compiremo. La cosa prima è pregare come quello sconosciuto che un giorno si avvicinò a Gesù e gli disse: “Credo, Signore, vieni in aiuto nella mia incredulità”. È buono ripeterlo con cuore semplice. Dio ci capisce. Egli sveglierà la nostra fede.

Non dobbiamo parlare con Dio come se stesse fuori di noi. Egli sta dentro. La cosa migliore è chiudere gli occhi e rimaner in silenzio per sentire ed accogliere la sua Presenza. Neanche dobbiamo intrattenerci in pensare a lui, come se fosse solo nella nostra testa. Egli è nella cosa intima del nostro essere. Dobbiamo cercarlo nel nostro cuore.

La cosa importante è insistere fino ad avere una prima esperienza, benché sia piccola, benché solo duri alcuni istanti. Se un giorno percepiamo che non siamo soli nella vita, se captiamo che siamo amati da Dio senza meritarlo, tutto cambierà. Non importa che abbiamo vissuto dimenticandoci di lui. Credere in Dio, è, prima che niente, fidarsi dell’amore che egli ha per noi.

José Antonio Pagola




“se aveste fede!” p. Maggi sul vangelo di domani

 

vivere
XXVII TEMPO ORDINARIO – 6 ottobre 2013
SE AVESTE FEDE! – Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Lc 17,5-10
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Nel vangelo di Luca Gesù presenta due immagini della vita quotidiana, del rapporto tra i servi e il loro padrone, ma completamente differenti. Addirittura in contrasto.
Nella prima, nel capitolo 12 di questo vangelo, Gesù parla di un signore che, tornando a notte fonda a casa, e trovando i servi ancora svegli, cosa farà? Non solo non si farà servire, ma passerà lui a servirli. E’ immagine dell’Eucaristia, dove il Signore, a quanti hanno deciso di mettere la loro vita a servizio degli altri, comunica le sue stesse capacità d’amore, per un esercizio ancora più grande e generoso.
Qui invece, nel brano che la liturgia oggi ci presenta, al capitolo 17 di Luca, versetti 5-10, l’immagine che Gesù presenta è completamente diversa. E’ un signore che quando il servo torna dal campo pretende di essere servito. E anzi dirà: “Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?”
Come mai questo contrasto? Cosa significa?
Vediamolo allora nel contesto. Gesù ha invitato i suoi discepoli ad essere “figli dell’Altissimo”, a somigliare a Dio. E’ come si assomiglia a Dio? 1
Gesù ha detto: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”. E l’esercizio della misericordia Dio lo manifesta nel perdono concesso sempre, un perdono gratuito, un perdono anticipato. E Gesù chiede ai discepoli di perdonare sempre”.
Gesù dirà ai suoi discepoli che “se sette volte al giorno uno ti dice ‘sono pentito’ tu …” – e usa l’imperativo – “gli perdonerai”. Quindi Gesù vuole rendere i suoi discepoli figli di Dio, pienamente liberi, ma per farlo occorre essere capaci di un amore simile a quello del Signore.
E l’esercizio del perdono gratuito ne è la prova. Per fare questo però bisogna abbandonare quel rapporto servo-Signore, con l’obbedienza alla legge, che faceva parte dell’antica alleanza. Mosè, il servo del Signore, aveva imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza alla sua legge. Gesù, il figlio di Dio, propone una nuova relazione tra dei figli e il loro Padre, basata sull’accoglienza e la somiglianza all’amore del Padre.
Il credente per Gesù non è più colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Se i discepoli non lo fanno, se i discepoli sono incapaci di questa misericordia che si manifesta nel perdono, rimangono nella condizione dei servi. Quindi il brano di oggi mette i discepoli di fronte a un’alternativa: continuare con la vecchia tradizione ad essere servi del Signore senza mai riuscire a percepirne l’amore, e quindi incapaci poi di comunicarlo agli altri, oppure accogliere la novità portata da Gesù, essere figli di Dio, pienamente liberi.
E la libertà si manifesta nell’amore gratuito e nel perdono concesso a tutti.
2




la povertà non può mai essere una colpa!

povertà

non sappiamo più metterci nei panni di chi soffre la povertà ed è costretto ad emigrare per le più gravi varie situazioni: oggi che non abbiamo più bisogno di emigrare, guardiamo alla povertà degli emigranti con paura considerandola come colpa
una bella riflessione in questo senso da parte di M. Serra ne:
L’AMACA del 4 ottobre 2013 (Michele Serra)

Un flusso ininterrotto di persone povere verso i paesi ricchi, questa è sempre stata l’immigrazione. Se perfino dopo giornate come quella di ieri molti ne parlano con paura, ira, astio, è anche perché è cambiato fino a snaturarsi, negli anni, il concetto stesso di povertà. Per secoli la povertà è stata una piaga dalla quale guarire, una condanna alla quale ribellarsi. Oggi, nella società del benessere obbligatorio, è diventata una colpa. I poveri, per il nostro sguardo reso grasso e opaco dalla cessazione della fame, sono colpevoli di povertà. Non è solamente lo spirito del capitalismo ad avere generato questa colossale e molto funzionale mistificazione. È una scorciatoia morale, una comodità psicologica che ci rassicura tutti – mica solo quelli di destra, o i razzisti che ghignano, o i leghisti che latrano – perché se la povertà è un demerito (e non una condizione ingiusta, subita per debolezza e sovente inflitta con la prepotenza) allora i poveri fanno meno pena, e in quei barconi alla deriva, in quegli annegati, oltre a non riconoscere i nostri avi gracili e spaesati come eritrei che fuggivano dall’Italia, neppure riconosciamo la ribellione di nostri simili a una vita grama e infame, dalla quale fuggono esattamente come faremo noi se fossimo al loro posto.




don Ciotti e le interferenze clericali nella politica

 

 Don Luigi Ciotti  "Papa Francesco chiude un equivoco:  addio alle interferenze tra Vaticano e politica"
Don Luigi Ciotti “Papa Francesco chiude un equivoco: addio alle interferenze tra Vaticano e politica”  

don Ciotti commenta le parole del Pontefice nel dialogo con il fondatore di Repubblica

di PAOLO RODARI

  Don Luigi Ciotti, il Papa nell’incontro con Eugenio Scalfari dice che “la corte è la lebbra del papato”. Sembrano parole contro il Vaticano. È così? “È strano, ma la durezza delle parole del Papa, ha un che di leggero e di salutare. E non credo che queste parole vadano ascoltate come rivolte solo al Vaticano. La denuncia, secondo me, è secca e riguarda chi ama stare vicino al potente di turno senza accorgersi che quel ruolo è una responsabilità di servizio. È a queste persone che si riferisce il Papa quando parla di corte. E mi creda, non ci sono solo in Vaticano. È il cuore umano che è tentato dal potere. E molti mediocri, considerato che non riescono a raggiungere il potere, si accontentano di diventare servi e corte del potente di turno (fino a quando questi ha responsabilità). Ha ragione papa Francesco: diventare servi del potere per acchiappare un po’ di potere (anche se di sponda), vuol dire servire il potere e smarrire la logica e la pratica del servizio. Questa è lebbra. Per tutti. Anche per il Vaticano, se questa si annida nel Vaticano”.
Il Papa dice che la Chiesa non deve fare politica. Negli anni passati non è stato così, soprattutto in Italia. È una sconfessione degli ultimi decenni? “In parte sì. Ma credo di capire che il Papa non chieda alla Chiesa di non fare politica nel senso alto del termine. Devono finire, secondo Francesco e così mi sembra di capire, contatti troppo stretti tra politici e gerarchia cattolica. Una sana indipendenza tra politica e chiesa, rende entrambi più veri e più liberi. Per molto tempo la gerarchia ha intercettato non solo il voto dei cattolici, ma ha anche condizionato le politiche concrete di alcuni Paesi. Non credo che il Papa voglia spingere la Chiesa in cielo e la politica sulla terra. Semplicemente chiede che chi si occupa di terra si assuma le sue responsabilità senza farsi scudo del cielo. Senza chiedere voti e consensocon l’alibi del cielo”.
Qual è a suo avviso il segreto di questo Papa. Perché riesce a conquistare tanta gente lontana dalla fede? “Perché è vero. Perché non dice quello che pensa, ma perché prima pensa e poi dice. Perché non ha niente di finto addosso. Nemmeno la sua umiltà è finta, accompagnata alla consapevolezza del ruolo e dei doveri che deve ricoprire. Francesco piace perché guarda negli occhi sempre quando parla: anche se davanti a sé ha milioni che lo ascoltano”.
Francesco dice a Scalfari che la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi sono “il” problema della Chiesa. Ci voleva un Papa sudamericano per sentire parole così? “Forse. Noi siamo un continente

vecchio. Siamo tentati dal contrapporre gli adulti ai giovani e di sacrificare questi ultimi per difendere i diritti e i privilegi di chi è avanti negli anni. Nel Sud del mondo non è così. Le nostre piazze sono piene di capelli bianchi. Nell’America Latina piazze e strade sono dei bambini. Papa Francesco è nel solco dei suoi predecessori: l’unico modo per non contrapporre diritti e generazioni, è partire dai giovani non dimenticando le persone anziane”.