il ricordo di Gianni Vattimo

Gianni Vattimo e la forza debole del cristianesimo
di Francesco Tomatis

Cristianesimo ed ermeneutica, kénosis e interpretazione, libertà, amore ed emancipazione compongono la costellazione che orienta il cammino di pensiero di Gianni Vattimo, scomparso nella notte scorsa. Quando nel 1959 si laurea a Torino ‒ dove nacque il 4 gennaio 1936 da una sarta pinerolese e un poliziotto calabrese, per morire a Rivoli il 19 settembre scorso ‒ con una tesi dedicata a Il concetto di fare in Aristotele e seguito da Luigi Pareyson, il giovane filosofo ha già alle spalle una militanza in Gioventù studentesca di Azione cattolica, ispirato dal comunitarismo cattolico di Maritain e Mounier e da Bernanos, nonché l’esperienza di giornalista e conduttore televisivo nella neonata RAI di Filiberto Guala. Nel frattempo alimenta anche l’interesse per l’alpinismo, in particolare in cordata con Alberto Risso, con cui realizza diverse scalate sul Monte Bianco e le Grandes Jorasses, e per un periodo accompagna Walter Bonatti ad allenarsi a Rocca Sbarua. Passerà poi un’estate al rifugio del colle del Teodulo, alternando scalate e studio di Nietzsche, di cui diventerà fra i più autorevoli interpreti in volumi come Ipotesi su Nietzsche (1967), Il soggetto e la maschera (1974), Introduzione a Nietzsche (1985), Dialogo con Nietzsche (2000). Una bella testimonianza della passione per la vita fra ghiacci e alte cime sarà il volume Magnificat (2011).

Neolaureato, vince la prestigiosa borsa von Humboldt e per due anni (1962-1963) lavora all’Università di Heidelberg presso Hans-Georg Gadamer, pubblicando quindi queste ricerche nel libro Essere, storia, linguaggio in Heidegger (1963). Con gli studi su Heidegger, di cui sarà fra i massimi interpreti e prosecutori, e poi su Schleiermacher filosofo dell’interpretazione (1968), influenza il proprio stesso maestro Pareyson, che nel 1971 pubblica Verità e interpretazione, in parte prendendo le distanze dall’ontologia negativa heideggeriana, ma proprio in senso vattimiano, apprezzandone la concezione della verità come apertura inesauribile di senso, evento da interpretarsi personalmente. Così, si parva licet, nel 1996 Vattimo incentrerà sulla concezione cristiana di kénosis, svuotamento o abbassamento di Dio nell’incarnarsi, il proprio libro-confessione Credere di credere, dopo l’uscita nel 1994 del mio Kénosis del logos, lettura della filosofia dell’ultimo Schelling che evidenzia le kenoticità del cristianesimo e della stessa ragione umana nella sua autonomia, peraltro sulle orme dell’interpretazione pareysoniana del grande pensatore svevo.

Altre opere successive come Dopo la cristianità (2002) e Nichilismo ed emancipazione (2003) svilupperanno significativamente questo ritorno di Vattimo al cristianesimo, dopo una parentesi (almeno apparentemente) di mancanza di trattazione di esso nei suoi scritti: Le avventure della differenza (1980), Al di là del soggetto (1981), La fine della modernità (1985), La società trasparente (1989), Etica dell’interpretazione (1989). Invero Vattimo interpreta la post-modernità, soprattutto nei suoi aspetti più positivi, come frutto del cristianesimo, inteso come esso stesso secolarizzante una religiosità sacrale e vittimaria in una fede emancipatoria, interpretante, caritatevole, poiché, come chiarirà in seguito, appunto kenotica. La concezione cristiana dell’incarnazione è essa stessa secolarizzante, mostrando come un rapporto con Dio sia possibile solo interpretativamente, incarnandone storicamente e sempre in prima persona il messaggio, la parola, la verità.

Il punto di passaggio a questa ultima concezione di Vattimo è il pensiero debole, formula di grande successo benché assai ambigua e tutto sommato non emblematica della filosofia di Vattimo. Come ebbe egli stesso a precisare ‒ in particolare in Oltre l’interpretazione (1994) ‒, pensiero debole significa pensiero antifondazionalista, post-metafisico, ma non in senso relativista, cosa che comporterebbe un nuovo assolutismo, a rovescio, bensì inteso in modo ermeneutico e di un’ermeneutica che non si riduce a interpretazione di interpretazione di interpretazione, in una serialità infinita e svilente, ma espone se stessa alla medesima interpretatività proclamata, essendo storico e interpretativo anche lo stesso personale orizzonte interpretante, lasciando sempre aperta un’ulteriorità di senso, anche di possibile religiosità. Quindi, dirà Vattimo, il pensiero debole più che un pensiero relativizzato e relativizzante è un pensiero per i deboli e che pensa alla debolezza dell’essere. L’essere si dà sempre indirettamente, come storicità, evento, svuotamento, mancanza, non come piena presenza e oggettività fondante, base giustificativa perentoria di ogni pensiero omologante e azione violenta. Quindi alla kénosis o svuotamento o debolezza dell’essere corrisponde una maggiore valorizzazione dei deboli, delle singole persone nella loro debolezza, comprensibile ed emancipabile solo attraverso la caritas, l’amore conseguente a una concezione interpretativa della realtà, nonviolenta, dialogica.

Siamo alle ultime opere pubblicate dal filosofo: Addio alla verità (2009), Della realtà (2012), Essere e dintorni (2018), Scritti filosofici e politici (2021). L’attenzione per i deboli della storia e della società si evince anche dall’impegno di Vattimo, come cristiano e dichiarato omosessuale, a lungo nel Partito radicale, poi in varie formazioni politiche, che lo portano per due legislature al Parlamento europeo (1999-2004 e 2009-2014). Frutto anche di queste esperienze i volumi: Il socialismo ossia l’Europa (2004), La vita dell’altro (2006) e Ecce comu (2007). Ma quello di Vattimo è un incarnare personalmente la debolezza, aiutando in silenzio il prossimo, gli umili, i piccoli, gli ultimi, sino a svuotarsi di sé e dei propri possessi, soffrendo anche diverse perdite di familiari e compagni di cammino, come il padre a un anno di età, la sorella ancora giovane, il primo e il secondo compagno della sua vita per gravi malattie.

Sicuramente Vattimo è il filosofo italiano più noto all’estero, avendo tenuto corsi e conferenze in tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti e in America latina, oltre naturalmente che in Europa, ed essendo tradotte in più lingue quasi tutte le sue opere. Il prezioso suo archivio personale di scritti e appunti è ora conservato presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, non avendo trovato posto in quella di Torino, dove ha insegnato dal 1964 estetica e poi dal 1982 al 2008 filosofia teoretica, preside anche della facoltà di Lettere e filosofia.

Fra i maggiori esponenti dell’ermeneutica filosofica contemporanea, Vattimo ha rivendicato la vocazione ontologica dell’ermeneutica, intendendo l’essere come evento, apertura veritativa nella storia, trasmissione interpretativa. In tal modo ha salvaguardato l’ermeneutica dal relativismo storicista e prassista, evidenziando le derive assolutiste, dogmatiche, totalizzanti sia del razionalismo moderno, del giusnaturalismo, del colonialismo, sia dei loro detrattori globalisti, tecnocrati, relativisti, che omologano ogni differenza, sia fra persone diverse, sia fra finito e infinito. Rifacendosi all’autentico spirito evangelico, che intende la kénosis come incarnazione storica, ricerca personale di una verità impossedibile, eppure interpretabile nelle più umili fattezze umane, mortali, il pensiero e l’esempio di Vattimo restano una preziosa voce, tenace nella sua debolezza, a difendere ciascuna differente creatura da violenze totalitarie, imposizioni tecnocratiche, riduzionismi culturali che permeano, oggi ancora, ogni tipo di società.

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