il commento al vangelo della domenica

per Cristo l ‘uomo viene prima delle sue idee


Per Cristo l 'uomo viene prima delle sue idee
il commento di E. Ronchi al vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario, anno C


Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (…)

Sulla trama dell’ultimo viaggio, un villaggio di Samaria rifiuta di accogliere Gesù. Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? Eterna tentazione di farla pagare a qualcuno, la propria sconfitta. Gesù si volta, li rimprovera e si avvia verso un altro villaggio. Nella concisione di queste poche parole appare la grande forza interiore di Gesù, che non si deprime per un fallimento, non si esalta per un successo, non ricerca né il consenso né il dissenso, ma il senso: portare vangelo. Andiamo in un altro villaggio! appena oltre, un cuore è pronto per il sogno di Dio, una casa c’è cui augurare pace, un lebbroso grida di essere guarito.
Gesù difende quei samaritani per difenderci tutti. Per lui l’uomo viene prima della sua fede, la persona conta più delle sue idee. E guai se ci fosse un attributo: ricco o fariseo, zelota o scriba; è un uomo e questo basta.
Il vangelo prosegue con una piccola catechesi sulla sequela. Il primo a venire incontro è un generoso: Ti seguirò, dovunque tu vada! Gesù deve avere gioito per lo slancio, per l’entusiasmo giovane di quest’uomo. Eppure risponde: Pensaci. Neanche un nido, neanche una tana. Ti va di posare il capo sulla strada?
Il secondo riceve un invito diretto: Seguimi! E lui: sì, ma lascia che prima seppellisca mio padre. La richiesta più legittima, dovere di figlio, sacro compito di umanità. Gesù replica con parole tra le più spiazzanti: Lascia che i morti seppelliscano i morti! Perché è possibile essere dei morti dentro, vivere una vita che non è vita. Parole dure, cui però segue l’invito: tu vuoi vivere davvero? Allora vieni con me! Il Vangelo è sempre una addizione di bellezza, un incremento di umanità, promessa di vita piena.
Terzo dialogo: ti seguirò, Signore, ma prima lascia che vada a salutare quelli di casa. Ancora un “ma”, così umano che anche i profeti (Eliseo) l’hanno fatto proprio.
E Gesù: chi pone mano all’aratro e poi si volge indietro, non è adatto al Regno. Hai davanti i campi della vita, non voltarti indietro: sulle sconfitte di ieri, sugli obiettivi mancati, sui cocci rimasti, sul male subito o compiuto, neppure con la scusa di fare penitenza, perché saresti sempre lì a mettere al centro te stesso:
«non consultarti con le tue paure ma con le tue speranze e i tuoi sogni. Non pensate alle vostre frustrazioni ma al potenziale non realizzato ancora.
Non preoccupatevi per ciò che avete provato e fallito ma di ciò che vi è ancora possibile fare” (Giovanni XXIII).
Uomo d’aratro è ogni discepolo. Sarà un solco forse poco profondo, il mio; forse un solco poco diritto, ma il mio ci sarà. Il mio piccolo solco non mancherà. Poi passerà il Signore a seminare di vita i campi della vita.

(Letture: 1 Re 19, 16.19-21; Salmo 15; Galati 5, 1.13-18; Luca 9, 51-62).

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papa Francesco non è ‘putiniano’

le scandalose parole del papa

di Domenico Quirico
in “La Stampa” del 15 giugno 2022

chi critica il Papa vorrebbe una chiesa che si accoda, che invia aiuti umanitari e prediche. Francesco pronuncia parole di una tale immensità… Frusta la Russia e la sua guerra «imperiale e crudele» e cita i mercenari con cui la conduce, ceceni e siriani. Ma poi impavido sfida anche la nostra verità di Occidente, il nostro sentirci sempre automaticamente dalla parte della ragione

E adesso? Adesso che il Papa dà scandalo? Le sue parole, con il travaglio dei giorni e dei mesi che passano senza pace, sulle colpe, le omissioni, i silenzi sulla guerra scottano e infiammano. E urtano.
Che cosa faranno gli intellettuali immaginari, i politici, quelli che sanno tutto fin dal primo giorno e che pensano che la soluzione alla guerra scatenata dall’aggressione criminale di Putin sia solo la guerra? Metteranno in fila, a loro volta, le parole e diranno: incredibile, il Papa è diventato putiniano! ma cosa conta in fondo quello che dice? È il suo mestiere quello di essere fuori dalla Storia, di pronunciare innocue e paradossali parabole…
I maestri del sospetto, i cacciatori di quinte colonne ed infiltrati, per cui ogni distinguo e ragionamento (che è «il ridurre la complessità alla distinzione tra buoni e cattivi senza ragionare su radici e interessi che sono molto complessi…» come ha detto Francesco parlando ai direttori delle riviste culturali della Compagnia di Gesù) è automaticamente tradimento, diserzione, delitto, non lo attaccheranno frontalmente. Forse faranno come quando Francesco fece riferimento «all’abbaiare della Nato alle porte della Russia…» e lo striminzirono nel silenzio. Francesco procede imperterrito per la strada dei suoi ritmi: vita morte guerrieri vittime deportati e profughi. Dolore si chiama il mistero verso cui ci chiede di camminare. Dall’inizio della guerra la sola cosa che ha un significato per lui è il dolore di una terra coperta di sangue. E per questo rende omaggio agli ucraini «un popolo coraggioso che sta lottando per sopravvivere e che ha una storia di lotta». Se tutti gli uomini avessero operato per il bene e solo per il bene non ci sarebbe la guerra, neppure questa guerra. Ma questa verità al Papa impone la domanda: se questo male sono gli atti degli uomini o il non fare degli uomini di chi sono le colpe, tutte le colpe? Pronuncia parole di una tale immensità che, a ripensarle una ad una, paiono osatissime. Frusta la Russia e la sua guerra «imperiale e crudele» e cita i mercenari con cui la conduce, ceceni e siriani. Ma poi impavido sfida anche la nostra verità di Occidente, il nostro sentirci sempre automaticamente dalla parte della ragione.
Un errore che ci è costato guerre perdute, vittime tradite e abbandonate al loro destino, isolamento  all’Iraq all’Afghanistan. Il 24 di febbraio è l’inizio di tutto e Putin ha imposto con la violenza questo inizio su cui dobbiamo come democrazie, obbligatoriamente, fare la nostra scelta: aiutare l’Ucraina e fermare l’autocrate. Il Papa lo conferma, non ci chiede certo di restare vuoti e inerti. Ma aggiunge: ci può bastare? Non rischiamo di «vedere solo una parte e non l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra che in qualche modo è stata provocata o non impedita»? Non è una domanda teologica o apocalittica, è una domanda politica. E forse è proprio questo lo scandalo.
Chi critica il Papa vorrebbe una chiesa che non dà scandalo, che si accoda, che fa la crocerossina della Storia, che invia aiuti umanitari e distribuisce prediche. Le si ingiunge di essere giudiziosamente savia e non più di portare la distruzione e il sovvertimento di una verità folle, di ripetere stancamente che tutto quelle che si può fare è attendere che la grande quaresima del dispotismo, per miracolo, alla fine arrivi. La tollerante rassegnazione che rende la vita più sopportabile è il porto dove approdano, purtroppo, tutti i fallimenti anche quelli della fede. Il Papa deve imporci semmai lo Scandalo di mettere insieme nella processione russi e ucraini, di non mettere segni sulle bandiere della Nato, di incontrare chissà! gli aggrediti di Kiev e Kirill, «il chierichetto di Putin».
Le scandalose parole del Papa sono una riflessione sulla natura della guerra, di questa guerra. La si può fare per odio, per desiderio di preda, per rovesciare un avversario che diventa pericoloso, per pazzia e sadismo, per amore del potere, per mestiere. Si può fare la guerra per obbedienza, perché sei stato aggredito e non hai altra possibilità o per un progetto di unificazione e di gloria o per il desiderio di vendicare una ingiustizia. O come dice il Papa per «l’interesse di testare e vendere armi… e alla fine è proprio questo a essere in gioco». Tutte queste ragioni, prima o dopo, vi sono mescolate, si confondono e talora si corrompono reciprocamente Il Papa ci impone di ricordare che la guerra giusta non esiste, è un mito insipido che non dobbiamo condividere con le bugie dei prepotenti. E che alla fine, rende tutto, anche il dolore, insignificante.

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il commento al vangelo della domenica

condividere il pane significa moltiplicare il pane

   il commento di E, Bianchi al vangelo della domenica del Corpus Domini, anno C
Lc 9,11b-17
 

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:  ¹²In quel tempo Gesù ¹¹accolse le folle e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. ¹²Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». ¹³Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». ¹⁴C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». ¹⁵Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. ¹⁶Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. ¹⁷Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Dopo la festa della Triunità di Dio, celebriamo oggi un’altra festa “dogmatica”, sorta a difesa della dottrina, per ricordare la verità dell’eucaristia voluta da Gesù come memoriale nella vita della chiesa fino alla sua venuta gloriosa. Ogni domenica celebriamo l’eucaristia, ma la chiesa ci chiede anche di confessare e adorare questo mistero inesauribile in un giorno particolare (il giovedì della II settimana dopo Pentecoste per la chiesa universale, la II domenica dopo Pentecoste in Italia). Facciamo dunque obbedienza e commentiamo mediante un’esegesi liturgica il brano evangelico proposto dal Messale italiano. 

Il cosiddetto racconto della “moltiplicazione dei pani” è attestato per ben sei volte nei vangeli (due in Marco e in Matteo, una in Luca e in Giovanni), il che ci dice come quell’evento fosse ritenuto di particolare importanza nella vita di Gesù. Nel vangelo secondo Luca, Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la venuta del regno di Dio e a guarire i malati (cf. Lc 9,2), mostrando che la missione affidatagli da Dio con la discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,21-22), rivelata nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18-19), era da lui estesa anche alla sua comunità. Compiuta questa missione, i discepoli fanno ritorno da Gesù e gli raccontano la loro esperienza, quanto cioè avevano fatto e detto in obbedienza al suo comando. 

Gesù allora li prende con sé, portandoli in disparte per un ritiro, in un luogo vicino alla città di Betsaida (cf. Lc 9,10). Ma le folle, saputo dove Gesù si era ritirato, lo seguono ostinatamente (cf. Lc 9,11a). Ed ecco che Gesù le accoglie: aveva cercato un luogo di silenzio, solitudine e riposo per i discepoli tornati dalla missione e per sé, ma di fronte a quella gente che lo cerca, che viene a lui e lo segue, Gesù con grande capacità di misericordia la accoglie. È lo stile di Gesù, stile ospitale, stile che non allontana né dichiara estraneo nessuno. 

Queste persone vogliono ascoltarlo, sentono che egli può dare loro fiducia e liberarle, guarirle dai loro mali e dai pesi che gravano sulle loro vite, e Gesù senza risparmiarsi annuncia loro il regno di Dio, le cura e le guarisce. Questa è la sua vita, la vita di un servo di Dio, di un annunciatore di una parola affidatagli da Dio. 

Giunge però la sera, il sole tramonta, la luce declina, e i Dodici discepoli entrano in ansia. Dicono dunque a Gesù: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta!”. La loro richiesta è all’insegna della saggezza umana, nasce da uno sguardo realistico, eppure Gesù non approva quella possibilità razionale, ma chiede loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Con questo comando li esorta a entrare nella dinamica della fede, che è avere fiducia, mettere in movimento quella fiducia che è presente in ogni cuore e che Gesù sa ravvivare. Ma i discepoli non comprendono e insistono nel porre di fronte a Gesù la loro povertà: hanno solo cinque pani e due pesci, un cibo sufficiente solo per loro! 

Ecco allora che Gesù prende l’iniziativa: ordina di far sedere tutta quella gente ad aiuola, a gruppi di cinquanta, perché non si tratta solo di sfamarsi, ma di vivere un banchetto, una vera e propria cena, nell’ora in cui il sole tramonta. Poi davanti a tutti prende i pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, come azione di preghiera al Padre, benedice Dio e spezza i pani, presentandoli ai discepoli perché li servano, come a tavola, a quella gente. È un banchetto, il cibo è abbondante e viene condiviso da tutti. Quelli che conoscevano la profezia di Israele, si accorgono che è accaduto un prodigio che già il profeta Eliseo aveva fatto in tempo di carestia, nutrendo il popolo affamato a partire dalla condivisione di pochi pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44). Lo stesso compie Gesù, e dopo il suo gesto avanza una quantità di cibo ancora maggiore: dodici ceste. Nel cuore dei discepoli e di alcuni dei presenti sorge così la convinzione che Gesù è profeta ben più di Elia e di Eliseo, è profeta anche più di Mosè, che nel deserto aveva dato da mangiare manna al popolo uscito dall’Egitto (cf. Es 16). 

Ma qui viene spontaneo chiedersi: cosa significa questo evento? Normalmente si parla di “moltiplicazione” dei pani, ma nel racconto non c’è questo termine. Dunque? Dovremmo dire che c’è stata condivisione del pane, c’è stato lo spezzare il pane, e questo gesto è fonte di cibo abbondante per tutti. In tal modo comprendiamo come ci sia qui una prefigurazione di ciò che Gesù farà a Gerusalemme la sera dell’ultima cena: “Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me’” (Lc 22,19). Lo stesso gesto è ripetuto da Gesù risorto sulla strada verso Emmaus, di fronte ai due discepoli. Anche in quel caso, al declinare del giorno, invitato dai due a restare con loro (cf. Lc 24,29), “quando fu a tavola, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,30). Tre episodi che recano lo stesso messaggio: le folle, la gente, il mondo ha fame del regno di Dio, e Gesù, che ne è il messaggero e lo incarna, sazia questa fame con la condivisione del cibo, con lo spezzare il suo corpo, la sua vita, offerta a tutti. 

Ecco il mistero eucaristico nella sua essenza: non lasciamoci abbagliare da tante e varie dottrine eucaristiche, ma accogliamo il mistero nella sua semplicità. Cristo si dà a noi ed è cibo abbondante per tutti; una volta spezzato (sulla croce), si dà alla chiesa, a noi, a tutti coloro che lo cercano e tentano di seguirlo, a tutti quelli che hanno fame e sete della sua parola e desiderano condividere la sua vita. Se è vero che la dinamica dello spezzare il pane e del condividerlo trova nella celebrazione della cena eucaristica, nella liturgia santissima, un adempimento, essa però è anche paradigma di condivisione del nostro cibo materiale, il pane di ogni giorno. L’eucaristia non è solo banchetto del cielo, tavola del corpo e del sangue del Signore, ma vuole essere magistero per le nostre tavole quotidiane, dove il cibo è abbondante ma non è condiviso con quanti hanno fame e ne sono privi. Per questo, se alla nostra eucaristia non partecipano i poveri, se non c’è condivisione del cibo con chi non ne ha, allora anche la celebrazione eucaristica è vuota, perché le manca l’essenziale. Non è più la cena del Signore, bensì una scena rituale che soddisfa le anime dei devoti, ma in profondità è una grave menomazione del segno voluto da Gesù per la sua chiesa! La tavola del corpo del Signore sempre dev’essere tavola della parola del Signore e, insieme, tavola della condivisione con i bisognosi. 

Con la condivisone dei pani e dei pesci insieme alle folle Gesù inaugura un nuovo spazio relazionale tra gli umani: quello della comunione nella differenza, perché le differenze non sono abolite ma affermate senza che, d’altra parte, ne patisca la relazione segnata da fraternità, solidarietà, condivisione. Sì, dobbiamo confessarlo: nella chiesa si è persa quest’intelligenza eucaristica propria dei primi cristiani e dei padri della chiesa, vi è stato un divorzio tra la messa come rito e la condivisione del pane con i poveri! E se nel mondo esiste la fame, se i poveri sono accanto a noi e l’eucaristia non ha per loro conseguenze concrete, allora la nostra eucaristia appare solo scena religiosa e – come direbbe Paolo – “il nostro non è più un mangiare la cena del Signore” (cf. 1Cor 11,20). 

Proprio davanti all’eucaristia cantiamo l’inno che afferma: “Et antiquum documentum novo cedat ritui” (“l’antico rito ceda il posto alla nuova liturgia”), ma in realtà restiamo ingabbiati nei riti e non riusciamo a celebrare il “rito cristiano”, “il culto secondo la Parola” (loghikè latreía: Rm 12,1), che è offerta in sacrificio dei nostri corpi a Dio attraverso il servizio dei poveri e l’amore fraterno vissuto “fino all’estremo” (Gv 13,1).

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il commento al vangelo della domenica

Dio è sempre comunione

il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica della Santissima Trinità, anno C
Gv 16,12-15
 

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:  ¹²Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. ¹³Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. ¹⁴Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. ¹⁵Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.

 

Attraverso le parole di Gesù l’evangelista Giovanni ci accompagna a intravedere il nostro Dio come Padre, Figlio e Spirito santo: un Dio che è intimamente comunione plurale, un Dio che è comunione d’amore, un Dio che nel Figlio si è unito alla nostra umanità e attraverso lo Spirito santo è costantemente creatore di questa comunione di vita.  

È la festa cosiddetta della Trinità, fissata dalla chiesa la prima domenica dopo la Pentecoste: non è memoriale di un evento della vita di Cristo, ma piuttosto una confessione e una celebrazione dogmatica dovuta ai concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). In verità nella Bibbia non si trova mai la parola Trinità, formula dogmatica, ma vi è piuttosto la rivelazione di Dio come Padre, della Parola fatta carne, Gesù il Figlio di Dio, e dello Spirito santo di Dio, la forza attraverso la quale il Padre e il Figlio operano nella storia. Soltanto noi cattolici, a differenza degli altri cristiani, in obbedienza all’intenzione della chiesa celebriamo questa festa ascoltando i testi biblici nei quali troviamo la parola di Dio, che ci rivela il grande mistero della Tri-unità di Dio.  

Il brano evangelico è tratto dai “discorsi di addio” di Gesù, già più volte incontrati nel tempo di Pasqua, quelli da lui rivolti ai discepoli prima della sua gloriosa passione. Chi parla è il Gesù glorioso del quarto vangelo, Signore del mondo e della chiesa nel suo oggi; parla qui e ora alla chiesa, spiegandole che egli, ormai risorto, è vivente presso Dio e in Dio quale Dio. Ha già promesso di non lasciare orfani quanti credono in lui (cf. Gv 14,18) e perciò di mandare loro lo Spirito Paraclito, avvocato difensore (cf. Gv 14,15-17.26; 15,26-27; 16,7-11); ha invitato i credenti ad avere fede in lui e li ha messi in guardia rispetto al mondo nel quale ancora essi vivono, preannunciando loro ostilità e persecuzione (cf. Gv 14,27; 16,1-4.33), ma dichiarando anche che il Principe di questo mondo è stato da lui vinto per sempre (cf. Gv 12,31; 14,30; 16,11).  Gesù, che ha insegnato per anni ai suoi discepoli e che nel quarto vangelo si attarda a lasciare loro le sue ultime volontà, a un certo punto deve confessare: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (letteralmente: “portarle”). Anche Gesù ha fatto l’esperienza del desiderio di comunicare molte cose ma di rendersi conto che l’altro, gli altri non sono in grado di condividerle, di comprenderle, di portarle dentro di sé. In ogni relazione – lo sperimentiamo quotidianamente – l’assiduità provoca una crescita di conoscenza, l’ascolto e le parole scambiate permettono una maggior comunicazione con l’altro, ma a volte ci si trova di fronte a dei limiti che non si possono oltrepassare. L’altro non può comprendere, non può accogliere ciò che si dice, e addirittura comunicargli delle verità può diventare imprudente, a volte non opportuno. Si manifesta il limite, una barriera che può anche far soffrire ma che va accettata. Anzi, occorre non solo sottomettersi a essa, ma addirittura arrivare alla resa: non si può né si deve comunicare di più…  

Non c’era difficoltà a esprimersi da parte di Gesù, bensì incapacità di ricezione da parte dei discepoli. Gesù però getta lo sguardo sul tempo dopo di sé, con fede-fiducia e con speranza: “Oggi non capite, ma domani capirete”. Perché? Perché egli sa che la vita e la storia sono anch’esse rivelatrici; che vivendo si arriva a capire ciò che abbiamo semplicemente ascoltato; che è con quelli con cui camminiamo che si comprendono più profondamente le parole affidateci. Si potrebbe dire – parafrasando un celebre detto di Gregorio Magno – che “la parola cresce con chi la ascolta”, con chi la scambia con altri, con chi la medita insieme ad altri, con chi sa ascoltare la vita, gli eventi, la storia. Il cammino della conoscenza non è mai finito, l’itinerario verso la verità non ha un termine qui sulla terra, perché solo nell’al di là della morte, nel faccia a faccia con Dio, conosceremo pienamente (cf. 1Cor 13,12).  

Questa verità dà alla fede cristiana uno statuto che non sempre teniamo presente. Dovremmo cioè prestare più attenzione alle vicende di Gesù e dei suoi discepoli, leggendole non solo come fatti del passato ma anche come tracce sulle quali camminiamo ancora oggi. La nostra fede non è statica, non ci è data una volta per tutte come un tesoro da conservare gelosamente, ma è come un dono che cresce nelle nostre mani. Dicendo queste parole, Gesù certamente intravedeva anche tra i suoi discepoli il pericolo del voler conservare ciò che avevano conosciuto come uno scrigno chiuso, come un museo, invece di permettere alle sue parole di percorrere le strade del mondo e i secoli della storia crescendo, arricchendosi nell’incontro con altre parole, storie, culture. Sì, la verità che ci è stata consegnata progredisce in approfondimento e in estensione, e per molti aspetti la chiesa di oggi, come quella di ieri, conosce ciò che è essenziale alla salvezza; ma la chiesa di oggi conosce di più e comprende il Vangelo stesso in modo più approfondito. Non è il Vangelo che cambia ma siamo noi oggi a comprenderlo meglio di ieri – come diceva papa Giovanni –, meglio anche dei padri della chiesa. 

Ma questa crescita della comprensione non avviene per energie che sono in noi, non è un’avventura dello spirito umano, ma è un cammino “guidato” dal dono del Risorto, lo Spirito santo: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità”. Abbiamo una guida nel tempo in cui Gesù non è più tra di noi allo stesso modo in cui camminava accanto ai suoi sulle strade della Palestina. Siamo sulle strade del mondo, tra le genti, in mezzo ai pagani, come “viandanti e pellegrini” (cf. Eb 11,13, 1Pt 2,11): non siamo soli, orfani, senza orientamento. Ecco il dono di Gesù risorto, lo Spirito santo, “suo compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea), che ora è divenuto il nostro compagno inseparabile. Lo Spirito è luce, è forza, è consolazione, e ci guida: dolce luce quando è notte, brezza che rinfresca nella calura, forza che sostiene nella debolezza. Noi cercatori della verità mai posseduta percorriamo il nostro cammino, ma lo Spirito santo ci dà la possibilità di andare oltre la conoscenza della verità acquisita, attraverso inizi senza fine. E sia chiaro che questa comprensione non sta all’interno di una dimensione intellettuale, gnostica, ma è conoscenza esperita da tutta la nostra persona; e la verità che cerchiamo e inseguiamo non è una dottrina, non sono formule o idee, ma è una persona, è Gesù Cristo che ha detto: “Io sono la verità” (Gv 14,6). 

Lo Spirito santo però non è una forza, un vento che viene da dove vuole e va dove vuole, ma è lo Spirito di Cristo, mai dissociato da Gesù. Quando lo Spirito è presente e ci parla di Gesù, è come se ci parlasse Gesù stesso, e in questo modo ci parla di Dio, perché dopo la resurrezione non si può più parlare di Dio senza guardare e conoscere Gesù suo Figlio che lo ha raccontato (cf. Gv 1,18) con parole d’uomo e con la sua vita umanissima. Le parole di Gesù sullo Spirito santo, dunque, in realtà ci indicano il Padre, Dio, perché il Padre e il Figlio hanno tutto in comune: il Figlio è la Parola emessa dal Padre e lo Spirito è il Soffio di Dio che consente di emettere la Parola. È in questo modo che Giovanni, attraverso le parole di Gesù, ci accompagna a intravedere il nostro Dio come Padre, Figlio e Spirito santo: un Dio che è intimamente comunione plurale, un Dio che è comunione d’amore, un Dio che nel Figlio si è unito alla nostra umanità e attraverso lo Spirito santo è costantemente creatore di questa comunione di vita. 

Nel leggere o ridire questa pagina evangelica, stiamo però attenti a non trasformarla in un trattato di dottrina, in una sorta di enigma, in una formula matematica sconosciuta… Se questa è una verità, verifichiamola annunciandola ai “piccoli”, a quanti sono privi di strumenti intellettuali, ai poveri. Solo se essi, ascoltandola dalle nostre labbra, la capiscono, ciò significa che qualcosa abbiamo capito anche noi; altrimenti siamo nell’inganno di aristocratici gnostici che credono di vedere e invece sono ciechi (cf. Gv 9,40-41), credono di conoscere e invece restano ignoranti, credono di confessare la fede e invece sono legati alla dottrina. Il Vangelo è semplice, è per i piccoli, è una realtà nascosta agli intellettuali e agli eruditi (cf. Mt 11,25; Lc 10,21): non rendiamolo difficile o addirittura enigmatico, degno di stare su una stele di pietra e incapace di entrare nel cuore di ogni persona. Imprimendo su di noi il segno della croce, diciamo il nostro desiderio e impegno di credere con la mente, con il cuore e con le braccia, cioè con quanto operiamo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.

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papa Francesco e la forte tirata d’orecchi a Minniti e ai vescovi toscani

il papa fa “sorridere” don Milani non Minniti, Nardella e i vescovi

Le durissime parole del pontefice trapelate in questi giorni hanno lasciato sconcertati coloro che sono abituati a guardare al Vaticano come una potenza terrena, con la sua diplomazia e la sua politica. Ma è evidente che quella diplomazia e quella politica con Francesco sono cambiate: perché sono ispirate al Vangelo non solo nei contenuti, ma anche nelle forme. A cominciare, appunto, dalla parresia: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Matteo 5, 37).

Che questo tratto così rivoluzionario, in un pontefice, sia emerso proprio in un’occasione legata a Firenze è straordinariamente suggestivo. Francesco è stato il primo papa a recarsi a Barbiana, sulla tomba del fiorentino don Lorenzo Milani, che della parresia, della franchezza del parlare cristiano, è stato il profeta più luminoso del Novecento. Milani ha pagato un prezzo altissimo per la sua fedeltà al parlare solo con l’evangelico “sì, sì; no, no”: nonostante la sua struggente fedeltà alla Chiesa, i predecessori di Betori lo hanno punito con l’esilio; ed egli fu anche processato in tribunale per aver osato difendere l’obiezione di coscienza contro l’amore per la guerra dei cappellani militari. La chiesa fiorentina, del resto, è stata ricolmata del dono della parresia: da Giorgio La Pira (sindaco santo che requisiva le case sfitte per dare un tetto ai poveri) a padre Balducci, da padre Turoldo a don Bruno Borghi, dalla Comunità dell’Isolotto a quella delle Piagge con don Santoro, all’abate di San Miniato Bernardo Gianni, che ha firmato l’appello contro Minniti. Tutte figure più o meno esplicitamente condannate e isolate dai vescovi di Firenze: tutte figure che oggi le parole di papa Francesco risarciscono.

In un’Italia sempre più lontana dalla franchezza della sua Costituzione (una “polemica contro lo stato delle cose”, la definiva Piero Calamandrei), la franchezza del papa, così vicina a quella di Gesù nel Vangelo, è un raggio di sole che squarcia le tenebre. E don Milani, che sui banchi di Barbiana teneva Costituzione e Vangelo, da qualche parte del paradiso oggi sorride.

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il commento al vangelo della domenica

il vento dello Spirito che porta la libertà


Il vento dello Spirito che porta la libertà
il commento di E- Ronchi al vangelo della domenica di Pentecoste – Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato». […]

Lo Spirito Santo, il misterioso cuore del mondo, il vento sugli abissi, l’Amore in ogni amore, è Dio in libertà, un vento che porta pollini dove vuole primavere, che non lascia dormire la polvere, che si abbatte su ogni vecchia Gerusalemme. Dio in libertà, che non sopporta statistiche, che nella vita e nella Bibbia non segue mai degli schemi. Libero e liberante come lo è il vento, la cosa più libera che ci sia, che alle volte è una brezza leggera, alle volte un uragano che scuote la casa; che è voce di silenzio sottile, ma anche fuoco ardente chiuso dentro le ossa del profeta (Ger 20,9). Pentecoste è una festa rivoluzionaria di cui non abbiamo ancora colto appieno la portata. Lo Spirito «vi insegnerà ogni cosa»: lui ama insegnare, accompagnare oltre, far scoprire paesaggi inesplorati, portare i credenti a vivere in «modalità esplorativa», non come esecutori di ordini, ma come inventori si strade. Lo Spirito è creatore e vuole discepoli geniali e creatori, a sua immagine. Vento che non tace mai, per cui ogni credente ne è avvolto e intriso, così che ognuno ha tanto Spirito Santo quanto ne hanno i pastori. Infatti «il popolo di Dio, per costante azione dello Spirito, evangelizza continuamente se stesso» (Evangelii Gaudium 139). Parole come un vento che apre varchi, porta sentori di nuove primavere.
Il popolo di Dio evangelizza se stesso, continuamente. Una visione di potente fiducia, in cui ogni uomo e ogni donna hanno dignità di profeti e di pastori, ognuno un proprio momento di Dio, ognuno una sillaba del Verbo, tutti evangelisti di un proprio «quinto evangelio», sotto l’ispirazione dello Spirito. Verrà lo Spirito, vi riporterà al cuore tutto di Gesù, di quando passava e guariva la vita, e diceva parole di cui non si vedeva il fondo. Ma non basta, lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera: apre uno spazio di conquiste e di scoperte; vi insegnerà nuove sillabe divine e parole mai dette ancora. Sarà la memoria accesa di ciò che è accaduto «in quei giorni irripetibili» e insieme sarà la genialità, per risposte libere e inedite, per oggi e per domani.
Lévati o remoto Spirito/ candida già freme/ alta/ la vela (Davide M. Montagna). Una vela e il mare cambia, non è più un vuoto in cui perdersi o affondare. Basta che sorga una vela, alta a catturare il soffio dello Spirito, per iniziare una avventura verso nuovi mari, verso isole intatte, dimenticando il vuoto. E da là dove ti eri fermato, lo Spirito libero e liberante di Dio ti farà ripartire, mentre continua a compiere nella Chiesa la stessa opera che ha compiuto con Marco, Luca, Matteo, Giovanni: continua a far nascere evangelisti. E a farli navigare nel suo Vento.
(Letture: Atti 2,1-11; Salmo 103; Lettera ai Romani 8,8-17; Giovanni 14,15-16.23b-26)

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