la chiesa divisa sulla politica perché divisa sui poveri

Vaticano diviso sul governo Meloni

ecco chi è preoccupato e chi lo incoraggia

di Nico Spuntoni 

quale sarà l’accoglienza riservata dal Vaticano ad un eventuale governo Meloni? Tra gli addetti ai lavori c’è grande curiosità per ciò che avverrà sull’asse Santa Marta-Palazzo Chigi con la nascita di quello che potrebbe essere il governo più a destra della storia repubblicana

 

Un’anticipazione è arrivata ieri con le parole cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, che ieri ha presentato alla stampa la nuova organizzazione dell’organismo dopo l’entrata in vigore della Praedicate evangelium. Interrogato sulle possibili preoccupazioni della Chiesa per la nascita del nuovo esecutivo italiano, il gesuita canadese ha detto che la risposta spetta alla Chiesa italiana ma ci ha tenuto a ricordare che “quando qualcuno e’ in difficolta’ in mare esiste l’obbligo morale ed umano ad aiutare, non a rendere le cose piu’ difficili”

Il cardinale, uno degli uomini più fidati di Francesco, indossa sempre una croce di legno ricavata da una barca utilizzata da migranti sbarcati a Lampedusa e che dietro ha una targa con la parola “Suscipe”, ovvero “Ricevere”. Il suo riferimento all’accoglienza in una risposta ad una domanda sul nuovo governo italiano sembra far capire il fastidio del capo dicastero per quel blocco navale che ha dominato in questi anni la campagna di Fratelli d’Italia e che però, come ha ricordato recentemente il braccio destro di Giorgia Meloni, il senatore Giovambattista Fazzolari, sarebbe stato previsto dalla missione Sophia dell’Ue.  La frecciata dal Vaticano arriva il giorno dopo l’intervista ad Aldo Cazzullo rilasciata dall’ex presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, dai toni decisamente diversi: il porporato italiano, infatti, si è dichiarato piuttosto ottimista su un eventuale esecutivo a guida Meloni, dicendo di pensare che la leader di Fdi saprà dissipare le preoccupazioni di chi teme la presenza fiamma tricolore nel simbolo del partito più votato dagli italiani.

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una ‘chiesa in uscita’ come la vuole papa Francesco

una chiesa in uscita con la missione nel DNA

padre Ermes Ronchi, dell’Ordine dei Servi di Maria, teologo e volto noto ai telespettatori italiani, ha condiviso con noi i suoi appunti sull’identità missionaria della “Chiesa in uscita”. Una pagina da leggere con il cuore e da meditare, intrisa di poesia e ricca di citazioni bibliche.

«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade che una Chiesa malata per la chiusura» (EG 49). Fa eco e sponda a questa visione di Papa Francesco una bellissima poesia di Jacques Brel:

Conosco delle barche che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

Conosco delle barche talmente incatenate
che hanno disimparato come liberarsi.
Conosco delle barche che restano ad ondeggiare
per essere veramente sicure di non capovolgersi.

Conosco delle barche che vanno in gruppo
ad affrontare il vento forte al di là della paura.
Conosco delle barche che si graffiano un po’
sulle rotte dell’oceano ove le porta il loro gioco.

Conosco delle barche che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.
Conosco delle barche traboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.

Conosco delle barche che tornano sempre
che hanno navigato fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali giganti
perché hanno un cuore a misura di ocean

In quelle barche, che riportano una metafora antichissima della Chiesa, vediamo descritta la stessa dinamica vitale dell’uscire, salpare, navigare oltre. “Chiesa in uscita” è una espressione diventata virale, una Chiesa che si immerge invece di una che attende; che sa curare le ferite, riscaldare i cuori, piangere e accarezzare invece di rinchiudersi nelle norme.

L’uscita, la strada, la navigazione sono nel DNA della Chiesa. Chiamò a sé i dodici e li inviò dicendo: “strada facendo…”.  Gli apostoli sono gli in-viati, i messi in via. Tutta la Bibbia è attraversata da un comando: alzati, kum in aramaico. Elia, kum; Giona, kum; Mosè, kum, alzati e scendi in Egitto. Per centinaia di volte: alzati e va’. Verbo per chi era a terra, ordine per chi se ne stava chiuso: verbo della risurrezione e di una vita in uscita. Kum verbo degli inizi, di chi ama avviare percorsi, iniziare processi; di chi parte e si fida del percorso. Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio, è una forza che fa partire. Mette in cammino, e camminare è un atto di libertà e di leggerezza, scoprire se stessi mentre si scopre il mondo. Ma risalendo indietro, verso le sorgenti, verso là dove è nata la Chiesa, vediamo che la prima comunità nasce sulle strade di Galilea, non nelle aule di una scuola, non in una sinagoga, ma sui sentieri attorno al lago di Tiberiade, durante tre anni di itineranza battagliera, libera e felice.

La Chiesa è nata in uscita.

Gesù cammina, ma non da solo; con lui si muove un gruppo vivace di uomini e donne, in una intimità itinerante: proto-struttura della Chiesa. E tutta la simbolica della strada è dentro il DNA del cristiano. Da allora, da subito, la comunità è in uscita, è a suo agio sulle strade e ama gli orizzonti. Prima di essere chiamati con il nome di cristiani, i seguaci di Gesù sono detti “quelli della via”, oi tes odou in greco.

Siamo figli di una beatitudine dimenticata, proclamata dai salmi di pellegrinaggio: «beato l’uomo che ha sentieri nel cuore» (Salmo 84, 6), felice la donna che ha la strada nel cuore. È la spiritualità biblica: Mio padre era un arameo errante. Siamo tutti figli di nomadi, non stanziali ma migratori, passatori di frontiere. La Bibbia fa nascere una fede nomade, incamminata, mai installata.

Vai al largo, ha detto a Pietro…
Le barche, le piccole barche sono al sicuro, attaccate ai loro ormeggi nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Sono fatte per navigare, e anche per affrontare tempeste. Il nostro posto non è nei successi e nei risultati trionfali, ma in una barca in mare aperto, dove prima o poi durante la navigazione della vita verranno acque agitate e vento contrario. La vera formazione che Gesù trasmette ai suoi non consiste nella capacità di costruire una barca o una zattera, oppure nell’insegnare il codice nautico, ma nel trasmettere la passione del navigare, il gusto per il grande mare aperto e infinito. In Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga. (Fray Luis de Leon). Vera pedagogia, vera pastorale è la consegna amorosa e contagiosa del vangelo-orizzonte, vangelo-oceano. Il vangelo non proclama divieti, offre ali. I veri maestri dello spirito sono quelli che non mettono lacci ulteriori, ma ulteriori ali, le crescono, le accarezzano, le pettinano, le fanno forti, perché possano volare più lontano e più sicuri.

– Andate, guarite, risuscitate, purificate, scacciate, date… (Mt 10,7-15)
Gesù manda i suoi, gli in-viati, verso il mondo, affidando loro cinque opere che disegnano il volto di una Chiesa ospedale da campo. Che come in tutti gli ospedali incontra persone ferite, sangue, sporco, piaghe e anche bestemmie, ma non giudica nessuno, si prende cura di tutti. Istituisce una Chiesa in missione, una Chiesa che sia autorevole non per la dottrina, ma per la misericordia; per la quale di non negoziabile siano non i principi, ma solo l’uomo. Chiesa autorevole perché si abbassa, pulisce, lava, solleva come il samaritano buono. Il mondo non ha bisogno di giudici ma di samaritani. Scrive Papa Francesco: “Desidero una chiesa che non attende ma va incontro; sa curare le ferite e riscaldare i cuori; sa piangere e accarezzare invece di rinchiudersi nelle norme. Una Chiesa che non ha nulla da difendere, ma molto da offrire. Che non si contrappone agli altri in conflitti teorici ma si immerge nelle persone. Sognando la vita insieme (EG 74). Chiesa sognatrice.

– Il distacco di Gesù dai suoi, in Luca, è di una sobrietà incantevole.
«Gesù li condusse fuori verso Betania»: è colui che precede, che indica la via, che avanza sicuro anche quando la meta è il Calvario. Inizia su quell’altura la “Chiesa in uscita”, con un invio che chiede agli apostoli un cambio di sguardo. Devono passare da un gruppo che mette se stesso al centro, ad una Chiesa al servizio dell’uomo, della vita, della cultura, della casa comune, delle nuove generazioni. Voi siete la luce, che non illumina se stessa, ma accarezza le cose e ne fa emergere la bellezza; voi siete il sale, che non dà sapore a se stesso ma al pane dell’uomo.

– Convertite, significa coltivate e custodite i semi divini di ciascuno.
Come Gesù che in Galilea andava alla ricerca delle faglie, delle fenditure nelle persone, là dove scorrevano acque sepolte, come con la samaritana al pozzo, così la Chiesa è inviata al servizio dei germi santi che sono in ciascuno. Per ridestarli. Una Chiesa rabdomante del buono, inviata a captare e far emergere le forze più belle, per la fioritura dell’essere, per la valorizzazione del grammo di luce che è seminato in ciascuno: noi camminiamo, calpestiamo gioielli e non ce ne rendiamo conto.

– Vi precede.
Anche la pasqua è stata una ripartenza. Gli angeli dicono alle donne: non è qui, vi precede, andate in Galilea. Vi precede: è davanti, è sulla strada a prendere in faccia il vento, il sole, il grido d’aiuto e le lacrime. E anche le tempeste; è un Dio da sorprendere nelle strade, come i due di Emmaus. È un passo avanti, e avanza ancora.
Un Dio migratore, abbiamo, che ama gli spazi aperti, che apre cammini. Attraversa muri e spalanca porte. Che non ama i paletti, ma gli orizzonti.
Il regalo che ci fanno la Bibbia e i profeti di ogni tempo: noi come credenti apparteniamo ad un sistema aperto, generativo e non a un sistema chiuso, dove tutto è già definito, proclamato, bloccato. Apparteniamo ad un sistema di ricerca, naviganti e cercatori mai arresi del nome di Dio e del nome dell’Uomo.

Ermes Ronchi

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a proposito di “Dio Patria Famiglia” come valori assoluti, così A. Maggi

 

 

quei valori “sacri” smascherati da Gesù

In ogni società esistono valori sacri, principi sui quali si basano le fondamenta della collettività. Per valore sacro s’intende un ideale così im­portante da essere superiore al bene stesso dell’uomo, e per difenderlo si può arrivare a sacrificare la propria vita o a togliere quella di quanti vi si oppongono. I valori sacri, indiscutibili e non negoziabili, sui quali da sempre ci si è basati, sono Dio-Patria-Famiglia. Quel che accomuna questi tre valori è il potere: quello esercitato da Dio, attraverso l’istituzione religiosa sulle coscienze dei credenti, quello dello Stato, sulla vita delle persone e infine il potere indiscusso del capo famiglia sulla moglie e sui figli.

Poi è venuto Gesù, e ha smascherato questi valori sacri rivelandoli come ostili al disegno del Padre sull’umanità. Il Cristo, per il quale l’unico valore sacro è il bene dell’uomo, denuncerà che quel che era considerato apparentemente a favore del­l’uomo era in realtà il principale ostacolo alla realizzazione del progetto del Creatore: che ogni uomo diventi suo figlio raggiungendo la pienezza della condizione divina. Ed è proprio questo quel che allarma la società: che l’uomo raggiunga la condizione divina, diventi esso stesso Signore e, in quanto tale, pienamente libero. Infatti, ogni potere, da quello meno appariscente ma non meno mici­diale della famiglia, a quello civile e a quello sacrale vuole impedire la pienezza umana proposta da Gesù.

Per questo Gesù avvisa i suoi che faranno la stessa fine del loro maestro, condannato a morte come bestemmiatore in nome di Dio da parte dei rappresentanti della religione, ritenuto un pericoloso sovversivo da parte del potere civile e abbandonato dalla famiglia che lo riteneva un demente. I nemici o gli ostacoli alla realizzazione del progetto divino, Gesù li individua, infatti, proprio nella famiglia, dove il marito era l’indiscusso padrone della moglie e dei figli (“sarete traditi perfino dai genitori, Lc 21,16-17), nella nazione, dove chi deteneva il comando, spadroneggiava sui sudditi (“sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia…”, Mt 10,18) e nella  religione, dove il dominio veniva esercitato in nome di Dio e giungeva dove gli altri poteri si fermavano: la coscienza della persona (“vi consegneranno ai sinedri e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe…”, Mt 10,17); “viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”, Gv 16,3).

A questi falsi valori che impediscono la crescita e la maturazione dell’uomo Gesù opporrà i veri valori, quelli che, comunicando agli uomini energia divina, saranno fattore di crescita, consentendo a ogni uomo di realizzare in lui il progetto divino (Gv 1,12; Ef 1,4). Per questo, a Dio, nome comune di ogni religione, Gesù preferirà il Padre, nome specifico del messaggio cristiano, e all’obbedienza a Dio, Gesù contrapporrà l’assomiglianza al Padre:  se in nome di Dio si può togliere la vita, in nome del Padre si può solo donarla. Alla Patria, ambito delimitato da confini e barriere edificate sulle paure, sull’ignoranza e sugli egoismi, Gesù contrapporrà il Regno di Dio, spazio d’amore dove tutti sono accolti, amati e rispettati nella loro diversità. Gesù non è venuto ad innalzare muri contro gli altri popoli, ma ad abbatterli (Ef 2,14), perché l’amore del Signore si estende a tutte le nazioni. Mentre la patria sacralizza se stessa (il sacro suolo), ponendo come valore sacro quelli che in realtà sono i suoi interessi, nel Regno l’unico sacro è l’uomo. Gesù ha ampliato anche l’angusto orizzonte della fami­glia vincolata dagli obblighi familiari, e l’estende a ogni uomo, senza distinzione di popoli e razza. L’unità viene realizzata dall’accoglienza dello stesso Spirito e non dall’avere lo stesso sangue: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35).

La sequela a Gesù richiede la piena libertà dell’individuo, che deve rendersi indipendente da tutto quel che gli impedisce piena libertà di movimento, compresi quei rapporti familiari che proprio per la loro costrizione vengono chiamati “vincoli” o “legami”“Chi vuol bene al padre o la madre più di me non è degno di me; chi vuol bene al figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10,37). Gesù non viene a distruggere la famiglia, ma a liberarla da quei ricatti affettivi che impediscono ai suoi componenti di crescere, accedendo a quella pienezza di vita alla quale ogni individuo viene da Dio chiamato.

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il commento al vangelo della domenica

attenzione agli invisibili

vi si rifugia l’eterno


Attenzione agli invisibili. Vi si rifugia l'eterno
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiseiesima del tempo ordinario

In quel tempo Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco (…). Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui (…)

Storia di un ricco, di un mendicante e di un “grande abisso” scavato tra le persone. Che cosa scava fossati tra noi e ci separa? Come si scavalcano? Storia da cui emerge il principio etico e morale decisivo: prendersi cura dell’umano contro il disumano. Primo tempo: due protagonisti che si incrociano e non si parlano, uno è vestito di piaghe, l’altro di porpora; uno vive come un nababbo, in una casa lussuosa, l’altro è malato, abita la strada, disputa qualche briciola ai cani. È questo il mondo sognato da Dio per i suoi figli? Un Dio che non è mai nominato nella parabola, eppure è lì: non abita la luce ma le piaghe di un povero; non c’è posto per lui dentro il palazzo, perché Dio non è presente dove è assente il cuore. Forse il ricco è perfino un devoto e prega: “ o Dio tendi l’orecchio alla mia supplica” , mentre è sordo al lamento del povero. Lo scavalca ogni giorno come si fa con una pozzanghera. Di fermarsi, di toccarlo neppure l’idea: il povero è invisibile a chi ha perduto gli occhi del cuore. Quanti invisibili nelle nostre città, nei nostri paesi! Attenzione agli invisibili, vi si rifugia l’eterno.

Il ricco non danneggia Lazzaro, non gli fa del male. Fa qualcosa di peggio: non lo fa esistere, lo riduce a un rifiuto, a un nulla. Nel suo cuore l’ha ucciso. «Il vero nemico della fede è il narcisismo, non l’ateismo» (K. Doria). Per Narciso nessuno esiste. Invece un samaritano che era in viaggio, lo vide, fu mosso a pietà, scese da cavallo, si chinò su quell’uomo mezzo morto. Vedere, commuoversi, scendere, toccare, verbi umanissimi, i primi affinché la nostra terra sia abitata non dalla ferocia ma dalla tenerezza. Chi non accoglie l’altro, in realtà isola se stesso, è lui la prima vittima del “grande abisso” , dell’esclusione.
Secondo tempo: il povero e il ricco muoiono, e la parabola li colloca agli antipodi, come già era sulla terra. «Ti prego, padre Abramo, manda Lazzaro con una goccia d’acqua sulla punta del dito». Una gocciolina per varcare l’abisso.
Che ti costa, padre Abramo, un piccolo miracolo! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è il ritorno di un morto che convertirà qualcuno, è la vita e i viventi. Non sono i miracoli a cambiare la nostra traiettoria, non apparizioni o segni, la terra è già piena di miracoli, piena di profeti: hanno i profeti, ascoltino quelli; hanno il Vangelo, lo ascoltino! Di più ancora: la terra è piena di poveri Lazzari, li ascoltino, li guardino, li tocchino. «Il primo miracolo è accorgerci che l’altro esiste» (S. Weil). Non c’è evento soprannaturale che valga il grido dei poveri. O il loro silenzio.
La cura delle creature è la sola misura dell’eternità.
(Letture: Amos 6,1.4-7; Salmo 145; 1 Timoteo 6, 11-16; Luca 16, 19-31)

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la chiesa italiana con gli occhi aperti su fragilità povertà e debolezza

una chiesa che ha cura dei più fragili  e sofferenti

nel comunicato finale del Consiglio permanente della Cei, la crescita della corresponsabilità frutto del percorso sinodale e la difficile attualità italiana

Il cardinale Zuppi ha aperto il Congresso eucaristico a Materada Avvenire

Lo sguardo sui territori e sulle loro problematiche, in un momento storico difficile, ha accompagnato i lavori del Consiglio episcopale permanente che, sotto la guida del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei si è svolto dal 20 al 22 settembre a Matera. Qui dal pomeriggio di giovedì 22 a domenica 25 settembre è in programma il Congresso eucaristico nazionale sul tema: “Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa eucaristica e sinodale”. La riflessione del cardinale presidente sugli “inverni” che l’Italia si trova ad affrontare ha avviato un confronto franco e articolato sulle sfide attuali, che ha portato all’elaborazione dell’Appello alle donne e agli uomini del nostro Paese, dal titolo “Osare la speranza”. Alla vigilia delle elezioni, i vescovi hanno infatti sottolineato l’importanza del voto, un diritto e un dovere da esercitare con consapevolezza, per costruire il bene comune e una società più giusta, solidale e attenta agli ultimi.

Di qui l’invito a un impegno corale, rivolto agli elettori, ai giovani, a chi ha perso fiducia nelle Istituzioni e agli stessi rappresentanti che saranno eletti al Parlamento. Nella certezza che il Cammino sinodale possa rappresentare un’opportunità per far progredire processi di corresponsabilità, i vescovi si sono concentrati sul percorso che le Chiese in Italia hanno compiuto finora e che proseguirà nel secondo anno della “fase narrativa” con la proposta dei “cantieri sinodali”. Proprio in questa prospettiva si svilupperà anche il lavoro delle Commissioni episcopali, che dovrà puntare alla valorizzazione dell’apporto di esperti, del confronto con le realtà extra-ecclesiali e della sinergia con le altre Commissioni. Il Consiglio permanente ha poi rinnovato l’impegno nella tutela dei minori e delle persone vulnerabili, rilanciando le cinque linee di azione assunte dall’Assemblea generale nel maggio scorso attraverso la promozione di iniziative di sensibilizzazione nelle diocesi, tra cui la 2ª Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi (18 novembre) sul tema: “‘Il Signore risana i cuori affranti e fascia le loro ferite’ (Sal 147,3). Dal dolore alla consolazione”.

Distinte comunicazioni sono state offerte sui Tribunali ecclesiastici in materia di nullità matrimoniale, sull’avanzamento dei lavori per la stesura della Ratio nationalis per la formazione nei Seminari d’Italia. Il Consiglio permanente ha deliberato la costituzione di un Fondo di solidarietà a favore delle diocesi per contrastare l’aumento dei costi dell’energia e ha approvato la pubblicazione dei Messaggi per la 34ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei e per la 45ª Giornata per la vita. Ha provveduto infine ad alcune nomine.

Gli “inverni” dell’Italia
L’attenzione alle sfide che il Paese si trova ad affrontare, in un momento storico delicato e complesso a livello mondiale, ha caratterizzato la sessione autunnale del Consiglio episcopale permanente, che si è svolta dal 20 al 22 settembre a Matera, sotto la guida del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. I lavori si sono aperti con il ricordo delle vittime dell’alluvione che ha colpito le Marche, delle loro famiglie e di quanti soffrono a causa di questo evento drammatico. Il pensiero è andato poi a suor Maria De Coppi, missionaria comboniana di 83 anni, uccisa il 7 settembre scorso in Mozambico: «Nella sua umiltà – ha sottolineato il cardinale presidente – è una figlia grande delle nostre Chiese in Italia, che non ha rinunciato a servire l’umanità del mondo e il Vangelo nella vita di un popolo lontano. Piccola sorella universale! È segno della ricchezza dell’esistenza di una donna, di un’anziana e di una missionaria. Un’anziana può dare molto; una donna può dire molto; una missionaria è andata oltre, più avanti, di noi».

Il presidente della Cei ha quindi offerto una riflessione sui tanti “inverni” che si affacciano sull’Italia: quello “ambientale”, con “l’incertezza sulla disponibilità di gas ed energia, lo spettro del razionamento energetico, il ritorno ad una austerity di cui solo alcuni di noi hanno un lontano ricordo”; quello “sociale”, con “alti livelli di povertà assoluta che persistono nel tempo” e con “il rischio di esclusione sociale superiore alla media europea”; quello “dei divari territoriali”, come quello “ormai atavico tra Nord e Sud” e come quello “delle aree interne, sparse in tutto il Paese, il cui spopolamento e la cui progressiva emarginazione non accennano ad arrestarsi, frammentando il Paese e rendendo ancora più disuguali i cittadini e le opportunità di cui possono fruire”. Il cardinale Zuppi si è soffermato sul “pesante inverno della denatalità” e su quello “educativo” che concerne “non solo gli scarsi investimenti sull’edilizia scolastica, ma soprattutto la serpeggiante sfiducia nei confronti della ricerca e in generale della cultura, di quella competenza per interpretare i segni della storia e preparare quel nuovo umanesimo di cui non solo l’Italia ha bisogno”. Infine, ha citato “l’inverno delle comunità ecclesiali”, che “pur con belle eccezioni” sono “affaticate dalla pandemia e faticano a recuperare vitalità e vivacità”.
Secondo il cardinale presidente, è importante scorgere le fragilità, le sofferenze e le aspettative della gente che ha bisogno di essere abbracciata e sostenuta, nella prospettiva del Congresso eucaristico nazionale (Matera, 22-25 settembre) che ha per titolo: “Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa eucaristica e sinodale”. Del resto, ha osservato il cardinale Zuppi, «una Chiesa sinodale è una Chiesa che condivide il cammino degli uomini e delle donne di oggi e di questi si prende cura, sapendo fare proprie le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce, soprattutto quelle dei poveri e di tutti coloro che soffrono». Nella certezza che «nei momenti dolorosi e difficili, emerge una decisiva volontà di bene, che supera l’egoismo e la paura»: proprio «tale volontà – ha affermato – va accompagnata, confermata e rafforzata. Ci dice che l’inverno non è definitivo». Alla dimensione ecclesiale si affianca anche quella politica in quanto le sfide e le questioni emerse zriguardano la polis, le città che ci ospitano». Di qui l’auspicio di un impegno concreto da parte di tutti per il bene comune, a partire dall’esercizio consapevole del diritto e dovere di voto.

Nelle parole del cardinale che hanno avviato il confronto assembleare, non è mancato infine un riferimento all’Ucraina e alla necessità di «non abituarci alla guerra»: «C’è il rischio – ha ammonito – di un’assuefazione alle notizie, che continuamente ci arrivano dai media e che ci inducono a considerarla ineluttabile. La guerra non porta alla pace. Abbiamo bisogno di tenere alto l’interesse e la speranza per la pace».

Osare la speranza
Le preoccupazioni espresse dal Cardinale sono risuonate negli interventi dei vescovi che hanno messo in luce l’urgenza di una partecipazione attiva alla vita democratica del Paese e di un impegno, a vari livelli e da parte dei diversi soggetti sociali, per uscire dalle crisi e avviare un rinnovamento profondo. Le istanze emerse sono confluite nell’Appello alle donne e agli uomini del Paese, dal titolo “Osare la speranza”, approvato e diffuso il 21 settembre. «Impegniamoci, tutti insieme, per non cedere al pessimismo e alla rabbia», è l’invito rivolto agli elettori, ai giovani, a chi ha perso fiducia nelle Istituzioni e a quanti saranno eletti al Parlamento. «Il Cammino sinodale che le Chiese in Italia stanno vivendo – si legge ancora nel testo – può costituire davvero un’opportunità per far progredire processi di corresponsabilità. È nei luoghi di vita che abbiamo appreso l’arte del dialogo e dell’ascolto, ingredienti indispensabili per ricostruire le condizioni della partecipazione e del confronto. Riscopriamo e riproponiamo i principi della dottrina sociale della Chiesa: dignità delle persone, bene comune, solidarietà e sussidiarietà. Amiamo il nostro Paese. La Chiesa ricorderà sempre questo a tutti e continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l’interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità».

In ascolto del popolo di Dio
Il Consiglio permanente si è ampiamente confrontato sul Cammino sinodale delle Chiese in Italia all’inizio del secondo anno della fase “narrativa”, ancora di ascolto dell’intero popolo di Dio. È stata confermata la piena validità dei gruppi sinodali, come era emerso nelle relazioni diocesane redatte al termine del primo anno. Ci si è poi soffermati sulla proposta dei tre “cantieri sinodali” (della strada e del villaggio; dell’ospitalità e della casa; delle diaconie e della formazione spirituale) comuni a tutte le diocesi italiane, secondo il documento “I cantieri di Betania” e il successivo Vademecum metodologico “Continuiamo a camminare”. Il dibattito si è poi concentrato sull’organigramma che, come già stabilito nel Consiglio permanente del 24-26 gennaio 2022, prevede ora la costituzione di un Comitato nazionale del Cammino sinodale. Tale Comitato avrà il compito di studiare e promuovere iniziative volte ad animare e accompagnare il percorso, in stretta connessione con gli organi e gli organismi della Cei. Esprimendo grande riconoscenza verso il Gruppo di coordinamento che fino ad oggi ha coordinato il Cammino, i Vescovi hanno poi designato il presidente del Comitato stesso. La nomina degli altri membri, che avrà una rappresentatività ampia, verrà affidata a una sessione straordinaria del Consiglio permanente in programma il prossimo 16 novembre, alle Conferenze episcopali regionali, alle Istituzioni e agli organismi ecclesiali rappresentativi di presbiteri, consacrate/i e laici, con una presenza numerosa di componenti laici.

A sostegno delle diocesi
In questo particolare frangente storico e sempre nella prospettiva sinodale, è stata approvata la creazione di un Fondo di solidarietà a sostegno delle diocesi per contrastare l’aumento dei costi dell’energia. La somma – 10 milioni di euro – sarà assegnata alle singole diocesi secondo il metodo di ripartizione dell’8×1000 e, dunque, attraverso una quota fissa per ciascuna diocesi e una variabile in base alla popolazione. Il contributo sarà finalizzato a mettere in atto una riduzione dei consumi e a realizzare progetti di efficientamento energetico.

Per un servizio più efficace
Durante i lavori, i vescovi hanno ripreso la riflessione volta a rendere più efficaci le strutture e gli organi della Conferenza episcopale, a partire da una revisione della disciplina attuale sulle Commissioni episcopali nella prospettiva tracciata dalla Costituzione apostolica “Praedicate Evangelium” e dal Cammino sinodale. I presuli hanno convenuto sull’importanza di ripensare il ruolo delle Commissioni e di avviare la predisposizione di tutti i passaggi utili per un rinnovamento che sia funzionale alle esigenze del nostro tempo. In prima battuta, si provvederà ad una programmazione del lavoro nell’ambito dei “cantieri di Betania”, ovvero di tutte quelle proposte di ascolto e iniziative per il secondo anno del Cammino sinodale, che valorizzi l’apporto di esperti, il confronto con i mondi esterni e la sinergia con altre Commissioni.

Un impegno che continua
Resta alta l’attenzione dei Vescovi sul tema della tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Nel corso dei lavori è stato offerto un aggiornamento sull’impegno delle Chiese in Italia, riassunto nelle cinque linee di azione assunte dall’Assemblea gGenerale nel maggio scorso, circa la formazione di tutto il popolo di Dio e la prevenzione per evitare che il peccato e reato gravissimo degli abusi

accada. Nello specifico, si era deciso di potenziare la rete dei referenti diocesani e dei relativi Servizi per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, di implementare la costituzione dei Centri di ascolto, di realizzare un primo Report nazionale sulle attività di prevenzione e formazione e sui casi di abuso segnalati o denunciati alla rete dei Servizi diocesani e interdiocesani negli ultimi due anni (2020-2021), di condurre un’indagine a partire dai dati, custoditi dalla Congregazione per la Dottrina della fede, che fanno riferimento a presunti o accertati delitti perpetrati da chierici in Italia nel periodo 2000-2021, e infine di collaborare con l’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile, istituito con legge 269/1998.
Per favorire la sensibilizzazione a livello locale, anche quest’anno sarà celebrata – il 18 novembre – la 2ª Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi con lo slogan: “‘Il Signore risana i cuori affranti e fascia le loro ferite’ (Sal 147,3). Dal dolore alla consolazione”. In vista di questo importante appuntamento, sono già in preparazione diverse iniziative, tra cui incontri rivolti agli operatori giuridici presso i Servizi regionali/diocesani/interdiocesani per la tutela dei minori, le Curie diocesane, gli Istituti religiosi e i Tribunali ecclesiastici; giornate di formazione dedicate ai superiori, ai rettori e ai formatori nei seminari e nelle case di formazione degli Istituti di vita consacrata maschili e femminili.
Inoltre, il Consiglio nazionale della scuola cattolica della Cei pubblicherà a breve il testo “Linee guida per la tutela dei minori nelle scuole cattoliche”, uno strumento a servizio dei docenti e del personale che opera nelle scuole cattoliche e nella formazione professionale d’ispirazione cristiana, oltre che delle famiglie e di tutto il mondo scolastico.

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il commento al vangelo della domenica

perdonare per essere perdonati
il commento di E. Bianchi al vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario
Lc 16,1-13
 

¹Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. ²Lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare». ³L’amministratore disse tra sé: «Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: «Tu quanto devi al mio padrone?». Quello rispose: «Cento barili d’olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta». Poi disse a un altro: «Tu quanto devi?». Rispose: «Cento misure di grano». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta». Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.  Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. ¹⁰Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. ¹¹Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? ¹²E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? ¹³Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».  

Ci sono parabole di Gesù ben costruite e con un messaggio evidente, altre invece più contorte, meno lineari, il cui messaggio va cercato con cura e intelligenza. In questo capitolo 16 del vangelo secondo Luca ci troviamo di fronte a due parabole riguardanti gli atteggiamenti verso il denaro e la ricchezza, parabole proclamate una in questa domenica e una nella prossima (Lc 16,19-31).  

Certamente la parabola odierna, quella dell’economo ingiusto, disonesto, che non agisce con rettitudine, può sembrare scandalosa, per il lettore superficiale può addirittura risultare immorale, ma occorre fare attenzione e discernere il vertice teologico presente nel racconto: allora lo si capirà in fedeltà all’intenzione di Gesù. Cerchiamo dunque con umiltà di faticare, di esercitare l’intelligenza per arrivare a comprendere anche questo brano in modo evangelico, cogliendo in esso la “buona notizia”.  

Un uomo ricco ha un economo che ne gestisce gli affari, ma tutt’a un tratto quest’ultimo risulta essere un dissipatore dei suoi beni. Allora il padrone lo chiama e gli chiede: “Che cosa sento dire di te? Rendimi conto della tua amministrazione, perché non potrai più essere mio economo!”. È qualcosa che accade abbastanza spesso, perché la tentazione dell’ingiustizia, del pensare a se stessi e del non essere responsabili di una proprietà altrui è facile e ricorrente. Ma come reagire quando si viene scoperti? Qui l’economo, di fronte alla minaccia del padrone e alla prospettiva di perdere il lavoro, si mette a ragionare, a pensare al suo futuro. Egli medita tra sé: “Che cosa farò? Lavorare la terra? Non so farlo, non ne ho più la forza. Mendicare? Mi vergogno”.  

Ed ecco che nel suo dialogo interiore giunge a una soluzione: farsi amici alcuni debitori del suo padrone, per poter contare su di loro. Ma deve fare tutto prestissimo, per questo convoca subito i debitori. Al primo domanda: “Quanto devi al mio padrone?”. Quello risponde: “Cento barili d’olio”. Ed egli replica dimezzandogli il debito: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. A un altro, che deve cento sacchi di grano, l’economo ne condona venti. Ecco una vera frode, una condonare i debiti senza l’autorizzazione del padrone, una palese ingiustizia! Eppure il padrone, venuto a conoscenza dell’inganno operato ai suoi danni, si congratula con l’economo disonesto, che secondo Gesù è figlio di questo mondo delle tenebre, dunque è un figlio di Satana, colui che combatte i figli della luce che vivono nella giustizia.  

Allora perché l’elogio, le congratulazioni? Per l’azione ingiusta? No, ma per la capacità di farsi degli amici, donando e condividendo proprio quella ricchezza ingiusta. Così quell’economo ingiusto non dissipa più i beni di cui è amministratore, ma li onora, condividendoli con quanti non hanno nulla. Ecco dove sta la buona notizia, il vangelo: ciò che è urgente, l’azione buona, è distribuire il denaro di ingiustizia ai poveri, non conservarlo gelosamente per sé. Proprio queste parole di Gesù vogliono essere buona notizia per i ricchi, perché ora sanno come devono amministrare i beni non loro: distribuendoli a tutti. L’esemplarità di questo economo ingiusto non va dunque individuata nel suo agire disonesto, ma nella sua capacità di discernimento della situazione in cui si trova, di adesione alla sua realtà segnata da molti limiti e di agire conseguentemente con intelligenza.  

Attenzione, in questo racconto e nel successivo commento di Gesù compare per ben cinque volte il termine ingiustizia/ingiusto (adikía/ádikos) per definire l’economo e la ricchezza, Mammona. L’ingiustizia è dunque denunciata e condannata: non c’è altra via di giustizia se non quella di donare la ricchezza condividendola con i poveri, quelli che sono beati e ai quali è promesso il regno di Dio (cf. Lc 6,20). Il denaro resta “Mammona (da ’aman, che significa “credere”!) di ingiustizia”, definizione presente anche negli scritti di Qumran, che ne proclama l’iniquità radicale. Lo sappiamo bene: il denaro cattura la fede, incanta, seduce, dà falsa sicurezza, ruba il cuore, inganna e diventa il tesoro prezioso, l’idolo nel quale si confida (cf. Lc 12,34; 1Tm 6,17). È vero che il denaro è solo uno strumento, ma siccome chiede di avere fede-fiducia in lui, occorre vigilare per non essere da lui dominati e, al contrario, occorre donarlo, distribuirlo, condividerlo. Se infatti lo si accumula e lo si trattiene per sé, finisce per essere alienante: non è più posseduto, ma è lui a possedere chi lo ha nelle proprie mani! 

Proprio per questo nel vangelo secondo Luca c’è una grande rivelazione fatta dal demonio stesso a Gesù al momento delle tentazioni nel deserto: “A me è stata data tutta questa ricchezza” – data da Dio, potremmo dire – “e io la do a chi voglio” (cf. Lc 4,6). Sì, chi accumula ricchezze è un amministratore di Satana, lo sappia o meno; per questo nella nostra parabola l’uomo ricco che dà in gestione all’economo molti beni può essere figura del demonio. L’unico modo per sfuggire alla schiavitù satanica è distribuire, donare il denaro, i beni, condonare i debiti: il denaro accumulato è sempre sporco, per ripulirlo basta condividerlo! 

Il cristiano sa dunque che c’è un Mammona con la maiuscola, un idolo forte e seducente che può diventare un Kýrios, un Signore, rendendo servo e schiavo chi ne è amministratore. Il discepolo di Gesù – come ricorda chiaramente Gesù stesso – non può servire due padroni, ma è posto di fronte a una scelta: 

o amare e servire uno, o amare è servire l’altro;

o ripudiare uno, o ripudiare l’altro,

perché i due padroni sono antitetici, sono concorrenti nel richiedere fede-fiducia. 

Come discepoli di Gesù, possiamo guardare all’orizzonte del Regno, dove ci attende la grande comunione degli amici del Signore nella vita eterna. Ci accoglieranno con amicizia tra loro proprio i poveri, quelli che ci siamo fatti amici qui sulla terra giorno dopo giorno con la danza del dono e l’esercizio della condivisione. Non saremo soli, ma saremo una comunione di amici, se nell’amicizia ci siamo esercitati qui e ora, donando e accettando i doni. 

Ma in questa parabola e nelle parole con cui Gesù la commenta c’è solo un’esemplarità legata alla condivisione dei beni con i poveri? Non c’è forse anche un invito rivolto da Gesù ai discepoli, ai “figli della luce”, affinché siano capaci di esercitare intelligenza, creatività e audacia, come sanno fare purtroppo i “figli di questo mondo”? C’è infatti quasi un rammarico in questa constatazione di Gesù riguardante i suoi seguaci: non sanno essere phrónimoi, capaci di intelligenza, di discernimento e di vigilanza!  Soprattutto oggi, in un mondo indifferente all’annuncio di Dio, perché i cristiani non sanno far comprendere che il Vangelo è una buona notizia? Perché il discorso cristiano continua a essere così ingombrato e offuscato da tante parole e tanti rivestimenti umani e mondani? Perché non sappiamo dire che il cristianesimo è l’incontro con una persona, Gesù Cristo, il Signore vivente, senza affogare l’annuncio in moralismi colpevolizzanti che gli uomini e le donne di oggi non riescono ad accogliere come salvezza? Perché all’indifferenza dominante nella società non sappiamo opporre la “differenza cristiana”, manifestata in vite umane segnate da bontà, bellezza e beatitudine? 

Sì, ancora oggi Gesù continua rammaricarsi di come i figli di questo mondo siano più intelligenti e svegli dei figli della luce!

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contro la presunzione di non aver nulla da imparare dagli altri

papa Francesco

“basta fondamentalismi, le religioni sono la risposta alla sete di pace”

 

quattro sfide:

la pandemia, la pace e il bisogno della stessa, l’accoglienza fraterna e, infine, la custodia della casa comune ossia l’attenzione all’ambiente

Papa Francesco in Kazakistan

papa Francesco in Kazakistan

Papa Francesco, nel suo discorso in apertura della sessione plenaria al settimo Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali, a Nur-Sultan in Kazakistan, ha toccato quattro temi diversi e importanti. 

“Fino a quando continueranno a imperversare disparità e ingiustizie, non potranno cessare virus peggiori del Covid: quelli dell’odio, della violenza, del terrorismo. Sì, perché è proprio l’indigenza a permettere il dilagare di epidemie e di altri grandi mali che prosperano sui terreni del disagio e delle disuguaglianze – ha aggiunto – Il maggior fattore di rischio dei nostri tempi permane la povertà”.

Parlando ai leader religiosi il Papa ha sottolineato che “è necessaria, per tutti e per ciascuno, una purificazione dal male. Purifichiamoci, dunque, dalla presunzione di sentirci giusti e di non avere nulla da imparare dagli altri, liberiamoci da quelle concezioni riduttive e rovinose che offendono il nome di Dio attraverso rigidità, estremismi e fondamentalismi, e lo profanano mediante l’odio, il fanatismo e il terrorismo, sfigurando anche l’immagine dell’uomo”.

“Non giustifichiamo mai la violenza”, ha aggiunto. “Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra. Impegniamoci dunque, ancora di più, a promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, ma con gli unici mezzi benedetti dal Cielo e degni dell’uomo: l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni. Esse incarnano la speranza che la pace non sia il fragile risultato di affannosi negoziati, ma il frutto di un impegno educativo costante, che promuova i loro sogni disviluppo e di futuro”

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il commento al vangelo della domenica

l’amore non è giusto ma divina «follia»


L'amore non è giusto ma divina «follia»
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiquattresima domenica del tempo ordinario

In quel tempo (…) disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno (…)

Si è persa una pecora, si perde una moneta, si perde un figlio. Si direbbero quasi le sconfitte di Dio. E invece protagonisti delle parabole sono un pastore che sfida il deserto, una donna non si dà pace per la moneta che non trova, un padre tormentato, esperto in abbracci, che non si arrende e non smette di vegliare. Le tre parabole della misericordia sono il vangelo del vangelo. Noi possiamo perdere Dio, ma lui non ci perderà mai. Nessuna pagina al mondo raggiunge come questa l’essenziale del rapporto con noi stessi, con gli altri, con Dio.
Il ragazzo era partito di casa, giovane e affamato di vita, libero e ricco,
ma si ritrova povero servo a disputarsi con i porci l’amaro delle ghiande. Allora ritorna in sé, dice la parabola, chiamato da un sogno di pane (la casa di mio padre profuma di pane…) . Non torna per amore, torna per fame. Non cerca un padre, cerca un buon padrone. Non torna perché pentito, ma perché ha paura. Ma a Dio non importa il motivo per cui ci mettiamo in viaggio. È sufficiente che compiamo un primo passo nella direzione buona. L’uomo cammina, Dio corre. L’uomo si avvia, Dio è già arrivato.
Lo vide da lontano, commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciava. Al solo muovere un passo Lui mi ha già visto e si commuove. Io cammino e Lui corre. Io inizio e Lui mi attende alla fine. Io dico: non sono più tuo figlio, Lui mi tappa la bocca, perché vuole salvarmi proprio dal mio cuore di servo e restituirmi un cuore di figlio. Il Padre è stanco di avere servi per casa invece che figli. Almeno il perduto che torna gli sia figlio. Dobbiamo smetterla di amare Dio da sottomessi e tornare ad amarlo da innamorati, allora possiamo entrare nella festa del padre: perché non è la paura che libera dal male, ma un di più d’amore; non è il castigo, ma l’abbraccio.
Il Padre che tutto abbraccia è ridotto ad essere nient’altro che questo: braccia eternamente aperte, ad attenderci su ogni strada d’esilio, su ogni muretto di pozzo in Samaria, ai piedi di ogni albero di sicomoro: la casa del Padre confina con ogni nostra casa. È “giusto” il Padre in questa parabola? No, non è giusto, ma la giustizia non basta per essere uomini e tanto meno per essere Dio. La sua giustizia è riconquistare figli, non retribuire le loro azioni. L’amore non è giusto, è una divina follia.
La parabola racconta un Dio scandalosamente buono, che preferisce la felicità dei suoi figli alla loro fedeltà, che non è giusto ma di più, è esclusivamente buono.
Allora Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così esagerato? Sì, il Dio in cui crediamo è così. Immensa rivelazione per la quale Gesù darà la sua vita.
(Letture: Esodo 32,7-11.13-14; Salmo 50; 1 Timoteo 1,12-17; Luca 15, 1-32).

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lo slogan blasfemo: “Dio, Patria, Famiglia”

Enzo Bianchi :

“Dio, patria e famiglia”

ecco perché quello slogan è una bestemmia

in  La Repubblica 

Siamo in un’ora in cui difetta il pensare, il riflettere, e anche il linguaggio ne risente. Non solo si impoverisce ma si fa rozzo, barbaro e ricorre agli slogan. D’altronde lo sappiamo tutti: quando manca il pensiero si alzano i toni e si fanno risuonare parole per provocare emozioni, e questo vale ovunque, fino ai comizi di piazza.

Essendo vecchio non dimentico le scritte sbiadite sui muri rimaste dall’epoca fascista: “Credere, Obbedire, Combattere!”, “Autorità, Ordine, Giustizia!”, “Dio, Patria, Famiglia!”.

Mi pare significativo che siano tornate a risuonare oggi: “Dio, Patria, Famiglia” è uno slogan che mi turba. Perché queste tre parole messe una dopo l’altra, fatte bandiera e labaro tra gente che si pensa forte, per me risuonano non solo come sinistre, ma come una bestemmia. Parole di un tempo e di una cultura che non vorrei vivere.

Come cristiano sono convinto che la parola “Dio” è un termine eminente ma insufficiente, dietro il quale si celano emozioni che sono proiezioni umane. La maggior parte delle immagini che ci forgiamo di Dio sono perverse. Come cristiano sono convinto che solo Gesù ha raccontato e mostrato chi è Dio.

Il Dio di Gesù non ama essere proclamato, né invocato contro qualcuno, ma ama che lo si pensi il “Dio con noi”. Non ha bisogno che lo difendiamo né che lo imponiamo nella società in cui viviamo. Gli si reca offesa se lo si strumentalizza come un elemento identitario, se lo si trascina nell’agone politico.

Quanto alla Patria, per fortuna la mia generazione non ha più servito l’ideologia nazionalista, un idolo in nome del quale, nelle guerre, si sacrificavano tante vite umane. Amiamo la nostra terra, ma anche quelle degli altri, convinti che “ogni terra per il cristiano è straniera e ogni terra straniera per il cristiano è patria”, come si legge in A Diogneto, il testo di un cristiano del II secolo, quando i cristiani potevano vivere come minoranze in dialogo e in pace nella marea pagana dell’impero romano. No, per noi oggi non è più bello morire per la patria.

Quanto alla “Famiglia”, quella che poteva essere invocata non esiste più, è andata in frantumi con il paternalismo, la sottomissione delle donne, l’impossibilità per i giovani di prendere la parola. Nasciamo in una famiglia e da essa siamo accolti, e questa è una grazia grande. Ma quando dobbiamo costruire una vita cerchiamo l’amore al di fuori della famiglia.

Significa che anche la famiglia è insufficiente: non dobbiamo farne un mito o un idolo. È necessario vigilare contro il familismo che forgia una ideologia non a servizio dell’amore umano, ma dei controllori dell’ordine morale.

Ci scandalizziamo se questi slogan sono gridati oggi in Russia dal potere religioso e da quello politico, ma poi permettiamo che siano proposte come programma nella nostra stanca e vecchia, ma sempre valida, democrazia. L’idolo è sempre un falso antropologico, fonte di alienazione. “Dio, Patria, Famiglia!”: tre parole che se gridate sono una bestemmia e dovrebbero rappresentare per tutti lo spettro di una prigione.

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il commento al vangelo della domenica

l’amore per Gesù che offre la vita piena


L'amore per Gesù che offre la vita piena
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo». […]

Parole dure e severe. Alcune bruciano come chiodi di una crocifissione del cuore. Se uno non mi ama più di quanto ami padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria vita, non può… Un elenco puntiglioso di sette oggetti d’amore che compongono la geografia del cuore, la nostra mappa della felicità.
Se uno non mi ama più della propria vita… sembrano le parole di un esaltato. Ma davvero questo brano parla di sacrificare qualsiasi legame del cuore? Credo si tratti di colpi duri che spezzano la conchiglia per trovare la perla. Il punto di comparazione è attorno al verbo «amare», in una formula per me meravigliosa e creativa «amare di più». Le condizioni che Gesù pone contengono il «morso del più», il loro obiettivo non è una diminuzione ma un potenziamento, il cuore umano non è figlio di sottrazioni ma di addizioni, non è chiesto di sacrificare ma di aggiungere. Come se dicesse: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto gli affetti ti lavorino per farti uomo realizzato, donna felice, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello e vitale.
Gesù si offre come incremento, accrescimento di vita. Una vita intensa, piena, profondamente amata e mai rinnegata.
Chi non porta la propria croce… La croce non è da portare per amore della sofferenza. “Credimi, è così semplice quando si ama” (J. Twardowski): là dove metti il tuo cuore, lì troverai anche le tue ferite.
Con il suo “amare di più” Gesù non intende instaurare una competizione sentimentale o emotiva tra sé e la costellazione degli affetti del discepolo. Da una simile sfida affettiva sa bene che non uscirebbe vincitore, se non presso pochi “folli di Dio”.
Per comprendere nel giusto senso il verbo amare, occorre considerare il retroterra biblico, confrontarsi con il Dio geloso dell’Alleanza (Dt 6,15) che chiede di essere amato con tutto il cuore e l’anima e le forze (in modo radicale come Gesù).
La richiesta di amare Dio non è primariamente affettiva. Lungo tutta l’Alleanza e i Profeti significa essere fedeli, non seguire gli idoli, ascoltare, ubbidire, essere giusti nella vita.
Amare “con tutto il cuore”, la totalità del cuore non significa esclusività. Amerai Dio con tutto il cuore, non significa amerai solo lui. Con tutto il cuore amerai anche tua madre, tuo figlio, tuo marito, il tuo amico. Senza amori dimezzati. Ascolta Israele: non avrai altro dio all’infuori di me, e non già: non avrai altri amori all’infuori di me.
Gesù si offre come ottavo oggetto d’amore al nostro cuore plurale, come pienezza della polifonia dell’esistenza. E lo può fare perché Lui possiede la chiave dell’arte di amare fino in fondo, fino all’estremo del dono.
(Letture: Sapienza 9,13-18; Salmo 89; Filèmone 9b-10.12-17; Luca 14,25-33)

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