aprirsi alla modernità snatura o emancipa la chiesa?

perché non è solo questione di sesso

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di Walter Siti
in “la Repubblica” del 5 ottobre 2015

 

 quando si parla dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli anticoncezionali, o verso i fedeli divorziati, è immancabile la riflessione sui cambiamenti epocali avvenuti nella società; è curioso che quando invece si parla del suo atteggiamento nei confronti degli omosessuali, l’omosessualità sia ancora vista come qualcosa di monolitico e immobile, da accogliere o rifiutare in blocco

 Negli anni Sessanta e Settanta gli omosessuali erano in maggioranza “promiscui”, oscillavano tra terrore e voglia di liberazione, si sentivano provocatori e dinamitardi; tranne poche eccezioni, consideravano la Chiesa un impaccio e un giudice importuno, e il matrimonio come una poco auspicabile istituzione borghese. Ogni omosessuale “promiscuo” ricorda preti che, spogliati dell’abito, frequentavano le nostre stesse saune o erano clienti dei medesimi marchettari. Si era tutti colpevoli di “concupiscenza” (o meritevoli di “desiderio eversivo”), eroi o peccatori, in ogni caso lontani da qualunque monogamia. Parecchi giovani omosessuali pensavano al sacerdozio come male minore, che li avrebbe giustificati in società del loro mancato commercio con donne e avrebbe dato scopo e funzione alla propria personale infelicità. Oggi l’ideale figura di riferimento sociale è piuttosto l’omosessuale monogamo, che ha un compagno fisso con cui intende condividere la vita. Non si vanta della “concupiscenza” e pensa di costruire una famiglia, magari allietata dalla presenza di figli. Monsignor Charamsa, che l’altro giorno ha presentato alla stampa il suo bel compagno, e che è uscito dall’armadio col sorriso forzato di chi vuole esibire una lietezza ancora ostaggio dell’inquietudine, appartiene con tutta evidenza a questi omosessuali 2.0. Ormai le associazioni di omosessuali cattolici sono parecchie e trovano sempre più spesso sacerdoti che le ascoltano con interesse. Insoddisfatte della dottrina tradizionale, per cui un omosessuale per non essere condannato dalla Chiesa dovrebbe astenersi da ogni realizzazione degli impulsi, quel che ormai chiedono alle gerarchie non è più di essere peccatori continuamente perdonati ma di non considerare più peccato l’amore quando ha la stessa solidità affettiva delle coppie eterosessuali. Per monsignor Charamsa c’è in più, ovviamente, la questione del celibato. Ma saremmo ipocriti se non ammettessimo che la società considera più grave per un prete convivere con un uomo che con una donna; così come il “disordine affettivo” di un giovane seminarista è considerato più grave dai direttori spirituali se si rivolge a un uomo invece che alle prevedibili tentazioni femminili. La tempestività del suo coming out pone il problema di “a chi giova ?”: è un ballon d’essai estremista studiato per favorire i riformisti che possono così passare per mediatori, o è una forma di terrorismo ideologico che finirà per favorire i conservatori che potranno contare sulla paura di un’apocalisse nella Chiesa? Forse monsignor Charamsa, semplicemente, non ne poteva più: e ha fatto un molto terreno calcolo politico, di porre la questione omosessuale in primo piano nel prossimo Sinodo. Solo dallo svolgimento di questo sapremo quanto il calcolo fosse giusto. La questione di fondo è la secolarizzazione: seguire la modernità emancipa o snatura la Chiesa? Quel che penso è che la Chiesa non può permettersi di giocare questo enorme problema soltanto sul piano esiguo, e in ultima analisi misero, della sessualità. I suoi compiti nella modernità mi sembrano molto più impegnativi: obbligare il mondo alla speranza, mostrare che la vita si può donare in nome di una fede, e ricordare a tutti (credenti o no) che l’avvento del Regno non potrà essere che rivoluzionario. Concedere ai sacerdoti un celibato volontario, riconoscere che la complementarità uomo/donna non deve necessariamente attuarsi tra le coperte, accogliere famiglie diverse da quella tradizionale. Queste aperture (o cedimenti) forse sono il prezzo giusto da pagare per non chiudersi in una ottusa trincea che allontanerebbe definitivamente la Chiesa dal compito che Cristo le ha dato, di essere fuoco e lievito per tutta la società.