la Palestina colonizzata e l’uso distorto della religione

 «La colonizzazione della Palestina non ha a che fare con la religione»

intervista a Munther Isaac a cura di Annaflavia Merluzzi
in “il manifesto” del 21 febbraio 2025

Il 19 febbraio si è tenuto alla Fondazione Basso di Roma un incontro con una delegazione di Kairos Palestine, movimento palestinese cristiano non-violento, nato a seguito della pubblicazione dell’Appello Kairos Palestine: A moment of truth (2009). Presenti Rifat Kassis (coautore dell’appello e coordinatore di Global Kairos for Justice), Sahar Francis (avvocata e direttrice dell’associazione Addameer, che fornisce patrocinio legale ai prigionieri politici palestinesi) e Munther Isaac (pastore e teologo, preside del Bethlehem Bible college) che abbiamo intervistato a margine della conferenza.

Lei è prima di tutto un pastore cristiano, in questi 16 mesi quanto sono aumentate le
restrizioni alla libertà di culto?

Le restrizioni sono quelle che tutti in palestinesi vivono: confisca di terre, checkpoint. Impediscono
ai cristiani di Betlemme di andare a pregare a Gerusalemme. Non dovremmo aver bisogno di un
permesso per muoverci nella nostra terra, ma almeno in passato ce lo concedevano durante le
festività. Oggi non possiamo più farlo, è una violazione della nostra libertà di culto nella nostra
stessa terra. Le maggiori violazioni ci riguardano in quanto palestinesi, prima che cristiani.
Sono state distrutte moltissime chiese e moschee, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
Le case di culto sono state colpite e distrutte specialmente a Gaza, Israele non ha nessun rispetto per
le istituzioni religiose, la santità dei luoghi – cristiani e musulmani – e la vita umana. La situazione
in Cisgiordania è diversa, lì abbiamo attacchi dai coloni, che fanno scritte d’odio, a Gerusalemme
est attaccano le chiese e le bruciano. Il problema è il governo che li supporta e non gli attribuisce
responsabilità. Se un palestinese attaccasse una sinagoga verrebbe messo in prigione per anni.

Com’è la vita oggi in Cisgiordania, a Betlemme?

Betlemme è una prigione a cielo aperto, una nuova Gaza, Israele ha bloccato e chiuso tutte le strade
che portano alla città con checkpoint, cancelli, blocchi di cemento, e controllano tutto il movimento
fuori e dentro Betlemme. I coloni attaccano i villaggi, le aree rurali, il movimento è molto difficile.
I checkpoint sono quasi sempre chiusi, chi deve passare aspetta finché i soldati decidono di aprirli,
si può aspettare una quantità indefinita di tempo. Spesso chiedono di uscire dalle macchine e
molestano, picchiano, torturano. In Cisgiordania hanno espulso forzatamente 45.000 palestinesi
dalle proprie terre. Il messaggio è che vogliono che ce ne andiamo.

Che rapporto c’è tra le comunità palestinesi cristiane e quelle musulmane, con gli altri leader
vi confrontate?

In Palestina siamo un solo popolo, cristiani e musulmani, non facciamo differenza. Israele ci
opprime allo stesso modo. Abbiamo la stessa cultura, parliamo la stessa lingua, mangiamo lo stesso
cibo, abbiamo la stessa storia. Anche la forma di resistenza è simile, la maggioranza dei palestinesi
sceglie la resistenza non violenta a prescindere dal culto.
Nel Natale 2023 in un discorso ha affermato che «il mondo non ci vede come uguali, forse per
il colore della nostra pelle, forse perché siamo nel lato sbagliato di un’equazione politica».

Com’è composta quest’equazione?

Molti cristiani occidentali preferiscono supportare Israele piuttosto che i palestinesi cristiani: è
perché non siamo bianchi? Perché non serviamo l’interesse degli Stati Uniti? Sono condiscendenti
verso di noi, credono di sapere meglio di noi quale sia la soluzione per il popolo palestinese, e
vorrebbero imporcela. Molti leader di Chiesa ci fanno lezioni sui diritti umani in quanto palestinesi
e mediorientali cristiani, sui diritti delle donne ad esempio, ma quando i palestinesi sono massacrati
stanno in silenzio. Per me l’unico modo per descriverlo è razzismo, double standard. Quando i loro
alleati violano le leggi va bene, il messaggio è che il potente può violare i diritti umani. È l’opposto
del credo cristiano, Gesù stava dalla parte di vulnerabili, oppressi, marginalizzati. Tutto ciò ha a che
fare con la «teologia dell’impero», per cui la religione viene usata per giustificare l’oppressione. La
colonizzazione della Palestina è giustificata come ritorno alla patria degli ebrei. In questo modo
hanno permesso che qualsiasi ebreo in qualsiasi parte del mondo avesse più diritto a vivere in
Palestina dei palestinesi stessi. È colonialismo, non ha a che fare con la religione.
Nel suo discorso ha detto: «Gaza oggi è la bussola morale del mondo, era un inferno prima del
7 ottobre e il mondo stava in silenzio».

Quanto è disorientato il mondo dopo 16 mesi di genocidio?

È molto peggio di quando ho pronunciato queste parole, il genocidio continua, la complicità del
mondo continua. L’umanità è in una vera crisi, i politici israeliani, che acquistano potere dalle
parole di Trump, ci pongono di fronte al rischio di pulizia etnica di 2 milioni di palestinesi. Per me
Gaza rimane la bussola morale del mondo, stanno permettendo che chi commette questi atroci
crimini sfugga alla responsabilità. Il presidente di Israele, Isaac Herzog, è ora a Roma, il messaggio
che ci arriva è che il genocidio e la pulizia etnica sono normalizzati e accettati.




uso politico sfacciato della religione

I TheoBros nello studio Ovale: l’America attua il volere di Dio

di Luca Celada
in “il manifesto” del 21 febbraio 2025

È una coalizione improbabile e per certi versi paradossale, quella allineata dietro al demagogo
Donald Trump che con la complicità di una corte suprema deviata, un partito succube e di un
elettorato che ha scelto (pur con solo il 49,7% dei voti) di rimettersi nelle sue mani – si è trovato in
un fatidico inverno del 2025, con i mezzi per decostruire la democrazia americana e l’ordine
globale.
Vi sono ovviamente sovrapposizioni fra sovranisti, la destra religiosa e i neoreazionari del tech che
hanno riportato al potere Trump. I suprematisti del neo-apartheid, i teocratici e “broligarchi” hanno
ad esempio una fede comune nella «supremazia morale» dell’occidente, che sostituisce ora la
democrazia come valore assoluto. Ed un’identità decisamente bianca che trova ad esempio
un’affinità naturale con la Russia putiniana.
Ma vi sono anche evidenti discrepanze. Fra il fondamentalismo biblico degli integralisti e le
fantasie eugenetiche e transumaniste dei tecnologi, per dirne una, e fra gli oligarchi tecnomonarchici di Silicon Valley e gli estremisti blue-collar della galassia alt-right, per fare un altro
esempio. Causa, quest’ultima, degli screzi che continuano ad affiorare fra Elon Musk e Steve
Bannon, il quale è da poco tornato ad apostrofare il miliardario sudafricano come «parassitico
immigrato illegale».
È un’anomalia anche che fazioni così fervidamente dottrinarie abbiano trovato un portabandiera in
una figura agnostica rispetto ad ogni ideologia e religione, profondamente opportunista e
squisitamente amorale. Ma il suo successo è propedeutico all’altra principale ambizione comune:
l’annientamento rivoluzionario dello stato liberale e sociale per sostituirlo con un modello radicale
di società.
Una delle figure che più riassume queste idea nella sua triplice accezione (di guerra santa, eversione
politica ed efficienza “aziendale”) è JD Vance, espressione del conservatorismo bianco e religioso
degli Ozarks dell’Ohio e successivamente “iniziato” alla broligarchia della Silicon Valley da Peter
Thiel. Convertito al cattolicesimo tradizionalista, Vance primo vicepresidente millennial veicola per
una nuova generazione una lunga tradizione fondamentalista americana giunta oggi al cuore dello
stato.
La componente religiosa ha ricoperto un ruolo specifico nella parabola nazionale e l’integralismo è
stato componente fondativa sin dall’insediamento delle sette puritane nel nuovo mondo.
Quell’impulso è stato inglobato nella mitopoietica nazionale, in constante tensione con il
razionalismo di matrice illuminista. La religione ha vissuto poi ciclici momenti di prevalenza
culturale (i Great Revivals) nella vita del paese e la deriva fanatica è stata infine strategicamente
cooptata dalla destra politica con l’alleanza di Reagan con gli evangelici. Attualmente la
componente cristo-nazionalista, reazionaria e fondamentalista, spesso apocalittica (raccolta sotto la
dicitura di New Apostolic Reformation) forma la base più solida e compatta del sostegno a Trump e
punta ad un modello “originalista”, fondamentalmente teocratico della società.
In questo ambito, una figura come Vance esprime in maniera assai più articolata di Trump, l’idea di
un’America “originale” a cui fare ritorno come ad una terra promessa. Un concetto che circola
liberamente fra predicatori cosiddetti “TheoBros”, spesso quarantenni, ben vestiti, quasi sempre con
barba ben tosata, eloquenti e attivi online ma che per fanatismo religioso discendono in linea diretta
dal retroterra evangelico carismatico e pentecostale così prevalente specie nella bible belt
americana.
Va da sé, come espresso apertamente da Vance ed altri, che l’Eden ove rifuggire sia riservato agli
Americani “autentici” (leggasi bianchi). L’America non è l’idea spuria di melting pot che ne ha
corrotto gli ideali originali ma una nazione creata dai coloni fondativi che occorre riportare ad uno
stato di purezza politica, etnica e religiosa. È un oltranzismo estremo che oggi viene espresso
apertamente da politici Maga come Mike Johnson, speaker della Camera e Pete Hesgeth, ministro
della Difesa. Le sette a cui appartengono considerano essenziale azzerare oltre allo stato laico e le
sue istituzioni più prestigiose – dal New York Times alle grandi università, coacervi di corrosivo
materialismo, per ripristinare una nazione cristiana «fondata sui dieci comandamenti». Dietro alle
barbe ben tosate che portano molti TheoBros si nasconde una concezione di patriarcato che ricorda
quello distopico del Racconto dell’ancella fino all’ipotesi di abolire il suffragio per le donne.
Si tratta di idee da sempre circolate in congregazioni fondamentaliste che oggi appartengono ai
vertici politici e che questa settimana saranno al centro del Cpac, la convention dei conservatori che
si preannuncia come celebrazione di un trionfo in cui teologia e policy si sovrappongono senza
soluzione di continuità. Ad esempio Vance ha espresso una dottrina cara ai neo teocratici anti
solidale affermando che i Cristiani debbano «amare la propria famiglia, poi il prossimo, poi la
comunità, il concittadino, la patria e solo dopo possono eventualmente pensare al resto del mondo».
Un vangelo dell’egoismo – smentita dal papa stesso – che ha trovato espressione concreta
nell’abrogazione dell’Agenzia per la cooperazione internazionale (Usaid).
Nel mondo di Trump, i TheoBros sono garanti del più intransigente fanatismo e la retorica in cui
l’americanità è indistinguibile dalla cristianità è destinata a dominare certamente anche questo
Cpac, oltre a produrre altre immagini come l’imposizione rituale delle mani sul presidente che gli
integralisti considerano alla stregua di un messia. Quelle che in era pre Trump potevano ancora
passare per colorite bizzarrie, sono ormai pericolosi presagi. Per definizione infatti la dottrina non
ammette pluralismo o alternative alla vittoria, biblica e definitiva.
E se qualcosa insegnano gli eventi di queste settimane, è come nozioni che sembravano
appannaggio di frange estreme, possano trovarsi assai rapidamente stampate su di un prossimo
decreto. E come ha reso ben chiaro proprio JD Vance, non si tratta più di un problema interno
americano – quando gli integralisti controllano lo studio del vicepresidente o il Pentagono, gli
integralismi a stelle e strisce investono il mondo intero