E. Ronchi e la preghiera

mare fiore

una bella riflessione di Ermes Ronchi sulla preghiera: meditazione sul padre nostro

Questa sera cercheremo di riscoprire insieme lo stupore di essere figli. Lo faremo guidati da una intuizione di Gregorio di Nissa che afferma: “I concetti creano idoli, solo lo stupore coglie qualcosa”.
Spesso qualcuno mi dice: “Padre non ho tempo per pregare. Per favore, preghi lei per me”. Ebbene io rispondo così: “Ricorda che pregare è come voler bene. C’è sempre tempo per voler bene, perché non serve il tempo. Tu non dici: adesso mi prendo cinque minuti per voler bene a mio figlio, a mio marito, al mio nipotino. E’ sufficiente evocare la persona amata e da te parte un qualcosa, un messaggio interiore, uno slancio, una luce. Non serve il tempo, ma il cuore. Qualcosa prende la strada e parte in pellegrinaggio verso il luogo del tuo amore. Basta un istante per amare, o meglio, per esserne consapevole. Perché già ami prima, già sei struttura d’amore dentro, là dove nascono le parole, i sogni, i sorrisi, le azioni. Così è la preghiera, basta un istante, uno slancio del cuore, un solo movimento. I padri antichi dicevano che la preghiera è itinerarium mentis in Deum, cammino dell’anima verso Dio, istante forse breve, ma acceso; passo che ci pare cortissimo, ma che vibra di forza. La preghiera è un attimo immenso. Forse, solo per istanti si può realizzare il comando difficilissimo di Gesù: amerai con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente… Solo per istanti immensi.
Perché in principio non c’è la preghiera. La preghiera non è il primo atto dell’uomo, né del credente. Prima c’è un’esperienza, un grido, la passione del dolore, un amore, la carezza della gioia, uno stupore, almeno quello di essere vivi. Ed è questa la sorgente da cui nasce la preghiera come supplica e come canto, talvolta come contestazione di Dio..
Bisogna essere ben vivi per saper pregare. Bisogna essere molto vivi per pregare bene. Perché la preghiera è già in noi come sete, come esigenza. Dobbiamo solo lasciarla sgorgare, riconciliandoci con le pagliuzze d’oro che sono già presenti nel fiume del nostro io profondo. La preghiera è già dentro. Infatti lo Spirito Santo già prega in noi con gemiti inesprimibili (Rom 8,26). Che io ne sia consapevole o no. Non dobbiamo andare a conquistare la preghiera lontano, in chissà quale deserto misterioso. La preghiera respira col mio stesso respiro. La preghiera nasce prima delle parole. È sete e grido. Viene prima di te. Nasce con il bambino che nasce e grida con il bambino che grida. Non consiste nel dire preghiere: è desiderio di una sorgente e grido del sangue. Appartiene alle fibre più intime di tutto ciò che esiste.
Noi siamo chiamati a partecipare a questa corrente immensa e salvifica, che viene dal seme stesso della vita. Allora pregare è facile. Io prego perché vivo. L’intima essenza d’ogni creatura è di essere preghiera.
Che cos’è, allora, la preghiera? È collocare il senso ultimo della vita, delle cose, non in se stessi ma fuori di sé. È costatare che la speranza del mondo non risiede nella cronaca quotidiana ma oltre, in alto. Pregare, perché? Perché quando imparerò a pregare, avrò imparato a vivere, sarò finalmente uomo. Pregare vuol dire accorgersi che esistono gli altri. È smettere di ripiegarsi su se stessi: è urgenza di aprirsi, è sfuggire all’eterno ritorno su di sé. Narciso è più lontano da Dio di Caino; colui che guarda solo a se stesso è più lontano da Dio di Caino.
Dice il Signore nel libro della Genesi: Io proteggerò Caino, chi lo tocca sarà punito (Gn 4,15). Ma Narciso è assolutamente inconvertibile.

Io prego perché vivo e vivo perché prego

Io prego perché vivo, perché vivere è desiderare l’altro, desiderare la comunione. La preghiera è innata in tutte le nostre fibre, grida nella nostra stessa fisiologia. Prego perché vivo. L’essenziale preghiera dei salmi, la più ripetuta, è soltanto questa: Signore, fa che io viva. Il mio sangue chiede di vivere in una invocazione muta, originaria, primordiale, ininterrotta. Io chiedo di vivere e vivere chiede comunione. Diceva Heidegger: denken ist danken, pensare è già ringraziare. Vivere è già pregare.
E poi, io vivo perché prego. La preghiera fa lievitare la vita che si irrobustisce al contatto con Dio. Vorrei dirlo con una divagazione etimologica. Nella liturgia noi usiamo ancora la parola greca Kyrios, che significa Signore, parola liturgica della chiesa universale, da sempre in uso, e che deriva dal verbo KYO, il verbo più proprio e geloso ed esclusivo della donna, che indica l’essere incinta, il portare dentro una vita.
Il nome di Kyrios viene attribuito a chi è portatore di vita, a colui che fa crescere, difende, protegge, fa germinare vita. Dio è Dio perché datore di vita, colmo, gravido di vita che da lui si diffonde nella creazione continua, nella generazione perenne, nella resurrezione di ciò che credevo morto o spento. Dio è padre e madre nella sua stessa radice etimologica, nel senso primordiale di gravido di vita.
Allora pregare è pormi davanti a Lui, come davanti a una fontana, perché vita venga e riempia le anfore vuote del cuore, le anfore assetate dell’anima. Pregare è, allora, partecipare alla vita del Kyrios, che dona, nutre, fa crescere la vita.
Prego perché vivo: in tutte le forme dell’amore, l’uomo vivendo prega, fa comunione con la storia di Dio. Vivo perché prego: porto Dio nella vita, faccio della vita un luogo teologico, di rivelazione, faccio dell’amore un luogo privilegiato di evangelizzazione, un nuovo battesimo.
Quando Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, riceve il messaggio dell’angelo nel tempio (Lc l,8ss) e dubita, diventa muto. Ritrova la parola solo quando nasce il bambino, cioè quando lui diventa padre, quando partecipa del kyrios di Dio. Ritorna alla parola e ritrova la capacità di pregare quando gli nasce un figlio, quando un amore nuovo scioglie i limiti del cuore.
Così noi ritroviamo la parola e la preghiera, ritroviamo le parole buone e giuste quando siamo padri, quando cioè abbiamo cura della vita, quando sappiamo amare. La vita cessa di essere muta quando generiamo un figlio, un amico, un fratello, un amore. Se non hai un cuore di carne, le parole diventano di pietra.
Tu preghi quando dai vita. Così Zaccaria riprende a parlare e a pregare (è il Benedictus, la preghiera che la Chiesa ripete ogni giorno all’alba) quando la sua vita si apre al dono, diventa piena, vera. Prega perché vive. E, pregando scopre dimensioni nuove per il figlio, e profondità impensate: tu bambino, figlio mio bambino, figlio senza parole, tu sarai profeta e Dio verrà dietro di te. Pregare crea uomini con più orizzonti e con più storia. Non ci interessa un sacro che non faccia fiorire l’umano.
La stessa cosa accade alle due madri, Elisabetta e Maria. Sono entrambe incinte, partecipano del Kyrios, colui che è la fonte della vita e che le abilita al canto, al Magnificat per Maria, alla beatitudine e alla lode per Elisabetta: la preghiera sgorga dalla vita. Pregare è facile, dunque, basta essere ben vivi. E vivere è facile, non è un mestiere ingrato, basta non essere come Narciso.

Il Padre nostro

Nella preghiera cristiana, quella che sappiamo meglio, quella che intesse il nostro crescere, che accompagna i nostri giorni è il Padre nostro. Essa è prima di tutto una preghiera “espropriata”, dove mai si dice “io”, mai si dice “mio”; sempre, invece “tu” e “nostro”. È la preghiera in cui si è liberi dalla tirannia di questo “io” che vuole mettersi al centro. Ricordate la parabola del fariseo nel tempio. Prega, e pregando pecca; continua a ripetere “io faccio, io dico, io pago, io non sono come gli altri…” (Lc 18,9-14). La sua preghiera non è altro che un monumento innalzato a se stesso. E Dio è un muto specchio su cui far rimbalzare la sua soddisfazione.
Il primo atteggiamento per pregare bene è imparare a dire “tu”: il tuo nome, il tuo Regno, la tua volontà; e – di conseguenza – è imparare a dire “noi”: il nostro pane, i nostri debiti, il nostro male. Pregare è uscire dall’io ed entrare nella relazione. Il segreto del Padre nostro è la relazione. In questa preghiera la passione per il cielo si coniuga con la passione per la terra. E la causa dell’uomo diventa la causa di Dio. E mentre nella prima parte l’uomo si interessa di Dio e dice: il tuo Regno venga, la tua volontà si compia, nella seconda parte Dio si interessa dell’uomo e gli dona pane, perdono, liberazione dal male.
Qui udiamo l’appello ad uscire da noi stessi: la sua voce che continuamente dice “va”, che continuamente dice “vieni”. Vai verso l’uomo. Vieni verso il Padre. Non si può pregare se non si ama con la stessa intensità il cielo e la terra. Il Padre Nostro è la preghiera degli appassionati: è nata da una immensa passione per il cielo e per la terra ed è destinata non a grigi impiegati, ma a gente ben viva, appassionata di Dio e degli uomini.

Essere figli

La prima esperienza di umanità che noi tutti facciamo è quella di essere figli. Noi esistiamo perché figli: di un uomo e di una donna e del loro amore, figli di una storia, figli di Dio. La prima esperienza comune a tutti è l’essere generati, da altri, a una vita che non è mia, che viene da prima di me e che va oltre me. A una vita che è dono. La prima esperienza è che nessuno è figlio di se stesso. Così la prima parola del Padre Nostro ci apre alla trascendenza. Parola importante, filosofica, difficile, attraverso la quale un uomo e una donna annunciano che il segreto del loro modo di vivere è in un “al di là”, in un altrimenti. Il mio segreto è un “oltre”. Questo affermo quando dico “Padre”: il mio segreto è oltre me. E ricevo me stesso come un dono che viene da altrove. Accanto all’orante e alle sue prime parole si può allora percepire l’onda di un mare invisibile che viene a battere sulle cose e sulle parole della vita quotidiana, come un appello a salpare, a navigare avanti. Così inizia il Padre nostro: l’essenziale è avere un padre. Che ama ed ha cura.
Per il cristiano avviene come per il bambino: solo se fa l’esperienza di essere amato sarà poi capace di amare a sua volta. Perché ad amare si impara: noi cristiani lo impariamo da Dio.
C’è la tentazione, oggi, di ridurre la religione a carità, a solidarietà umana, al compimento di opere buone. Fai del bene corrisponde a Sei un buon cristiano. Questo è importante ma assolutamente insufficiente. L’ultima tentazione della Chiesa, oggi, è quella di una religione senza Dio, senza trascendenza, di una religione ridotta a opere buone, a un codice di virtù sociali, quasi una religione “atea”. Da un Dio superfluo ci preservano la preghiera e l’eucaristia che hanno come loro meta la comunione con Dio.

Abbà, Padre

E Gesù diceva: Abbà. Parola aramaica, non ebraica, parola del linguaggio popolare, del dialetto comune. Tutte le preghiere che gli evangelisti ci hanno tramandato iniziano con questa parola: Padre. Per 170 volte ricorre nei Vangeli questo termine che è una delle caratteristiche inconfondibili della preghiera di Gesù. E mi chiedo: perché inconfondibile, se tutte le religioni, da sempre – i Sumeri, gli Egizi, i Greci, i Latini – hanno usato questo termine di Padre riferito alla divinità? Se questa parola raccoglie il senso di precarietà e di dipendenza di ogni creatura sotto il sole? Se anche gli Ebrei nel Primo Testamento e più spesso al tempo di Gesù, si rivolgevano a Jahwé chiamandolo Padre, sentendosi figli? Perché dire che ciò è tipico di Gesù?
La singolarità del rapporto di Gesù con il Padre è una costante di tutti e quattro i Vangeli. E lo rivela anche l’uso sorprendente di alcune formule: Gesù parla sempre di “mio Padre”, oppure di “vostro Padre”, non associandosi mai ai discepoli per dire insieme a loro “nostro Padre”. Gesù aveva coscienza di una relazione unica, e non estensibile, con il Padre. Lo stesso Padre Nostro non è l’orazione detta insieme, non è la preghiera comune a Gesù e ai discepoli: “Quando voi pregate, direte: Padre nostro”. Quando pregava Gesù diceva: Abbà!
Abbà è la parola aramaica con cui i bambini in casa chiamano il papà; fuori casa, il figlio che incontra il genitore, lo chiama “Signore”. In casa, anche il figlio sposato si rivolge al genitore con Abbà. È la parola più confidenziale, più affettuosa, più familiare. Non ha la solennità della lingua liturgica: in sinagoga si pregava Dio dicendo: Abinù, (padre nostro, in ebraico) o più semplicemente: “ab”. Ma Gesù nel colloquio con Dio usa il linguaggio dei bambini e non quello dei rabbini; usa la lingua di casa e non quella dei documenti: usa il dialetto del cuore.
Questa espressione familiare e banale per chiamare Dio “abbà-papà” poteva apparire come una mancanza di rispetto verso Jahwé. Ma il Vangelo conserva la precisa espressione aramaica, proprio per conservare l’avvenimento dell’ardire insolito di Gesù.
E qui dobbiamo confessare che anche per noi è insolito e un po’ imbarazzante rivolgerci a Dio con l’appellativo di papà; anche per noi, oggi, il messaggio di Cristo suona sconcertante e l’abbiamo talvolta travisato o corretto, talvolta velato o dimenticato. Avviene come per un bambino, che quando chiama il padre o la madre, non li chiama per nome, col loro nome proprio. Papà, o mamma, non è un nome fra tanti: indica invece una precisa relazione, che si compie nell’amore.
Ricordiamo la bella trasmissione televisiva in cui Roberto Benigni commentò l’ultimo canto del Paradiso di Dante. È possibile parlare di Dio solo se l’uomo è come un poppante:

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella. (Par., XXXIII, 108)

Unica parola adatta è quella di chi ancora non parla, dell’infante stretto al seno: è solo balbettando, come un poppante, senza pretendere di sapere, solo ripetendo queste due sillabe ab-ba come un balbettio infinito, che possiamo dire Dio. Se non diventerete come bambini…(Mt 18,3). In questa parola Abbà – non nella parola Padre è l’originalità dell’esperienza di Gesù. E dice che l’identità della vita, il nome del vivere, è “relazione d’amore”. Se non diventerete come bambini, non entrerete… (Lc 18,17). Il bambino è colui che può sopravvivere solo se è amato; è colui che vive dell’amore dei suoi genitori, colui il cui domani dipende dall’amore; vive dentro una struttura vitale intessuta di amore e di fiducia. Il bambino è colui che un gesto d’amore ha tratto ridente dal nulla, e reso eterno.
Gesù conosce e usa anche altri nomi di Dio, lo vediamo nelle parabole dove Dio appare come Signore, re, giudice, padrone; ma tutte le parabole sono sotto il grande arcobaleno della bontà e della tenerezza di Dio come abbà, papà. Tutti gli altri sono appellativi di Dio, aggettivi, ma padre è il suo nome proprio. Che cosa Gesù ha veramente creato nel campo religioso? Gli studiosi cercano ciò che del Vangelo ha radici nell’Antico Testamento e ciò che invece è assolutamente nuovo, originale. Ebbene, l’unica cosa originale è Lui, un Figlio che si rivolge a Dio con questo nome così insolito, cosi poco ossequiente, così assoluto: abbà.
E scopriamo allora di avere un Padre, scopriamo che non nasciamo per una combinazione casuale di cellule, o di aminoacidi, che non si vive per coincidenze, né si muore per caso, votati al nulla, ma che tutto è sotto il segno della paternità. La storia dell’uomo è chiusa tra due parentesi che gli atei dicono “di nulla”, e che noi, con Gesù, diciamo “di amore”.
Perciò la prima parola della preghiera è Padre, anzi papà, cioè una vibrazione, una totalità, una modulazione della gamma dell’amore. Un amore sorgivo, iniziale, primordiale: la radice della preghiera e della fede e di tutta la religione è ciò che Dio fa per me, non ciò che io faccio per Dio. Pregare dicendo Padre è entrare in una struttura di fiducia; significa opporre alla struttura del sospetto reciproco e della indifferenza il sistema della fiducia assoluta.

Padre e altri amori

Di quale padre si tratta? Innanzitutto di lui possiamo dire che egli è Padre che non sequestra i suoi figli, che li ama di un amore non possessivo. Che non è geloso degli altri amori dell’uomo. Infatti sulla santa montagna del Sinai non ha detto: Tu non avrai altro amore all’infuori di me. Ha detto invece: Non avrai altro Dio all’infuori di me. Nel vangelo Gesù riassume la legge e la profezia in queste parole: amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore. Ma non dice: amerai Dio solamente. Dio non è Padre geloso, un rivale dei nostri amori. La totalità del cuore che egli chiede non significa esclusività del cuore. Allo stesso modo, con la stessa totalità amerai tua moglie, tuo marito, tuo figlio, i tuoi genitori. Li amerai con tutto il cuore, ma non amerai solo loro. Amerai anche il tuo amico, lo amerai con tutto il cuore, ma non amerai solo lui.
Il Padre non è geloso delle gioie della strada, non è in competizione con i nostri amori. Non vuole essere unico possessivo sbocco del nostro cuore. Il cuore dell’uomo ha molte lunghezze d’onda, ama in molte direzioni, e Dio non può e non vuole rispondere a tutte. Non vuole sottrarci alla polifonia dell’esistenza. Il rischio di una religione malintesa è di farci smarrire la polifonia dell’esistenza. Qui vive una parrocchia di musici e artisti che possono capire molto bene tutto ciò. Il rischio di una religione capita male è quello di far perdere tutta la ricchezza delle note e dei suoni della vita. In una relazione vissuta bene Dio è come la nota dominante, il canto fermo, e attorno ad esso può dispiegarsi in tutta la sua ricchezza il contrappunto di tutte le altre voci, degli altri amori, sicuri di essere sostenuti dal canto fermo e di riuscire ad esprimere tutta la loro bellezza.
Amerai allora il tuo Padre che è nei cieli, lo amerai gelosamente come unico Dio. E non avrai altri idoli, altri dei. Ma ci saranno altri amori, per necessità, per resurrezione, come acqua e pane nostro quotidiano. Piccolo e grande nostro cielo quotidiano. Liberi da un malinteso amore possessivo del Padre.

Amore sorgente

II Padre esiste solo se ha dei figli vivi, solo come paternità continua, solo come sorgente di vita, trasmessa a noi. Gesù dice alla Samaritana: ti darò un’acqua che diventerà in te sorgente (Gv 4). Anche tu esisterai solo come sorgente per qualcuno che vive accanto a te. La fine della sete non è nel bere a sazietà, ma nel diventare fontana per altri, nel dissetare qualcuno, diventando sorgente per i bisogni e l’arsura d’altri. La fine della fame non sta nel consumare voracemente per me il mio pane, ma nel saziare la fame d’altri. La felicità, tutti lo sappiamo, non sta nel consumare la mia riserva di piacere, ma nel far nascere un sorriso sul volto dell’altro. Allora la felicità che da te defluisce la riattingi dal volto dell’altro, moltiplicata. Come diceva Pacomio, abate del primo monastero cristiano: “È nell’affaticarmi per voi che trovo il mio riposo”.

Genitore e padre

Dio è padre. Genitore è colui che genera fisicamente un figlio. Padre colui che ti introduce nella vita. La nostra cultura e la nostra esperienza privilegiano la paternità rispetto alla generazione fìsica. Generare un figlio è facile, bastano pochi istanti per essere genitore. Ma essere padre è una avventura che prende tutta la vita. Essere padre significa insegnare il mestiere di uomo, l’arte di vivere, mostrare come si ama, come si lavora, come si gioisce. Dio è padre per questo. Nella sacra Scrittura il termine figlio, applicato a noi, è un termine tecnico: voi dite che avete Abramo per padre, ma non fate le opere di Abramo; non siete quindi suoi figli. Perché il termine figlio nella Scrittura designa colui che agisce come agisce il padre, colui che prolunga nella sua esistenza l’eredità del padre, le sue caratteristiche, il suo comportamento. Figlio è colui che si comporta come il Padre, figlio di Dio è uno che fa ciò che Dio fa.
Beati i costruttori di pace, saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,1-12). Perché lui non è il Dio delle guerre, ma della pace, che stronca le guerre e riporta alle loro case i prigionieri (Gdt 16,2). Chi fa la pace agisce come Dio, per questo è figlio di Dio. Dio è Padre solo se i figli agiscono come lui. Egli ha messo la sua paternità nelle nostre mani. Allora vediamo come non ci sia etica possibile senza una mistica, senza una comunione di vita con Dio. La morale altro non è che l’espandersi verso l’esterno di una vita divina che già urge dentro, che si dilata e fa forza contro le pareti troppo strette del cuore. Non c’è etica senza mistica. Non c’è mistica senza preghiera.
Il Vangelo è pieno di una piccolissima parola, come, un avverbio che da solo non vive, che ha bisogno di appoggiarsi ad un nome. Siate perfetti come il Padre, siate misericordiosi come il Padre, amatevi come io vi ho amato, come ho fatto io così fate anche voi, la tua volontà come in cielo così in terra. Come Cristo, come il Padre, come il cielo: ed è aperto per noi il più vasto orizzonte, l’obiettivo massimo, il percorso infinito. Allora so che cosa fare: ascoltare e guardare, per vedere come Dio agisce, che cosa fa nella storia, che cosa il suo Spirito crea sulla terra, quali sono le strade del regno, che cosa il vangelo dice di me, del mondo, di Dio. Altrimenti non divento figlio e Dio senza figli vivi non è Padre.

Quale padre?

Non sono figlio se non agisco come Dio. È fondamentale che sappia però in quale Dio credo. Anche Saddam prega, anche Bush prega. E fanno bene. Ma il problema è chi pregano, quale Dio pregano. Il Signore della guerra? Colui che riceve lode dall’ecatombe di battaglie sante? La peggiore sciagura che ci possa capitare è quella di sbagliarci su Dio. Perché poi ti sbagli sull’uomo e sulla storia e sul senso stesso della tua esistenza. Per non sbagliarsi su Dio occorrono ascolto, contemplazione e preghiera. Non avrai altro Dio, dice il primo dei comandamenti. Ma il testo sacro aveva appena detto: io sono colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto, il gohel, il liberatore. Non avrai altro Dio: non accettare un Dio che ti rimetta in schiavitù o che tolga libertà a popoli e persone e menti. Non accettare un Dio che benedica gli uccisori e le armi e le azioni di terrorismo. Non avrai altro Dio che il Dio liberatore. E questo è il fondamento dell’umanità, non della divinità.

Amore passivo

Davanti al Padre, sono chiamato per prima cosa a riscoprire non l’amore attivo ma l’amore passivo, il lasciarmi amare. Io sono cristiano perché Dio mi ha amato per primo. Continuo a restare cristiano perché continuo a sentirmi oggetto di amore, in debito d’amore. Se non ti senti debitore, non nascerà mai dentro di tè il Magnificat, mai una preghiera esultante. Continuerai sempre a dire: io, io, io…, saprai solo moltiplicare richieste.
È proprio in nome di questo debito che l’angelo dice a Maria: sii felice, Maria, tu sei riempita di Dio. Il tuo nome è: piena di grazia, cioè amata per sempre. Amata per sempre. L’angelo ci chiama alla riscoperta dell’amore passivo, a stare davanti al Crocifisso non per spremere dal cuore arido delle preghiere che non germogliano, ma per sentirsi amati dalle sue piaghe; a stare davanti all’icona non per guardarla, ma per lasciarsi guardare. Ci chiama, nel momento della comunione, non a forzare sentimenti e parole, ma a lasciarci invadere, lasciar riempire le anfore vuote.
Giovanni è l’Apostolo amato, il prediletto, oggetto d’amore. Pietro invece è l’apostolo che ama, che si butta in acqua, che sfodera la spada. Lui è soggetto d’amore. Oggi io sto con Maria e con Giovanni, a sentirmi amato, a sentire che ogni amore è un dono immeritato. Non si merita l’amore. Dio non si merita, si accoglie. L’amore passivo crea le condizioni per le più alte rivelazioni: è Giovanni che per primo giunge al sepolcro, che capisce, cioè, la resurrezione; è di Giovanni, l’amato, la più folgorante definizione di Dio: Dio è amore (1Gv 4,8). Lasciarsi amare è carico di rivelazioni: senti Dio che in te si esprime, lo senti parlare parole che toccano il cuore. Il cristiano diventa davvero un amato amante, agisce come agisce Dio.
La linea fondamentale della Storia Sacra non è ascendente ma discendente: si fonda non sul mio impegno di salire, di dare la scalata al Paradiso, ma sull’impegno di Dio di discendere. E’ la grande intuizione di santa Maria, quando nel suo Magnificat, per dieci volte su tredici verbi ripete: è lui che innalza, è lui che abbassa, è lui che riempie, che manda a mani vuote, e guarda, ed ha misericordia, è lui. Per dieci volte. È il decalogo di Dio, i dieci comandamenti dell’agire del Signore, quasi risposta al decalogo dato all’uomo sul Sinai. Una donna, Maria, porge un decalogo a Dio. Come un responsorio tra Padre e figli, tra cielo e terra. Il centro della fede è ciò che Lui fa per me, perciò io altro non farò che prolungare la sua azione nel mondo.

La casa di Dio

Padre nostro che sei nei cieli. Ma il cielo di Dio sono i piccoli e i poveri nei quali si nasconde (Mt 25,40), ai quali si rivela (Lc 10,21) e che più degli altri invocano il pane quotidiano. Il cielo dove Dio abita è il povero, il prossimo. Il fratello è il cielo di Dio. Dio siede alla destra di ciascuno di noi. Solo se si compie questo percorso di accoglienza e di servizio delicato, tenero, ai piccoli, solo dando loro dignità e affetto, solo allora si può chiamare Dio con il nome di Padre. E non solo Padre mio, ma Padre nostro. Solo facendo lo stesso percorso intriso di umanità che ha compiuto anche Gesù impareremo a dire: Padre.

E il dolore

Ma c’è anche, e soprattutto in questi giorni, un grande peso di dolore nel mondo: avvenimenti tragici, crudeli, di immensa sofferenza che la televisione riversa nel nostro vivere come se fossero videogiochi… Colui che prega è sempre voce di ogni creatura e c’è un immenso peso di lacrime in tutto ciò che vive: il mondo è aggressivo, ci sono vene aperte da ogni parte. Nemmeno la vita quotidiana nostra sfugge alle ombre dell’assurdo, dell’enigmatico, del crudele. Per questo, forse, la sensibilità moderna è pervasa da accuse contro Dio, contro il Padre. Non c’è morte che non provochi accuse contro Dio. Anzi, molti uomini d’oggi ripetono, in rivolta o rassegnati, le parole di Marcione, un eretico del II secolo: “Dio è padre di nessuno”. Il dolore innocente è la più grande contestazione all’esistenza di Dio. Nel Padre Nostro io divento voce del dolore, che a sua volta è voce della creazione.
Ma in che modo Dio si mostra Padre in un mondo che geme con le vene aperte, in una vicenda personale o familiare che non è libera dall’assurdo e dalle lacrime? Dio non ci tira fuori dalle onde pericolose, ma può darci coraggio dentro le tempeste. Dio non è un sedativo per le nostre paure o una risposta al nostro bisogno di protezione. Non è un genitore ansioso sempre pronto a intervenire, che risparmia al figlio qualsiasi prova e fatica, e lo rende così inetto alla vita, un mollusco incapace di direzione e di scelta. E quanti genitori in questo modo rendono i figli dei molluschi… Dio non ti toglie dalla tempesta, ma ti dà forza perché tu continui a remare dentro la tempesta, perché le tue mani non abbandonino il timone, perché gli occhi della sentinella scrutino attraverso le tenebre quanto manca all’alba. Se il nostro Dio esistesse unicamente per tirarci fuori dalle onde perigliose e non per darci coraggio in mezzo alle onde, allora morirebbe la nostra speranza, perché ci sarebbe negato un senso dentro le nostre vicende.
Quando prego per il dolore del mondo, io non faccio a qualcuno l’elemosina di una preghiera. Quando prego, io sono coloro che soffrono; io sono Abele e Caino e l’anonimo che grida a lui dal deserto dell’Iraq o da una carretta sperduta nel Mediterraneo che cerca l’approdo. Io non faccio la carità di una preghiera agli sventurati di oggi: sono loro che mi trasformano con il loro grido, mi allargano il cuore, me lo invadono, come hanno invaso di vita e di preghiere la Bibbia.

Lo stupore

Tutti conosciamo il miracolo della prima volta. La prima volta che hai visto il mare, la prima volta che hai amato, che tuo figlio ti ha chiamato “mamma”. Poi ci si abitua. L’eternità, invece, è non abituarsi. L’eternità è il miracolo della prima volta che si ripete sempre. La nostra capacità di essere felici è legata alla nostra capacità di meravigliarci. Allora la preghiera che più da lode al creatore è la gioia di vivere. L’umile piacere di esistere, provato con gratitudine, dà lode a Dio, perché attinge allo stesso stupore di Dio che guardò e vide e gridò: che bello! a tutto ciò che aveva fatto. Lo stupore e il piacere di vivere prolungano qualcosa di Dio. Con la meraviglia e la gioia di vivere ripetiamo: davvero hai fatto belle tutte le cose. Allora la vita cristiana è coniugare la mistica dello stupore e l’etica dell’impegno; legare insieme lo stupore di essere figli e l’impegno a rendere Dio padre di figli vivi.