Monthly Archives: Settembre 2025
preoccupanti integralismi che vogliono Dio ‘dalla propria parte’
integralismi
“Dio è con noi”
trova le differenze tra Phoenix e Teheran
Questa faccenda che “Dio è dalla nostra parte” è vecchia come il mondo ed è resa un po’ ridicola dal fatto che lo dicono in molti, ognuno con un Dio diverso, da diverse angolazioni, con obiettivi molto differenti, per cui i casi sono due: o Dio ha svariati conflitti d’interessi, oppure c’è troppa gente che lo tira per la giacchetta allo scopo di legittimare le proprie porcate. La cerimonia di Phoenix in onore del defunto Charlie Kirk ci ha mostrato una sfumatura colossal della faccenda. Anni e anni e anni di pensiero colonialista – mannaggia a noi – ci avevano portato a considerare i fanatici religiosi come una questione di arretratezza culturale: a parlare, sparare, governare in nome di Dio erano, nella vulgata occidentale, i barbari del Sud e dell’Oriente, quasi sempre islamici, per cui erano anche diventate di moda alcune parole (“fondamentalisti”, per esempio). L’altro giorno, invece, eccoci risvegliati a osservare in tutta la sua potenza di fuoco un integralismo moderno e occidentale, ordinatamente riunito in uno stadio, affollato di magliette, cappellini, simboli religiosi e reliquie (il crocefisso macchiato di sangue), dove la parola “martire” è stata usata a piene mani, né più né meno che in una manifestazione di masse sciite che si autoflagellano, o nella retorica dell’Isis.
Certo non si scopre oggi un certo bigottismo estremista degli Stati Uniti d’America, quella faccenda un po’ stupefacente e un po’ naïf per cui nelle scuole si vieta di insegnare Darwin perché si sa che l’evoluzione è una barzelletta woke e il mondo fu creato in sette giorni, anzi sei, domenica libera. Faceva però lo stesso impressione vedere l’intero stato maggiore della prima (seconda?) potenza mondiale arringare le folle come predicatori televisivi, minacciare armageddon, chiamare alle armi, insomma considerare la religione come una specie di iscrizione a una guerra. Ecco il pastore Rob McCoy che annuncia: “Questa sera con noi c’è un ospite speciale, è Dio che ci chiede di seguire l’esempio di Kirk”. Ecco l’agit-prop Jack Posibiec che chiede alla folla: “Siete pronti a indossare la corazza di Dio?”. E vabbè, fanno il loro mestiere. Ma che mestiere fa, invece, il vicepresidente Usa J.D. Vance, quando dice dal palco che “la religione e la famiglia sono più importanti dell’istruzione?”. Oppure il ministro della Sanità Kennedy che paragona Kirk a Gesù Cristo? O il capo supremo, presidente Donald Trump, che dichiara: “Terremo alta la sua torcia della rinascita religiosa”?
La sensazione, vagamente straniante, era quella di trovarsi di fronte a un’adunata di estremisti religiosi un po’ invasati, senza turbanti o donne velate, ma con la guerra santa, quella sì. Insomma, una specie di cerimonia medievale – ancora! – però ai tempi dell’algoritmo e del cellulare, con la Bibbia presa alla lettera. Si tratta di politica, ovvio, di una destra all’arrembaggio, di una manovra mediatica per eliminare ogni voce dissidente, di un’offensiva reazionaria a cui Dio dovrebbe fornire adeguata copertura. Ma si tratta anche – a Phoenix era assurdamente evidente – di una voragine antropologica, come se la deriva dei continenti non fosse per niente in pausa, anzi, eccoli allontanarsi sempre di più. Viene da chiedersi cosa diavolo abbiamo in comune – noi europei, magari addirittura laici – con un estremista creazionista texano armato fino ai denti, disposto a giurare che Dio lavora a tempo pieno per gli Stati Uniti. Non molto, direi, non più che con un ayatollah iraniano o con un estremista indù.
il commento al vangelo della domenica
contro il genocidio a Gaza anche i preti escono allo scoperto
nasce la rete dei «preti contro il genocidio»: oltre 500 adesioni
di Paolo Lambruschi
in “Avvenire” del 16 settembre 2025
È nata la rete internazionale dei “Preti contro il genocidio” a Gaza e nei Territori occupati.
L’annuncio è stato dato ieri in una conferenza stampa. «Nata dal basso – afferma don Rito Maresca,
sacerdote dell’arcidiocesi di Sorrento e Castellammare di Stabia – da chi non vuole restare
indifferente davanti ai massacri. Abbiamo deciso di metterci la faccia, siamo 550 sacerdoti cattolici
provenienti da 21 Paesi, (220 italiani) di varie età e sensibilità. È una rete di preti non per
clericalismo, ma per affermare la nostra risposta da presbiteri alla guerra».
Gli obiettivi si possono leggere nel documento fondativo pubblicato sul sito dei Saveriani. «Non
parliamo come politici – dice il testo – ma come pastori e guide di comunità che credono nel
Vangelo e della dignità di ogni vita umana. Non rappresentiamo solo noi stessi, ma anche le
comunità affidate alle nostre cure come pastori della Chiesa cattolica. Il nostro messaggio non è
contro nessuno, ma a favore della vita e della pace. Condanniamo la logica della guerra e della
violenza ovunque si manifesti e chiediamo il rispetto del diritto internazionale, delle risoluzioni
dell’Onu e delle sentenze della Corte penale internazionale contro coloro che opprimono e
sopprimono vite umane innocenti». Poi il passaggio più forte: « Per questo, con la stessa forza con
cui con cui condanniamo il massacro del 7 ottobre, gli omicidi e i rapimenti compiuti dai terroristi
di Hamas, con la stessa forza condanniamo la risposta sproporzionata, l’uccisione di persone
innocenti giustificata come errori involontari, i bombardamenti di Paesi terzi sovrani, i crimini di
guerra, la pulizia etnica, l’uso della fame come arma di sterminio e il genocidio perpetrato dallo
Stato di Israele contro la popolazione palestinese».
La rete dei presbiteri cattolici intende aiutare la popolazione palestinese e la parrocchia di Gaza,
sensibilizzare i politici per fermare la guerra e chiedere «una indagine indipendente sui fatti del 7
ottobre 2023 e sulle successive violazioni del diritto internazionale da parte del governo israeliano».
Tra gli aderenti, il cardinale di Rabat, in Marocco, Lopez Romero, prelati italiani come il presidente
di Pax Christi e arcivescovo emerito di Altamura Giovanni Ricchiuti, l’emerito di Mazara del Vallo
Domenico Mogavero, il vicario apostolico di Anatolia Paolo Bizzeti e sacerdoti come don Luigi
Ciotti, padre Alex Zanotelli, don Albino Bizzotto e don Nandino Capovilla oltre al superiore dei
Saveriani padre Garcia Rodriguez. Alla presentazione hanno partecipato i padri saveriani Pietro
Rossini e Nicola Colasuonno e il gesuita Massimo Nevola, rettore della comunità di Sant’Ignazio a
Roma. Tutti buoni conoscitori della situazione. Ma papa Francesco non aveva detto che occorreva
investigare prima di parlare di genocidio dei palestinesi? «Sì – ammette don Rito – ma lo disse nel
novembre del 2024. Da allora la situazione è ulteriormente precipitata. Del resto, lo stesso cardinale
Pizzaballa ha dichiarato che per chi vede Gaza diventa impossibile parlare di neutralità». Prima
iniziativa della rete sarà un incontro nazionale di preghiera e testimonianza pubblica a Roma il 22
settembre – vigilia dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite – con partenza da Sant’Andrea al
Quirinale fino a Montecitorio
il commento al vangelo della domenica – esaltazione della santa croce
la lezione di Gesù
l’amore di Dio non è un concetto, è una ferita aperta
il commento di A. Spadaro al vangelo della solennità di Santa Croce
È notte. Il buio ha un suo modo tutto particolare di dire la verità. La città dorme, le strade tacciono, le case sono immobili. In una di queste strade un uomo si avvicina con passo incerto. È un uomo colto, uno che ha passato la vita a studiare le Scritture, a interpretare la legge, a custodire le tradizioni. Si chiama Nicodemo. E viene a incontrare Gesù. Non è un confronto alla luce del sole. È un dialogo all’ombra, nel chiaroscuro di una notte che protegge e sospende i giudizi. Come se solo al riparo dalla luce, in quella mezza oscurità, si potesse dire ciò che altrimenti resterebbe sepolto sotto le formule.
Gesù parla. Dice, a un certo punto: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo”. È una frase come una scalinata vertiginosa. Un salire e uno scendere. Ma non stiamo parlando di stelle e pianeti. Non è geografia celeste. È una questione più intima, più drammatica. Gesù sta raccontando una storia – la sua – senza dirla tutta, lasciando che chi ascolta ci entri come in una parabola. Poi cambia immagine. E come un pittore che posa il pennello sul deserto, Gesù evoca una scena antica, incisa nella memoria del popolo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo”. Improvvisamente non siamo più nel buio della notte, ma sotto il sole implacabile del Sinai.
Le dune, la sabbia, il morso dei serpenti, la paura. Nel libro dei Numeri si racconta che, per salvare gli israeliti dai serpenti velenosi, Dio ordinò a Mosè di fabbricarne uno di bronzo e di innalzarlo su un’asta. Chi lo guardava, guariva. Non per magia. Per lo sguardo. Gesù si identifica con quell’immagine: lui sarà innalzato, ma non su un piedistallo. Non su un trono. Su una croce. Non come emblema di potere, ma come segno esposto, vulnerabile, ambiguo. Come un serpente di bronzo che richiama ciò che fa paura, ma lo rovescia. Un simbolo di morte trasformato in possibilità di vita. Viene in mente il Cristo crocifisso dipinto da Grünewald sull’Altare di Isenheim. Il corpo contorto, la pelle piagata, le spine come chiodi nella carne. Non c’è bellezza. Non c’è maestà. Eppure, proprio lì si concentra tutta la potenza dell’amore che non rimuove l’orrore, ma lo attraversa. Che non lo abbellisce, ma lo abita. E poi, come un lampo che squarcia la notte, Gesù pronuncia parole che fanno vibrare i tempi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”. Non ha dato una formula, una dottrina, ma il Figlio “perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”.
L’amore di Dio non è un concetto. È un’esposizione. È una ferita aperta. È un dono che non trattiene nulla per sé. Ancora una volta, tutto si gioca tra l’alto e il basso. Il cielo non è un luogo oltre le nuvole. È una direzione dello sguardo. È una relazione. E il vero gesto non è salire, ma accogliere chi è sceso. Riconoscere la divinità non quando trionfa, ma quando si lascia inchiodare. Non nella forza che impone. Ma nella debolezza che si lascia vedere. Non nel dominio, ma nella nudità dell’amore che si espone. In quella frase è nascosta tutta la tensione tragica del Vangelo: “Dio non è venuto a sopprimere la sofferenza. Non è venuto a spiegarla. È venuto a riempirla con la sua presenza” (Paul Claudel). Le cose che ci spaventano, che sembrano annunciare solo la morte, possono diventare porte. Passaggi. Se non si distoglie lo sguardo. La salvezza non è una fuga, ma un modo diverso di abitare la ferita. È lì, in quella notte di Nicodemo, che comincia la rivelazione più grande: il cielo non è altrove.
il commento al vangelo della domenica
LA ROTTA
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventritreesima domenica del tempo ordinario
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:« Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Fede vera ed essenziale è procedere al buio galleggiando nella tempesta, come possiamo, come sappiamo. Certi che una riva c’è, approdo ad ogni naufragio.
Folle esultanti lo seguivano nel suo ultimo viaggio verso Gerusalemme. Gesù però non si esalta: voi mi seguite, ma essere miei discepoli è tutta un’altra cosa.
Il maestro li prende sul serio, con parole serie:
Se uno non mi ama più di quanto ami padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria vita, non può seguirmi.
Sette oggetti d’amore sono la mappa del nostro tesoro, la rotta della nostra felicità. Ma chi può dire tra noi: io amo te, Gesù, più di mio figlio e di mia madre?
Nel testamento don Milani si rivolge così ai ragazzi di Barbiana: “Caro Michele, cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze”.
Quando vedremo il volto di Dio, comprenderemo d’averlo sempre conosciuto, lui faceva parte di tutte le nostre innocenti esperienze d’amore terreno.
Il discorso di Gesù gira attorno al verbo amare di più.
Ami i tuoi cari? Fallo più teneramente che puoi, ma ricorda che non sono l’alfa e l’omega, non cadere nell’idolatria della famiglia, invece allarga il tuo cuore oltre lo steccato di casa.
Chi è così legato ai rapporti familiari da non essere libero, fa un grave danno prima di tutto a se stesso.
Amerai Dio “con tutto il cuore” significa non avrai un cuore doppio ma semplice, unificato, senza inganni.
Tutto il cuore: nella bibbia la totalità del cuore non è l’esclusività.
Amerai Dio con tutto il cuore, ma allo stesso tempo anche il tuo prossimo. Li amerai senza mezzi termini, perché gli amori a metà sono la negazione dell’amore.
Poi Gesù alza il tiro: Chi non porta la propria croce… non può…
Quale croce? Dio non riceve gloria dalla sofferenza di nessuno, anche Gesù ne avrebbe volentieri fatto a meno. Dio non è per la sofferenza, ma per l’amore. Solo che amare costa, è passione e patimento insieme: “là dove metti il tuo cuore troverai anche le tue spine”.
Se uno non rinuncia a tutto…
Parole pericolose, che a capirle bene si rivelano bellissime: non lasciarti risucchiare dalle cose; impara non ad avere di più, ma ad amare bene.
Un uomo vale quanto vale il suo cuore, e non quanto il suo conto in banca. Questo è vangelo. Tu possiedi solo ciò che hai donato, quello nessuno mai te lo porterà via. Invece, tutto ciò che avrai trattenuto finirà per possedere te: tutto ciò che non serve pesa (Madre Teresa di Calcutta).
Hemingway ne Il vecchio e il mare racconta di un vecchio marinaio che parte con una barca nuova, poi arriva la tempesta e deve buttare in mare tutto, pezzo dopo pezzo.
Alla fine gli rimane solo una piccola tavola rotta, che galleggia. Ecco, se penso alla fede non trovo immagine più incisiva di questa.
Fede vera ed essenziale è chiudere gli occhi e procedere al buio (S. Giovanni della Croce), galleggiando nella tempesta, come possiamo, come sappiamo. Certi che una riva c’è, approdo ad ogni naufragio.
tanti auguri alla flotilla con una preghiera per il suo buon esito
Era dai tempi del G8 di Genova che non vedevo Genova così. Aperta, ridente, coraggiosa e
resistente, solidale.
Ma — lo dico per chi c’era e chi non c’era, per chi ricorda e per chi non sa — la memoria speculare
non corre dalla mattanza, naturalmente: non dal giorno che per il successivo quarto di secolo ha
affogato nel sangue le speranze, che ha congelato nella rabbia e nella disillusione le generazioni da
lì a venire.
No, dico dal primo giorno di quel lontano luglio 2001: il corteo pacifico a cui parteciparono,
partecipammo, tutti. Tutte le finestre erano aperte, allora, le anziane si affacciavano ai balconi e
salutavano.
Ibambini correvano, i portuali sfilavano insieme ai loro figli, alle figlie e tutti cantavano, tutti
promettevano che non ci sarebbero più stati muri ma ponti, mare aperto, il futuro sarebbe stato più
libero e uguale.
C’erano un’allegria e un’energia, quel giorno, una risolutezza, una fiducia nell’umanità che ho
continuato a cercare ovunque, per anni, poi ho smesso. Sabato scorso sono tornata. Timidamente,
con prudenza, mi sono affacciata al quartier generale di Music for peace dove, avevo letto, si
stavano raccogliendo i viveri da mandare a Gaza con le barche di Global Sumud Flotilla. I viveri da
mandare nella Striscia di Gaza per un popolo che sta morendo di fame — letteralmente — sotto i
nostri occhi di occidentali sazi e dissetati da bevande energetiche e tisane diuretiche. La sede di
Music for peace è sotto un cavalcavia, è una rotonda in uno svincolo stradale dalle parti del porto.
Era mezzogiorno di sabato. La sera ci sarebbe stata la fiaccolata e poi le navi, quattro, sarebbero
partite.
Io non so dirvi, adesso, la commozione e l’emozione di vedere persone anziane, bambini per mano
ai genitori con le buste della spesa, decine e decine di volontari dividere la pasta dallo zucchero, i
pelati dalla farina. Una signora con una canottiera rosa — quanti anni ha, signora? 82 — spostare
scatoloni su un muletto. Un bambino di 8 anni — come ti chiami? Martino — sorvegliare che la sua
lista scritta a pennarello, la sua spesa fatta la mattina fosse imbarcata davvero. E artisti, attivisti,
studenti, librai, artigiani, lavoratori del porto, estetiste, parrucchieri, avvocati, preti, amministratori,
gente. Una moltitudine, una catena di montaggio a classificare e dividere, a imballare. Quasi
trecento tonnellate di cibo: ne erano attese, nelle migliori previsioni, quaranta.
Tante le quattro navi di Genova ne possono trasportare.
Posso dire, questo sì, degli abbracci e delle lacrime: li ho visti. Ho visto che sempre, tutti,
incontrandosi si abbracciavano e piangevano.
Persone adulte, persone così tanto diverse: piangevano ridendo. È stato come tornare a quel giorno
di ventiquattro anni fa. È stato come ripartire da lì. Del resto. Qualcuno non ha mai smesso di
resistere nell’intenzione. Stefano Rebora e Valentina Gallo, genitori del bambino Athos, non hanno
mai smesso di esserci, per chi voleva. Nemmeno nei giorni peggiori, i più cupi.
Hanno fondato Music for peace, un’associazione umanitaria che ha organizzato cinquantaquattro
missioni di aiuto in Paesi in guerra, mentre intanto il nostro, di Paese, i governi del nostro Paese si
mostravano avidi, corrotti, indifferenti e cinici. A sinistra come a destra. A sinistra dispiaceva di più,
sorprendeva di più, poi ha vinto la destra: deve essere stato anche per questo. Per la sorpresa e la
disillusione di chi non trovava più casa. Per lo sfinimento delle illusioni deluse. Insomma.
Qualcuno è rimasto sempre lì. E poi è passato il tempo, e poi dopo ventiquattro anni siamo arrivati
all’altro ieri.
Sarebbe bello che oggi chi ha posizioni precostituite, figlie di identità e di pregiudizio — cioè il
giudizio che si dà prima di conoscere ciò di cui si parla, prima di immedesimarsi nell’altro e di
provare a capire. Sarebbe bello che chi si schiera su fronti opposti a priori, perché “guarda chi c’è a
bordo, quella la conosco, quello non mi piace, sono pagliacciate, sono gente che vuole solo essere
notata un momento, vuole stare sulla cresta dell’onda”. Ecco. Sarebbe bello, sarebbe quasi un
miracolo che chi emette sentenze da casa si mettesse in ascolto, provasse a guardare.
Guardatele, le immagini della moltitudine che con le fiaccole ha percorso i cavalcavia del porto di
Genova sabato sera. I parroci, le autorità ecclesiastiche hanno benedetto le navi che partono. Siete
cattolici? Allora fateci caso. La sindaca, Silvia Salis, ha detto che la città medagliad’oro della
Resistenza sta con chi resiste. Voi, invece? Non è solo una missione per Gaza, quella di Global
Sumud Flotilla. È una missione per l’umanità. Per aiutare un popolo allo stremo e quel che resta di
noi, esseri umani. Sumud è una parola araba che significa resistenza. Significa tenere duro —
grosso modo — non piegarsi, andare avanti.
Siamo di fronte alla più grande missione umanitaria civile della storia contemporanea.
Sono partite da Barcellona e da Genova, salpano da quarantaquattro Paesi del mondo barche che
portano cibo a una popolazione civile sotto mortale assedio. La politica, i governi non sono riusciti
a pretendere l’elementare: un corridoio umanitario che li faccia uscire dall’esplicito progetto di
sterminio di Netanyahu, dalle suescelte scellerate e fortissimamente contestate dal suo stesso
popolo. Una missione internazionale, civile, che fa dal basso quello che nessuno fa dall’alto: una
missione in supplenza di governi pavidi, compromessi. Il nostro è fra questi. In passato l’esercito
israeliano ha aperto il fuoco sui soccorritori intenzionati a portare aiuto a persone che, solo per un
caso, non siete voi. La tutela, l’incolumità di chi naviga dipende da noi.
Dall’attenzione che ci sarà su questa missione. Dal vostro, dal nostro sguardo costante. Sparano su
un ospedale, sulle persone in fila per l’acqua, poi dicono scusate abbiamo sbagliato. Ma non
possono sparare su una flotta di barche in arrivo da tutto il mondo, cariche di pomodori e farina.
Non dovrebbero, almeno, ma dipende da noi. Da ciascuno di voi. Da quanto stiamo lì a guardare:
che arrivino incolumi.
Buon vento, Flotilla. Speriamo bene. È nelle vostre mani anche la nostra coscienza. È un carico
enorme, insieme allo zucchero e al tonno. Avete a bordo il senso dell’umanità. Buona musica,
buona fortuna. Non fatevi fermare, non fermate la speranza: noi vi seguiamo. Noi siamo qui.
Preghiera di Protezione per la Flottiglia della Pace
O Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente,
Tu che hai camminato sulle acque e placato le tempeste,
guarda con misericordia le barche che oggi solcano il mare
portando pane, speranza e amore ai tuoi figli afflitti in Palestina.
Tu che sei la Via, la Verità e la Vita,
guida il timone di questa missione con la mano invisibile del tuo Spirito.
Circonda ogni vela con gli angeli della pace,
e fa’ che nessuna forza dell’oscurità ostacoli il cammino della luce.
Proteggi, o Sovrano della Pace,
i cuori dei marinai, dei medici e dei giusti,
che hanno lasciato tutto per servire il tuo volto nascosto nei poveri.
Rendi il loro viaggio un’offerta gradita,
come incenso che sale al tuo trono celeste.
O Madre di Dio, Theotokos,
tu che hai custodito il Verbo nel tuo grembo,
custodisci questa missione nel tuo manto immacolato.
Intercedi presso tuo Figlio, affinché ogni onda sia dolce,
ogni porto sicuro, ogni incontro benedetto.
E tu, nostro padre Francesco,
che hai abbracciato il lebbroso e parlato con il Sultano,
accompagna i tuoi figli nella fraternità universale,
e fa’ che il loro servizio sia canto di lode
che unisce Oriente e Occidente sotto la Croce gloriosa.
✝️
Che la benedizione del Signore nostro Gesù Cristo,
l’amore eterno del Padre,
e la comunione vivificante dello Spirito Santo
scendano su questa missione e su tutti coloro che la sostengono,
ora e sempre, nei secoli dei secoli.
Amin
++Padre Masseo
si tratta davvero di genocidio a Gaza …
un rapporto «condanna» Tel Aviv
violata la Convenzione sul genocidio
di Riccardo Michelucci
in “Avvenire” del 31 agosto 2025
«In oltre venti mesi, Israele ha commesso atti proibiti ai sensi degli articoli della Convenzione sul
genocidio come uccisioni, gravi danni fisici o mentali, imposizione deliberata di condizioni di vita
calcolate per provocare la distruzione fisica, in tutto o in parte, dei palestinesi a Gaza, e la
prevenzione delle nascite. Atti che sono stati commessi con l’intento specifico di distruggere i
palestinesi di Gaza in quanto tali. Alla luce di tutto ciò, si conclude che la condotta di Israele nei
loro confronti costituisce genocidio».
Le conclusioni dell’ultimo rapporto del Palestinian centre for human rights, una delle più autorevoli Ong per i diritti umani diretta dal noto avvocato Raji
Sourani, suonano come una sentenza e potrebbero orientare le decisioni della Corte internazionale
di giustizia, i cui giudici saranno presto chiamati a pronunciarsi sul ricorso presentato dal Sudafrica
contro Israele per violazione della Convenzione sul genocidio.
Il rapporto, appena reso pubblico, si basa su 1.225 testimonianze raccolte in tutto il territorio della
Striscia, sui dati delle agenzie dell’Onu e delle Ong internazionali da tempo attive sul campo come
Save the children, Medici senza frontiere e World central kitchen. «Fin dall’inizio delle operazioni
israeliane seguite al 7 ottobre 2023 – si legge nell’introduzione –, l’intento di commettere il
genocidio è stato espresso non solo direttamente dagli esponenti del governo di Tel Aviv e dai
massimi vertici militari nelle loro dichiarazioni pubbliche, ma è stato reso chiaro anche dalle
politiche e dalle azioni dello Stato e i loro effetti, sia immediati che a lungo termine. Le uccisioni di
massa e gli attacchi contro i civili, la distruzione diffusa, l’inflizione di danni insopportabili e
l’annientamento dei mezzi di sussistenza hanno creato una realtà in cui la stessa sopravvivenza dei
palestinesi come gruppo nazionale è divenuta impossibile».
Il rapporto contiene un elenco interminabile di testimonianze agghiaccianti come quella di
Muhammad Adel Barbakh, il cui figlio di tredici anni è stato ucciso a sangue freddo davanti a suoi
occhi, e i tanti racconti dei medici stranieri che hanno lavorato nella Striscia, secondo i quali molte
delle amputazioni e delle ferite invalidanti, in particolare tra i bambini, sono il risultato di missili e
proiettili a frammentazione o dell’impiego di gas al fosforo bianco. Ci sono poi le donne incinte
«trasformate in bersagli con il deliberato diniego di accesso alle strutture sanitarie da parte dei
cecchini israeliani – come afferma uno degli ultimi report delle Nazioni Unite – e i bambini che
muoiono a causa della mancanza di elettricità per alimentare le incubatrici”.
Per Triestino Mariniello, giurista dell’Università di Liverpool e membro del team di avvocati
internazionali che seguono il procedimento in corso all’Aja, si tratta del rapporto più dettagliato
realizzato finora sui crimini commessi nella Striscia dall’ottobre 2023: «Non è solo un archivio di
abusi gravissimi ma un vero e proprio dossier probatorio: materiale che potrebbe rivelarsi decisivo
nei procedimenti aperti presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale.
Un documento che assume anche un valore politico e civile perché in mezzo ai bombardamenti, la
società palestinese continua a documentare e rivendicare giustizia, mantenendo la fiducia nel diritto
internazionale come strumento per fermare le atrocità».
il commento al vangelo della domenica
i primi e gli ultimi secondo Gesù
14,1.7-14
il commento di A. Spadaro al vangelo della ventiduesima domenica del tempo ordinario
È sabato. Il giorno del riposo, il giorno in cui tutto si ferma. Ma in casa di uno dei capi dei farisei, quel giorno, c’è movimento. Si tiene un pranzo. E Gesù è stato invitato. Non per amicizia, no: lo stanno osservando. L’aria è sospesa, come spesso accade nei pranzi dove le buone maniere nascondono le tensioni. Gesù entra in scena come un corpo estraneo, ma presente. E osserva anche lui.
Luca costruisce la scena con lentezza, come un quadro che si compone per gradi. Prima c’è l’ambiente: una casa importante, un pranzo di sabato, figure religiose in posizione di controllo. Poi arriva un dettaglio che spezza l’equilibrio: Gesù nota come gli invitati scelgono i primi posti. Nessuno vuole sedersi in fondo. Tutti cercano visibilità, centralità, prossimità al padrone di casa. La sala è una mappa del potere, e ogni sedia un territorio. Il pranzo è un risiko e il posto va conquistato. L’invitato si trasforma in una pedina di se stesso. Gesù, che fin qui è stato ospite silenzioso, prende la parola in modo diretto: “Quando sei invitato a nozze, non metterti al primo posto”, dice. Il consiglio è prudente, quasi da manuale di galateo. Potrebbe arrivare da un anziano esperto di convenzioni sociali. “Non si sa mai: potrebbe arrivare qualcuno più importante, e tu verresti fatto scendere, tra gli sguardi imbarazzati”, dice. “Meglio scegliere un posto in fondo. Se poi ti invitano a salire, avrai onore davanti a tutti”. Gesù sta parlando dando istruzioni per salvare la faccia? Così sembra, ma no: interroga la direzione del desiderio. Gesù, infatti, conclude con una frase netta, che ha il tono di una legge interna delle cose: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. È un ribaltamento, un meccanismo che sovverte l’ordine apparente. La scala sociale che l’uomo costruisce con cura – visibilità, potere, accesso – si inverte quando la scena è osservata da un altro punto di vista. Non più dall’alto, ma dal basso. Non più dal centro, ma dai margini.
Ma il racconto non finisce qui. Il colpo di scena arriva subito dopo. Gesù, rivolgendosi non più agli invitati ma a chi organizza il pranzo – al padrone di casa – rilancia ancora più in là: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare amici, fratelli, parenti o ricchi vicini…”. Qui Gesù aggredisce la logica stessa dell’invito, che viene capovolta. Non più quelli che possono ricambiare. Non più la rete di relazioni utili. Ma “poveri, storpi, zoppi, ciechi”. Coloro che non possono restituire nulla. Nessun vantaggio, nessuna reciprocità sociale. Soltanto ospitalità gratuita e libera.
Il gesto dell’invitare – gesto apparentemente generoso – viene messo sotto esame. Chi invitiamo, e perché? Il pranzo diventa lo specchio delle relazioni, la tavola come luogo di potere o di rottura. Gesù sta descrivendo con nitidezza le dinamiche che reggono ogni sistema umano. Dal punto di vista narrativo, il racconto è costruito su una serie di inversioni. Chi vuole salire viene fatto scendere. Chi sta in fondo viene chiamato avanti. Chi costruisce reti di potere viene invitato a tagliarle. L’intero sistema simbolico del pranzo – posto, invito, onore, restituzione – viene destabilizzato. In questa destabilizzazione, però, non c’è violenza. C’è ironia, spiazzamento. Il gesto più intimo – sedersi a tavola – diventa un campo di battaglia tra due logiche: quella della convenienza e quella della gratuità. In questo piccolo racconto, tutto si gioca in uno spazio quotidiano: una casa, un pranzo, dei posti da scegliere. Ma è lì, proprio lì, che il mondo può capovolgersi. In silenzio. Con grazia. Con precisione.












