“con il cuore siamo col papa ma col cervello…”

il papa fa il papa ma …
di Tonio Dell’Olio

in “www.mosaicodipace.it” del 29 marzo 2022

In questi giorni, molti dei politici intervistati sulle posizioni espresse dal Papa circa il nuovo programma riarmista, rispondono con un mantra che dice: “Il papa deve dire quelle cose, è un po’ il suo lavoro, ma poi tocca a noi fare le scelte concrete”. L’altra versione ascoltata è: “Con il cuore siamo col Papa ma col cervello…”. La replica scontata è che l’organo realmente danneggiato sia il fegato. Il copione prevede che in taluni casi l’intervistato assuma un’aria sofferta e addolorata perché deve piegarsi al realismo di un mondo in cui le armi sono necessarie. Non saltano l’appuntamento filosofi e teologi che, con fini argomentazioni storiche, dottrinali, antropologiche e morali, giustifichino la liceità di investire miliardi di euro all’anno per rafforzare la difesa armata e dicono che sarebbe “peccato” piuttosto non farlo. Si respira l’aria di una resa rassegnata e incapace di ribellarsi a un destino che viene presentato come ineluttabile. La politica – invece – quando non è vittima delle lobby e di interessi economici, deve avere il coraggio di elevarsi per scrutare meglio l’orizzonte della storia e mettersi al servizio di progetti di pace. E se giudichiamo questo tempo di guerra come una sconfitta dolorosa, con quale coraggio andiamo a rafforzare le condizioni per proseguire nella stessa strada della guerra e della sua preparazione? Insomma se il Papa ha ragione, si abbia il coraggio di tirarne le conseguenze e di pensare politiche coerenti per un nuovo ordine mondiale. È tutt’altro che utopia.

image_pdfimage_print

papa Francesco che parla di pazzia della guerra è più realista dei realisti

“il papa parla di pace, ma…”

cq5dam.thumbnail.cropped.500.281.jpeg

“Il Papa parla contro il riarmo, ma… Il Papa fa il Papa, ma… Il Papa non può che dire ciò che dice, ma…”. C’è sempre un “ma” che in tanti imbarazzati commenti accompagna l’inequivocabile no alla guerra pronunciato da Francesco, per contestualizzarlo e depotenziarlo. Non potendo interpretare nel senso voluto le parole del vescovo di Roma, non potendo in alcun modo “piegarle” a sostegno della corsa al riarmo freneticamente intrapresa a seguito della guerra di aggressione scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, allora se ne prendono elegantemente le distanze, dicendo che sì, il Papa non può che dire ciò che dice ma poi deve essere la politica a decidere. E la politica dei governi occidentali sta decidendo di aumentare i già tanti miliardi da spendere per nuove e sempre più sofisticate armi. Miliardi che non si trovavano per le famiglie, per la sanità, per il lavoro, per l’accoglienza, per combattere la povertà e la fame.

La guerra è un’avventura senza ritorno, ripete Francesco sulle orme dei suoi immediati predecessori, in particolare di san Giovanni Paolo II . Anche le parole di Papa Wojtiła in occasione delle due guerre all’Iraq e della guerra nei Balcani vennero “contestualizzate” e “derubricate”, pure dentro la Chiesa. Il Papa che all’inizio del pontificato chiese di «non avere paura» nell’aprire «le porte a Cristo» nel 2003 supplicò invano tre governanti occidentali intenzionati a rovesciare il regime di Saddam Hussein, chiedendo loro di fermarsi. A distanza di quasi vent’anni, chi può negare che il grido contro la guerra di quel Pontefice non fosse soltanto profetico, ma anche imbevuto di profondo realismo politico? Basta guardare alla rovina del martoriato Iraq, trasformato per lungo tempo nella sentina di tutti i terrorismi, per comprendere quanto lungimirante fosse lo sguardo del santo Pontefice polacco.

Oggi accade lo stesso. Con il Papa che non si arrende all’ineluttabilità della guerra, al tunnel senza uscita rappresentato dalla violenza, alla logica perversa del riarmo, alla teoria della deterrenza che ha imbottito il mondo di così tante armi nucleari in grado di annientare diverse volte l’umanità intera.

«Io mi sono vergognato — ha detto nei giorni scorsi Francesco — quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato — non facendo vedere i denti, come adesso —, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare».

Il no alla guerra di Francesco, un no radicale e convinto, non ha nulla a che vedere con la cosiddetta neutralità né può essere presentato come una posizione di parte o motivata da calcoli politico-diplomatici. In questa guerra ci sono gli aggressori e ci sono gli aggrediti. C’è chi ha attaccato e ha invaso uccidendo civili inermi, mascherando ipocritamente il conflitto sotto il maquillage di una «operazione militare speciale»; e c’è chi si difende strenuamente combattendo per la propria terra. Il Successore di Pietro questo l’ha detto più volte con parole chiarissime, condannando senza se e senza ma l’invasione e il martirio dell’Ucraina che dura da più di un mese. Ciò non vuol dire però “benedire” l’accelerazione della corsa al riarmo, peraltro già iniziata da tempo dato che i Paesi europei hanno aumentato le spese militari del 24,5% a partire dal 2016, perché il Papa non è il “cappellano dell’Occidente” e perché ripete che oggi stare dalla parte giusta della storia significa essere contro la guerra cercando la pace senza mai lasciare nulla di intentato. Certo, il Catechismo della Chiesa cattolica contempla il diritto alla legittima difesa. Pone però delle condizioni, specificando che il ricorso alle armi non deve provocare mali e disordini più gravi del male da eliminare, e ricorda che nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso «la potenza dei moderni mezzi di distruzione». Chi può negare che l’umanità si trovi oggi sull’orlo del baratro proprio a causa dell’escalation del conflitto e della potenza dei «moderni mezzi di distruzione»?

«La guerra — ha detto ieri all’Angelus Papa Francesco — non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. Perché, se da questa vicenda usciremo come prima, saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia».

C’è dunque bisogno di prendere sul serio il grido, l’appello del Papa: è un invito rivolto proprio ai politici a riflettere su questo, a impegnarsi su questo. C’è bisogno di una politica forte e di una diplomazia creativa, per perseguire la pace, per non lasciare nulla di intentato, per fermare il vortice perverso che in poche settimane sta facendo tramontare le speranza di una transizione ecologica, sta ridando nuove energie al grande business del commercio e del traffico delle armi. Un vento di guerra che mettendo indietro le lancette dell’orologio della storia ci fa ripiombare in un’epoca che speravamo fosse stata definitivamente archiviata dopo la caduta del Muro di Berlino.

di ANDREA TORNIELLI

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

un padre che intorno vuole figli non servi


Un Padre che intorno vuole figli non servi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di quaresima, in “Laetare”

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto (…)».

La parabola più famosa, più bella, più spiazzante, si articola in quattro sequenze narrative.
Prima scena. Un padre aveva due figli. Un incipit che causa subito tensione: nel Libro le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano di violenza e di menzogne. E sullo sfondo il dolore muto dei genitori, di questo padre così diverso: non ostacola la decisione del ragazzo; lo dà in sposo alla sua propria libertà, e come dote non dovuta cede la metà dei beni di famiglia.
Secondo quadro. Il giovane inizia il viaggio della vita, ma le sue scelte sbagliate (sperperò il denaro vivendo da dissoluto) producono una perdita di umanità: il principe sognatore diventa servo, un porcaio che ruba ghiande per sopravvivere. Allora rientra in sé, e rivede la casa del padre, la sente profumare di pane. Ci sono persone nel mondo con così tanta fame che per loro Dio (o il padre) non può che avere la forma di un pane (Gandhi). Decide di tentare, non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso: trattami come un salariato! Non osa più cercare un padre, cerca solo un buon padrone. Non torna perché ha capito, torna per fame. Non per amore, ma per la morte che gli cammina a fianco paziente.
Terza sequenza. Il ritmo della storia cambia, l’azione si fa incalzante.
Il figlio si incammina e il padre, che è attesa eternamente aperta, lo vede che era ancora lontano e gli corre incontro. L’uomo cammina, Dio corre. L’uomo si avvia, Dio è già arrivato.
E ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima ancora che apriamo bocca. Il tempo dell’amore è prevenire, buttare le braccia al collo, fretta di carezze dopo la lunga lontananza.
Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto?
Non chiede: perché l’hai fatto? ma: vuoi ricostruire la casa?
La Bibbia sembra preferire storie di ricomposizione a storie di fedeltà infrangibile. Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, il Libro è pieno di gente raccolta dalle paludi, dalle ceneri, da una cisterna nel deserto, da un ramo di sicomoro, e delle loro ripartenze sotto il vento di Dio.
L’ultima scena si svolge attorno a un altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che pesa e misura tutto con un cuore mercenario.
Ma il padre, che vuole figli intorno e non servi, esce e lo prega, con dolcezza, di entrare: vieni, è in tavola la vita. E la modernità di un finale aperto.
È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre? Sì, immensa rivelazione per cui Gesù darà la vita: Dio è amore, esclusivamente amore. L’amore non è giusto, è sempre oltre, centuplo, eccedenza. Ma è proprio questo il Dio di Gesù, il Dio che mi innamora.
(Letture: Giosuè 5, 9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5, 17-21; Luca 15, 1-3.11-32).
image_pdfimage_print

il pacifista ucraino e il suo appello all’Ucraina e alla Russia

l’appello di Yurii Sheliazhenko, coraggioso leader del movimento pacifista ucraino

Yurii Sheliazhenko fa parte del direttivo della rete pacifista internazionale World Beyond War. Vive in Ucraina. È segretario esecutivo dell’Ukrainian Pacifist Movement e membro dell’Ufficio europeo per l’obiezione di coscien

questo il suo appello

Viviamo in tempi difficili che richiedono coraggio per promuovere la pace. Quando nazioni vicine con una storia intrecciata cominciano a opprimersi, distruggersi e uccidersi a vicenda anno dopo anno, sul proprio territorio o invadendo il territorio del vicino…

Quando scrivi su Facebook che la Carta delle Nazioni Unite richiede la risoluzione pacifica di tutte le controversie e che, pertanto, il presidente Putin della Russia e il presidente Zelenskyy dell’Ucraina dovrebbero cessare il fuoco e avviare colloqui di pace – e ricevi commenti pieni di oscenità e maledizioni…

Quando viene proclamata la legge marziale e la mobilitazione totale e i fucili vengono consegnati a migliaia di persone appena reclutate e i selfie con i fucili diventano di tendenza sui social e nessuno sa chi e perché qualcuno improvvisamente spara in strada…

Quando anche i civili in un condominio si preparano ad accogliere il nemico con le molotov, lo raccomanda l’esercito, e cancellano dalla loro chat un vicino percepito come un traditore solo perché ha invitato la gente a stare attenta, a non bruciare la casa comune e a non permettere ai militari di usare i civili come scudo umano…

Quando suoni lontani di esplosioni dalle finestre si mescolano nella mente con messaggi di morte e distruzione, e odio, e sfiducia, e panico, e chiamate alle armi, a più spargimento di sangue per la sovranità…

…è un’ora buia per l’umanità. Dobbiamo sopravvivere e superarla, e impedire che si ripeta. Il Movimento pacifista ucraino condanna tutte le azioni militari da parte della Russia e dell’Ucraina nel contesto dell’attuale conflitto. Condanniamo la mobilitazione militare e l’escalation dentro e fuori l’Ucraina, comprese le minacce di guerra nucleare.

Lanciamo un appello alla leadership di entrambi gli Stati e alle forze militari affinché facciano un passo indietro e si siedano davvero al tavolo dei negoziati. La pace in Ucraina e nel mondo può essere raggiunta solo in modo nonviolento. La guerra è un crimine contro l’umanità. Pertanto, siamo determinati a non sostenere alcun tipo di guerra e a lottare per la rimozione di tutte le cause di guerra. È difficile rimanere calmi e sani di mente ora, ma con il sostegno della società civile globale è più facile.

Purtroppo, anche i guerrafondai stanno spingendo la loro agenda in tutto il mondo. Chiedono più aiuti militari per l’Ucraina e sanzioni economiche distruttive contro la Russia. La Nato dovrebbe fare un passo indietro dal conflitto sull’Ucraina, aggravato dal suo sostegno allo sforzo bellico e dalle aspirazioni di adesione del governo ucraino all’Alleanza.

La Nato dovrebbe idealmente sciogliersi o trasformarsi in un’alleanza per il disarmo. L’Ucraina non dovrebbe schierarsi con nessuna grande potenza militare, che siano gli Stati Uniti, la Nato o la Russia. In altre parole, il nostro paese dovrebbe essere neutrale. Il governo ucraino dovrebbe smilitarizzare, abolire la coscrizione, risolvere pacificamente le dispute territoriali riguardanti Donbass e Crimea e contribuire allo sviluppo di una futura governance globale nonviolenta, invece di cercare di costruire uno Stato nazionale del 20° secolo armato fino ai denti.

Sarà più facile negoziare con la Russia e i separatisti se si condividerà la visione che l’Ucraina, il Donbass e la Crimea in futuro saranno insieme su un pianeta unito senza eserciti e confini. Anche se alle élite manca il coraggio intellettuale di guardare al futuro, la comprensione pragmatica dei benefici del mercato comune dovrebbe aprire la strada alla pace.

Tutti i conflitti dovrebbero essere risolti al tavolo dei negoziati, non sul campo di battaglia; il diritto internazionale lo richiede e non c’è altro modo plausibile per risolvere le controversie emergenti dai traumatici eventi del 2014 a Kiev, Crimea e Donbass, dopo otto anni di spargimento di sangue da parte delle forze ucraine e filorusse e con l’attuale tentativo militarista aggressivo russo di annullare quel cambio di regime in Ucraina.

Invece di affogare nella rabbia gli ultimi legami umani, abbiamo bisogno più che mai di preservare e rafforzare i luoghi di comunicazione e cooperazione tra tutte le persone sulla Terra, e ogni sforzo individuale di questo tipo ha un valore.

La nonviolenza è lo strumento più efficace e progressivo per la governance globale e la giustizia sociale e ambientale, rispetto alle illusioni sulla violenza sistemica e la guerra come panacea, soluzione miracolosa per tutti i problemi socio-economici.

L’Ucraina e la Russia non hanno forse sofferto abbastanza per capire che la violenza non funziona? Putin e Zelenskyy dovrebbero impegnarsi in colloqui di pace seriamente e in buona fede, come politici responsabili e rappresentanti dei loro popoli, sulla base di interessi pubblici comuni, invece di combattere per posizioni che si escludono a vicenda.”

(appello rilanciato dall’agenzia Pressenza)

image_pdfimage_print

L. Boff efuriosi attacchi da parte dei cristiani tradizionalisti e dei suprematisti bianchi i

attacchi spietati a papa Francesco, “giusto tra le nazioni”

un testo di Leonardo Boff

Dall’inizio del suo pontificato, nove anni fa, Papa Francesco è stato oggetto di furiosi attacchi da parte dei cristiani tradizionalisti e dei suprematisti bianchi, di quasi tutto il nord del mondo, degli Stati Uniti e dell’Europa. Hanno persino costruito un complotto, mettendo insieme milioni di dollari, per deporlo come se la Chiesa fosse un’impresa e il papa il suo amministratore delegato. Tutto invano. Lui segue il suo cammino nello spirito delle beatitudini evangeliche dei perseguitati.

Le ragioni di questa persecuzione sono diverse: ragioni geopolitiche, lotte di potere, un’altra visione della Chiesa e la cura della Casa Comune.

Alzo la mia voce in difesa di Papa Francesco a partire dalla periferia del mondo, dal Grande Sud. Mettiamo a confronto i numeri: solo il 21,5% dei cattolici vive in Europa, il 78,5% vive fuori dall’Europa e il 48% in America. Siamo, quindi, la stragrande maggioranza. Fino alla metà del secolo scorso la Chiesa cattolica era del primo mondo. Ora è una Chiesa del terzo e quarto mondo, che un tempo ebbe origine nel primo mondo. Qui sorge una questione geopolitica. I conservatori europei, ad eccezione di importanti organizzazioni cattoliche di cooperazione solidale, hanno un sovrano disprezzo per il Sud, in particolare per l’America Latina.

La Chiesa-grande-istituzione fu alleata della colonizzazione, complice del genocidio indigeno e partecipante allo schiavismo. Qui si è costituita una Chiesa coloniale, specchio della Chiesa europea. Succede che in più di 500 anni, nonostante la persistenza della Chiesa specchio, si è verificata un’ecclesiogenesi, la genesi di un altro modo di essere Chiesa. Chiesa, non più specchio, ma fonte: incarnatasi nella cultura locale indigena-afro-meticcia e dei popoli immigrati provenienti da 60 paesi diversi. Da questo amalgama ha creato il suo stile di adorare Dio e celebrare, di organizzare la sua pastorale sociale dalla parte degli oppressi, che lottano per la loro liberazione. Ha progettato la sua teologia adatta alla sua pratica liberatoria e popolare. Ha i suoi profeti, confessori, teologi e teologhe, santi e molti martiri, tra cui l’arcivescovo di San Salvador Arnulfo Oscar Romero.

Questo tipo di Chiesa è fondamentalmente composto da comunità ecclesiali di base, dove si vive la dimensione della comunione degli eguali, tutti i fratelli e le sorelle, con i loro coordinatori laici, uomini e donne, con i sacerdoti inseriti in mezzo alla gente e i vescovi, mai dando le spalle al popolo come autorità ecclesiastiche, ma insieme come pastori, con «odore di pecora» con la missione di essere «defensores et advocati pauperum», come si diceva nella Chiesa primitiva. Papi e autorità dottrinali vaticane hanno cercato di limitare e persino condannare un tale modo di essere Chiesa, spesso con l’argomento che non sono Chiesa perché non vedono in loro il carattere gerarchico e lo stile romanico. Questa minaccia è durata molti anni finché, finalmente, è emersa la figura di papa Francesco. Lui nasce dal brodo di questa nuova cultura ecclesiale ben espressa dall’opzione preferenziale, non esclusiva, per i poveri e dai vari filoni della teologia della liberazione che l’accompagna. Ha dato legittimità a questo modo di vivere la fede cristiana, soprattutto in situazioni di grande oppressione.

Ma ciò che scandalizza di più i cristiani tradizionalisti è il suo stile di esercitare il ministero dell’unità della Chiesa. Non appare più come il pontefice classico, vestito di simboli pagani, assunti dagli imperatori romani, in particolare la famosa “mozzetta”, quella piccola mantellina rossa piena di simboli del potere assoluto dell’imperatore e del papa. Francesco subito se n’è sbarazzato e ha indossato una “mozzetta” bianca, spoglia come quella del grande profeta del Brasile, Dom Helder Câmara, e con la sua croce di ferro senza gioielli. Ha rifiutato di abitare in un palazzo pontificio, quello che avrebbe fatto uscire San Francesco dalla tomba per condurlo dove ha scelto di vivere: in una semplice pensione, Santa Marta. E li [nella mensa] si mette in fila per servirsi da solo e mangia con tutti. Con umorismo possiamo dire: così è più difficile avvelenarlo. Non indossa Prada, ma le sue vecchie scarpe consumate. Nell’annuario pontificio in cui si usa un’intera pagina con i titoli onorifici dei Papi, egli semplicemente ha rinunciato a tutti loro, scrivendo solo Franciscus, pontifex. Ha detto chiaramente in uno dei suoi primi pronunciamenti che non presiederà la Chiesa con il diritto canonico, ma con amore e tenerezza. Innumerevoli volte ha ripetuto di volere una Chiesa povera e dei poveri.

Tutto il grande problema della Chiesa-grande-istituzione risiede, dagli imperatori Costantino e Teodosio, nell’assunzione del potere politico, trasformato nel potere sacro (sacra potestas). Questo processo raggiunse il suo culmine con papa Gregorio VII (1075) con la sua bolla Dictatus Papae che ben tradotto è la “Dittatura del Papa”. Come dice il grande ecclesiologo Jean-Yves Congar, con questo Papa si consolidò la svolta più decisiva della Chiesa, che tanti problemi ha creato e da cui non si è mai più liberata: l’esercizio centralizzato, autoritario e persino dispotico del potere. Nelle 27 proposizioni della bolla, il Papa è considerato il signore assoluto della Chiesa, l’unico e supremo signore del mondo, divenendo la suprema autorità nel campo spirituale e temporale. Ciò non è mai stato cancellato.

Basta leggere il Canone 331 in cui si dice che “il Pastore della Chiesa universale ha la potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale”. Qualcosa di inaudito: se cancelliamo il termine Pastore della Chiesa universale e inseriamo Dio la frase funziona perfettamente. Chi tra gli esseri umani, se non Dio, può attribuirsi una tale concentrazione di potere? Non è senza significato che nella storia dei Papi c’è stata una crescita del faraonismo del potere: da successori di Pietro, i Papi si sono creduti rappresentanti di Cristo. E come se non bastasse, rappresentanti di Dio, fino ad essere chiamati deus minor in terra. Qui si realizza l’hybris [l’arroganza] greca e ciò che Thomas Hobbes annota nel suo Leviatano: “Noto, come tendenza generale di tutti gli uomini, un desiderio perpetuo e irrequieto di potere e di più potere. La ragione di ciò risiede nel fatto che il potere non può essere garantito se non cercando ancora più potere”. Questa è stata la tragica traiettoria della Chiesa cattolica alle prese con il potere che persiste fino ai nostri giorni, fonte di polemiche con le altre Chiese cristiane e di estrema difficoltà nell’assumere i valori umanistici della modernità. Essa è lontana anni luce dalla visione di Gesù che voleva un potere-servizio (hierodulia) e non un potere-gerarchico (hierarquia).
Da tutto questo papa Francesco prende le distanze, cosa che suscita indignazione nei conservatori e anche nei reazionari, ben espressa nel libro di 45 autori dell’ottobre 2021: “Dalla pace di Benedetto alla guerra di Francesco” (From Benedict’s Peace to Francis’s War) a cura di Peter A Kwasnievskij. Noi replicheremmo così: “Dalla pace dei pedofili di Benedetto (coperti da lui) alla guerra contro i pedofili di Francesco (da lui condannati)”. È noto che il papa in pensione Benedetto XVI è stato indiziato come colpevole da un tribunale di Monaco per la sua clemenza nei confronti dei preti pedofili.

C’è un problema di geopolitica ecclesiastica: i tradizionalisti rifiutano un Papa che viene “dalla fine del mondo”, che porta al centro del potere vaticano un altro stile più vicino alla grotta di Betlemme rispetto ai palazzi degli imperatori. Se Gesù apparisse al Papa durante la sua passeggiata per i giardini vaticani, direbbe sicuramente: “Pietro, su queste pietre sontuose non edificherei mai la mia Chiesa”. Questa contraddizione è vissuta da papa Francesco avendo rinunciato alla sontuosità del palazzo e allo stile imperiale.
In effetti, c’è uno scontro di geopolitica religiosa tra il Centro, che ha perso la sua egemonia per numero e irradiazione, ma che conserva le abitudini dell’esercizio autoritario del potere, e la Periferia, numericamente maggioritaria tra i cattolici, con nuove chiese, con nuovi stili di vivere la fede e in dialogo permanente con il mondo, specialmente con i condannati della Terra, avendo sempre una parola da dire sulle ferite che sanguinano nel corpo del Crocifisso, presente nei poveri e oppressi.

Forse ciò che più infastidisce i cristiani ingessati nel passato è la visione della Chiesa vissuta dal Papa. Non una Chiesa-castello, chiusa in se stessa, nei suoi valori e dottrine, ma una Chiesa “ospedale da campo” sempre “in cammino verso le periferie esistenziali”. Essa accoglie tutti senza interrogarsi sul loro credo o sulla loro situazione morale. Basta che siano esseri umani in cerca del senso della vita e che soffrono per le avversità di questo mondo globalizzato, ingiusto, crudele e spietato. Condanna direttamente il sistema che dà centralità al denaro a spese delle vite umane e della natura. Ha realizzato diversi incontri mondiali con i movimenti popolari. Nell’ultimo, il quarto, ha detto esplicitamente: “Questo sistema (capitalista), con la sua logica implacabile, sfugge al dominio umano; bisogna lavorare per una maggiore giustizia e cancellare questo sistema di morte”. Nella Fratelli tutti lo condanna con forza.

È orientato da quello che è uno dei grandi apporti della teologia latinoamericana: la centralità del Gesù storico, povero, pieno di tenerezza verso i sofferenti, sempre dalla parte dei poveri e degli emarginati. Il Papa rispetta i dogmi e le dottrine, ma non è attraverso di loro che raggiunge il cuore delle persone. Per lui Gesù è venuto ad insegnarci come vivere: fiducia totale in Dio-Padre, vivere l’amore incondizionato, la solidarietà, la compassione per e con i caduti nelle strade, la cura per e con il Creato; beni che costituiscono il contenuto del messaggio centrale di Gesù: il Regno di Dio. Predica instancabilmente la misericordia sconfinata con cui Dio salva i suoi figli e figlie, perché Lui non può perdere nessuno di loro, frutto del suo amore, «perché è l’amante appassionato della vita» (Sap 11,24). Per questo afferma che «per quanto qualcuno sia ferito dal male, non è mai condannato su questa terra ad essere separato per sempre da Dio». In altre parole: la condanna è solo per questo tempo.
Invita tutti i pastori ad esercitare la pastorale della tenerezza e dell’amore incondizionato, formulata sinteticamente da un leader popolare di una comunità di base: “l’anima non ha confini, nessuna vita è straniera”. Come pochi al mondo, si è impegnato per gli immigrati provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente e ora dall’Ucraina. Si rammarica del fatto che i moderni abbiano perso la capacità di piangere, di sentire il dolore dell’altro e, da buon samaritano, di soccorrerlo nel suo abbandono.

La sua opera più importante è stata la preoccupazione per il futuro della vita della Madre Terra. La Laudato Sì esprime il suo vero significato nel sottotitolo: “sulla cura della Casa Comune”. Non elabora un’ecologia verde, ma un’ecologia integrale che abbraccia l’ambiente, la società, la politica, la cultura, la vita quotidiana e il mondo dello spirito. Assume i contributi più sicuri delle scienze della Terra e della vita, in particolare della fisica quantistica e della nuova cosmologia, il fatto che tutto è connesso “ci unisce anche tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello fiume e alla madre terra”, come lui dice poeticamente nella Laudato Sì. La categoria della cura e della corresponsabilità collettiva acquista così tanta centralità al punto di dire nella Fratelli tutti che “siamo sulla stessa barca: o ci salviamo tutti salvati o nessuno si salva”.
Noi latinoamericani gli siamo profondamente grati per aver convocato il Sinodo Querida Amazônia, per difendere questo immenso bioma di interesse per tutta la Terra e come la Chiesa si è incarnata in quella vasta regione che copre nove paesi.

I grandi nomi dell’ecologia mondiale hanno testimoniato: con questo suo contributo, Papa Francesco si pone in prima linea nel dibattito ecologico contemporaneo.
Quasi disperato ma ancora pieno di speranza, propone un cammino di salvezza: una fraternità universale e un amore sociale come assi strutturanti di una bio-società su cui rifondare la politica, l’economia e ogni sforzo umano. Non abbiamo molto tempo, né abbastanza saggezza accumulata, ma questo è il sogno e la vera alternativa per evitare un cammino senza ritorno.
Il Papa che cammina da solo in Piazza San Pietro sotto una pioggia leggera, in tempo di pandemia, rimarrà un’immagine immortale e un simbolo della sua missione di Pastore che si preoccupa e prega per il destino dell’umanità.
Forse una delle ultime frasi della Laudato Sì rivela tutto il suo ottimismo e la speranza contro ogni speranza: “Camminiamo cantando che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano l’allegria della speranza”.
Hanno bisogno di essere nemici della propria umanità, coloro che condannano impietosamente gli atteggiamenti così umanitari di Papa Francesco, in nome di una cristianità sterile, come un fossile del passato e un contenitore di acque morte.

Hanno bisogno di essere nemici della propria umanità, coloro che condannano impietosamente gli atteggiamenti così umanitari di Papa Francesco, in nome di una cristianità sterile, come un fossile del passato e un contenitore di acque morte.

Questi cardinali, vescovi e altri che hanno scritto il libro sopracitato sono, infatti, cismatici e eretici nel senso primitivo della parola, quelli che rompano l’unità della comunità eclesiale.
I feroci attacchi che rivolgono al Papa possono essere tutto, meno che cristiani ed evangelici.

Papa Francesco sopporta tutto, intriso dell’umiltà di San Francesco d’Assisi e dei valori del Gesù storico. Per questo egli merita bene il titolo di “un giusto tra le nazioni”.

Leonardo Boff

image_pdfimage_print

pregare per la pace? come pregare

quale preghiera per la pace nel tempo della guerra in Ucraina?

di Jacques Musset*  

in “www.garriguesetsentiers.org” dell’11 marzo 2022 (traduzione: www.finesettimana.org)

Se Dio è presente nel più intimo dell’essere e se nel segreto della coscienza ispira il desiderio del vero, allora la sola preghiera di richiesta che valga non è più quella di sollecitare Dio ad intervenire, ma di chiedere a noi stessi, personalmente e come comunità, di essere disponibili alle richieste che salgono in noi dal più profondo quando ci preoccupiamo sinceramente di vivere secondo lo spirito che animava Gesù.

Immagino che attualmente, nel corso delle messe e dei culti domenicali in tutte le chiese e i templi cristiani del mondo siano formulate preghiere di intercessione per la pace in Ucraina. E che esse, almeno nelle chiese cattoliche, siano espresse nello stile abituale, in forma di richieste a Dio in termini più o meno simili a questi: “Perché cessi la guerra in Ucraina e venga una pace giusta in quel paese provato, preghiamo il Signore”, “Perché gli autori di questa guerra ingiusta prendano coscienza della loro ingiustizia e cessino i combattimenti, preghiamo il Signore”, “Perché le vittime di questa guerra siano sostenute, aiutate, confortate, preghiamo il Signore”, “Dio, pare di tutti gli uomini, ti preghiamo di cambiare il cuore di coloro che opprimono il popolo ucraino”, “Vieni in aiuto alle vittime e a coloro che soffrono crudelmente per questa guerra”, o ancora “Stimola la generosità dei paesi in pace affinché vengano in aiuto al governo e alle popolazioni rimaste sul posto o in fuga dalla guerra”…
Perché queste richieste sono inaccettabili per un cristiano del XXI secolo immerso nella cultura moderna? In che cosa possono screditare il cristianesimo agli occhi degli agnostici e degli atei a causa dell’immagine di “Dio” e dell’uomo che esse veicolano?
Una prima ragione è che danno di “Dio” una rappresentazione di onnipotenza senza limiti, arbitraria, un “Dio” che, per intervenire, avrebbe bisogno che ci si metta in ginocchio davanti a lui per gridare la propria miseria o urlargli i propri desideri più ardenti. Che cosa è mai questa divinità che si nutrirebbe per anni e per secoli di preghiere incessanti per degnarsi di distribuire i propri favori? Immagine meschina del Dio cristiano, più vicina alle divinità di un tempo di cui si immaginava che il potere fosse efficace in rapporto a preghiere interminabili e riti sofisticati. Che cosa è questo Dio di cui si proclama che è amore e che godrebbe nel farsi pregare per spargere le sue bontà, come se fosse sordo e lontano?
Ma c’è di più: anche la rappresentazione dell’uomo è in gioco in questo atteggiamento. Questo comportamento di supplica manifesta una innegabile dimissione di responsabilità da parte di coloro che lo professano. L’oggetto di queste richieste designa in realtà dei compiti che ognuno dei credenti e degli esseri umani deve svolgere proprio in quanto essere umano. Infatti, chi può offrire conforto a coloro che soffrono? Altri esseri umani. Chi deve creare condizioni di pace tra le persone e i popoli? Ogni cittadino a titolo personale e coloro che sono eletti per svolgere questo compito.
Chi deve fare in modo che le persone mangino a sufficienza in certi paesi in cui regna carestia endemica? Gli abitanti stessi di quei paesi, aiutati dal sostegno e la solidarietà disinteressata di quelli più ricchi. E queste responsabilità devono suscitare iniziative concrete, se no si rimane a livello di pii desideri che lasciano perdurare le peggiori ingiustizie. Come migliorare il proprio comportamento portato alla rabbia o all’egocentrismo, come sviluppare il proprio senso critico? Lo si fa in prima persona, lavorando man mano su se stessi. Potremmo moltiplicare gli esempi di richieste a “Dio” che in realtà dipendono dalla responsabilità umana. Questo modo di procedere non fa crescere né Dio né l’uomo.
Sento l’obiezione: nella Bibbia, in particolare nei Salmi, e nel Vangelo, non si raccomanda forse ai credenti di invocare “Dio” in aiuto? “Chiedete e vi sarà dato”, dice Gesù. Il Padre Nostro che ha insegnato è un’urgente preghiera di richiesta. Che cosa rispondere? In primo luogo, il forte monito di Gesù contro la ripetizione di formule che sarebbero efficaci di per se stesse. Proprio Gesù ci ricorda che Dio non ha bisogno delle preghiere per essere presente agli uomini e ai loro bisogni (Mt6,5-8). E insiste: “Non chiunque dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21).
Inoltre, queste affermazioni devono essere collocate nel loro contesto storico e culturale. Per gli autori dei salmi, come per Gesù, “Dio” è una realtà trascendente, che abita il cielo ed è capace di operare miracoli dove l’uomo constata la propria impotenza. Per questo invitano a gridare verso di lui per sollecitare il suo intervento, anche se si è comunque sicuri della sua fedele presenza. Con il progresso delle cosiddette scienze esatte e la “liberazione” delle scienze umane in seguito alle critiche dell’Illuminismo, l’ambito nel quale fino a quel momento Dio regnava da essere supremo si è praticamente ristretto e secolarizzato. Non c’è più bisogno oggi di far intervenire Dio nella spiegazione e nella gestione della natura, nella comprensione della psicologia dell’essere umano, dei suoi comportamenti e delle sue malattie, nella comprensione delle leggi di cui ogni società ha bisogno per vivere in un certo equilibrio tra le forze centrifughe che la compongono… Gli uomini hanno acquisito un’autonomia nella conduzione della loro esistenza personale e sociale.
Una preghiera rispettosa di Dio e di noi stessi

Che cosa diventa allora “Dio”? È forse un epifenomeno che non ha più la sua ragion d’esser dopo essere stato spogliato delle sue prerogative tradizionali, oppure può designare per i credenti una realtà misteriosamente presente nel più intimo di ogni essere umano, lì dove nasce il meglio di sé: e cioè ciò che ha a che fare con il dono, con l’arte, con l’interiorità, con la conoscenza di sé, col rifiuto dell’inaccettabile, con il consenso e l’appropriazione di ciò che è. È ciò che esprimono i mistici di tutti i tempi e di tutte le tradizioni spirituali.
Quelle persone, che vivono ad un livello di estrema profondità del proprio essere, sperimentano, toccano, così dicono, una realtà che senza essere loro stessi è inseparabilmente legata a loro.
L’esperienza di questi superamenti è comune a tutti gli esseri umani che cercano di non barare con le richieste interiori a loro rivolte, ciò non significa che vi possiamo leggere la traccia di Dio. Se è legittimo chiamare “Dio”, in mancanza di altre parole, ciò che è al cuore di ogni spinta interiore ad umanizzarsi incessantemente in ogni dimensione, allora il modo di porsi nei confronti di questa fonte misteriosa non può più esprimersi come un tempo, quando Dio era concepito come esterno a sé e onnipotente in tutti gli ambiti.
Quale è dunque la preghiera di richiesta possibile che sia degna di “Dio” e dell’uomo? Ciò che rimane comune con il modo di esprimersi di un tempo, è la necessità del raccoglimento. Che, del resto, è una necessità per ogni uomo che non voglia vivere la propria esistenza come un sonnambulo o come una banderuola. Dedicare del tempo al silenzio, indipendentemente dal luogo e dalla maniera, è una condizione indispensabile per essere presenti a se stessi e al proprio mistero.
Ma allora, la preghiera cristiana di richiesta, personale o collettiva, come può esprimersi in maniera autentica? Se Dio è presente nel più intimo dell’essere e fa continuamente, se così si può dire, il suo lavoro di Dio, che è quello di ispirare nel segreto delle coscienze, senza teleguidarle, il gusto e il desiderio del vero, allora la sola preghiera di richiesta che valga non è più quella di sollecitare Dio ad intervenire, ma di chiedere a noi stessi, personalmente e come comunità, di essere disponibili ai moti, alle richieste, agli incitamenti (indipendentemente dalle parole) che salgono in noi dal più profondo quando ci preoccupiamo di vivere, senza ingannare noi stessi e gli altri, secondo lo spirito che animava Gesù.
Come è possibile farlo? Cambiando il modo di esprimerci. Se è vero che si finisce per pensare come si parla, allora, parliamo secondo verità affinché le nostre parole siano stimolanti individualmente e collettivamente e non rimangano solo facili e generose formule magiche senza presa sulla realtà. In questo modo, davanti a “Dio” (riconosciuto come Sorgente, Soffio interiore), i cristiani si comporteranno da adulti e non da esseri infantili.
Tentiamo di dire, nel contesto attuale, quale potrebbe essere una preghiera rispettosa di Dio e di noi stessi: “Davanti a te o Dio, diciamo ciò a cui ci impegnano il messaggio e il comportamento di Gesù, nel momento in cui l’Ucraina è vittima di una guerra ingiusta e distruttrice che fa moltissimi morti, che fa sprofondare i suoi abitanti nell’insicurezza e li costringe a fuggire dal loro paese in uno stato precario. Che ognuno di noi, secondo i propri mezzi, partecipi alle azioni intraprese per aiutare i rifugiati e anche coloro che rimangono sul posto; per dimostrare pubblicamente il nostro sostegno agli ucraini e la nostra condanna dell’aggressione che subiscono; per accogliere e accompagnare i rifugiati nella nostra regione”.
* Jacques Musset è un biblista francese, nato nel 1936. È stato cappellano di liceo, animatore di gruppi biblici e formatore nell’accompagnamento dei malati in ambito ospedaliero. Ex presbitero, sposato, ha scritto diversi libri sul suo itinerario spirituale. Anima incontri dell’Associazione culturale degli amici di Marcel Légaut.

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

Dio non castiga mai e aspetta la conversione
il commento di E. Bianchi al vangelo della terza domenica di Quaresima, anno C
Lc 13,1-9
 

¹In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. ²Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? ³No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»».

Dopo le prime due domeniche di Quaresima, che fanno sempre memoria delle tentazioni di Gesù nel deserto e della sua trasfigurazione sul monte, la chiesa ci fa percorrere un itinerario diverso in ogni ciclo. Quest’anno (ciclo C), seguendo il vangelo secondo Luca, il tema dominante nei brani evangelici è quello della misericordia-conversione, cammino da rinnovarsi soprattutto nel tempo di preparazione alla Pasqua. 

Questa pagina contiene due messaggi: il primo sulla conversione, il secondo sulla misericordia di Dio. Gli ascoltatori di Gesù sono stati raggiunti da una notizia di cronaca, relativa a una strage avvenuta in Galilea: mentre venivano offerti sacrifici per chiedere a Dio aiuto e protezione, la polizia del governatore Pilato aveva compiuto un eccidio, mescolando il sangue delle vittime offerte con quello degli offerenti. I presenti vogliono che Gesù si esprima sull’oppressivo e persecutorio dominio romano, sulla situazione di quei galilei forse rivoluzionari, sulla colpevolezza di quei loro concittadini che erano stati massacrati tragicamente. La mentalità corrente, infatti, considerava ogni disgrazia avvenuta come castigo per una colpa commessa. 

Ma Gesù, che dà un giudizio negativo sui dominatori di questo mondo – i quali opprimono, dominano e si fanno chiamare benefattori (cf. Lc 22,25 e par.) –, risponde coinvolgendo l’uditorio su un altro piano, indicando come decisiva non la morte fisica ma l’ora escatologica. Dice infatti: “Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Egli replica sul piano della fede e della conoscenza di Dio. È come se dicesse: “Voi pensate che il peccato commesso dall’uomo scateni automaticamente il castigo da parte di Dio, ma non è così. In tal modo date a Dio un volto perverso!”. Gesù, infatti, sa che ogni essere umano è abitato in profondità da un ancestrale senso di colpa, che emerge prepotentemente ogni volta che accade una disgrazia o appare la forza del male. Quando ci arriva una malattia, quando ci capita un fatto doloroso, subito ci poniamo la domanda: “Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”. È radicata in noi la dinamica ben espressa dal titolo del celebre romanzo di Fëdor Dostoevskij, “delitto e castigo”: dove c’è il delitto, il peccato, deve giungere il castigo, la pena, pensiamo… 

Gesù vuole distruggere questa immagine del Dio che castiga, tanto cara agli uomini religiosi di ogni tempo, in Israele come nella chiesa. Per farlo, menziona lui stesso un altro fatto di cronaca, non dovuto alla violenza e alla responsabilità umana, ma accaduto per caso, e lo accompagna con il medesimo commento: “Quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Qual è dunque il cammino indicato da Gesù? Innanzitutto egli ci insegna ad avere uno sguardo diverso sulla vita: ogni vita è precaria, è contraddetta dalla violenza, dal male, dalla morte. Dietro a questi eventi non bisogna vedere Dio come castigatore e giudice – perché Dio potrà eventualmente fare questo solo nel giudizio finale, quando saremo passati attraverso la morte – ma discernere le nostre fragilità, i nostri errori inevitabili, la precarietà della vita. Nessuno è tanto peccatore da meritare tali disgrazie inviate da Dio, il quale non è uno spione in attesa di vedere il nostro peccato per castigarci! Tra peccato commesso e responsabilità nella colpa c’è però una relazione che sarà manifestata nel giudizio finale. Quelle uccisioni e quelle morti sono comunque un segno di un’altra morte possibile, che attende chi non si converte, perché chi continua a fare il male cammina su una strada mortifera e, di conseguenza, si procura da solo il male che incontrerà già qui sulla terra e poi nel giudizio ultimo di Dio. Oltre la morte biologica del corpo, che ci può sempre sorprendere, c’è un’altra perdizione, eterna, provocata dal male che scegliamo di compiere nella nostra vita. Gesù, come profeta, non fornisce dunque una spiegazione teologica al male ma invita alla conversione. Non si dimentichino i significati di questa parola. Secondo l’Antico Testamento convertirsi (shuv/teshuvah) significa “tornare”, cioè ritornare al Signore, ritornare alla legge infranta, per rinnovare l’alleanza con Dio. Il cammino richiesto riguarda la mente e l’agire e si manifesta anche come pentimento/penitenza nel tempo presente, ultimo spazio prima del giudizio. Per questo Gesù ha predicato: “Convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15; cf. Mt 4,17), ovvero “convertitevi credendo e credendo convertitevi”. Gesù è un profeta e, come tale, sa che gli umani sono peccatori, commettono il male; per questo chiede loro di aderire alla buona notizia del Vangelo e di accogliere la misericordia di Dio che va loro incontro, offrendo il perdono. 

E affinché i suoi ascoltatori comprendano la novità portata dal Vangelo, Gesù racconta loro una bellissima parabola. Un uomo ha piantato con fatica un fico nella propria vigna e con tanta fiducia ogni estate viene e cercare i suoi frutti ma non ne trova, perché quell’albero pare sterile. Spinto da quella delusione ripetutasi per ben tre anni, pensa dunque di tagliare il fico, per piantarne un altro. Chiama allora il contadino che sta nella vigna e gli esprime la sua frustrazione, intimandogli di tagliare l’albero: perché deve sfruttare inutilmente il terreno e rubare il nutrimento ad altre piante? Tutti noi comprendiamo questa decisione del padrone della vigna, ispirata dal nostro concetto di giustizia retributiva e meritocratica: non si paga chi non dà frutto, mentre gli altri si pagano proporzionalmente al frutto che ciascuno dà! 

Ma il contadino, che lavora quella terra, ama ciò che ha piantato, sarchiato, innaffiato e concimato. Il vignaiolo, si sa, ama la vigna come una sposa; per questo osa intercedere presso il padrone: “Signore (Kýrie), lascia il fico per un altro anno, perché io possa ancora sarchiarlo e concimarlo, con una cura più attenta e delicata. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, tu lo taglierai!”. Straordinario l’amore del vignaiolo per il fico: ha pazienza, sa aspettare, gli dedica il suo tempo e il suo lavoro. Promette al padrone di prendersi particolare cura di quell’albero infelice; in ogni caso, lui non lo taglierà, ma lo lascerà tagliare al padrone, se vorrà: “Tu lo taglierai, non io!”. Questo “tu lo taglierai” è un’ulteriore intercessione, che equivale a dire: “Io sono pronto ad aspettare ancora e ancora che esso dia frutto”. Qui stanno l’una di fronte all’altra la giustizia umana retributiva e la giustizia di Dio, che non solo contiene in sé la misericordia, ma è sempre misericordia, pazienza, attesa, sentire in grande (makrothymía). Il contadino accorda la fiducia, sa aspettare i tempi degli altri. 

Questo contadino è Gesù, venuto nella vigna (cf. Lc 20,13 e par.) di Israele vangata, liberata dai sassi, piantata da Dio come vite eccellente: “e Dio aspettò che producesse uva” (Is 5,2)… Sì, è venuto il Figlio di Dio nella vigna, si è fatto vignaiolo tra gli altri vignaioli, ha amato veramente la vigna e se n’è preso cura, innalzando per lei intercessioni in ogni situazione, ponendosi tra la vigna-Israele e il Dio vivente, facendo un passo, compromettendo se stesso nella cura della vigna, aumentando il suo lavoro e la sua fatica per amore della vigna, facendo tutto il possibile perché dia frutto e viva. È stando “in medio vineae”, in mezzo alla vigna, che dice a Dio: “Lasciala, lasciala ancora, attendi i suoi frutti; io, intanto, me ne assumo la cura, che è responsabilità!”. Così la vigna-Israele e la vigna-chiesa, a volte colpite dalla sterilità, sono conservate anche quando non danno i frutti sperati da Dio, perché Gesù il Messia è il vignaiolo in mezzo a loro (cf. Gv 15,1-8), è il loro sposo (cf. Lc 5,34-35 e par.) e sa attendere con quell’attesa che è la “pazienza di Cristo” (2Ts 3,5). 

Giovanni il Battista aveva predicato: “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,9; Mt 3,10). Ciò avverrà alla fine dei tempi, nel giorno del giudizio, ma ora, nel frattempo, Gesù continua a dire a Dio: “Abbi pazienza, abbi misericordia, aspetta ancora a sradicare il fico. Io lavorerò e farò tutto il possibile perché esso porti frutto”. Attenzione però: il frattempo termina per ciascuno di noi con la morte.

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

il vivere la bellezza è liberare la luce in noi


Il vivere la bellezza è liberare la luce in noi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica di avvento -Anno C

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme (…).

Molte chiese orientali custodiscono sulle pareti un percorso di fede per immagini, alla fine del quale campeggia, o dipinta sulla cupola centrale nel punto più alto, o raffigurata come mosaico dorato a riempire di luce l’abside dietro l’altare, vertice e traguardo dell’itinerario, l’immagine della Trasfigurazione di Gesù sul Tabor, con i tre discepoli a terra, vittime di stupore e di bellezza. Un episodio dove in Gesù, volto alto e puro dell’uomo, è riassunto il cammino del credente: la nostra meta è custodita in una parola che in Occidente non osiamo neppure più pronunciare, e che i mistici e i Padri d’Oriente non temono di chiamare “theosis”, letteralmente “essere come Dio”, la divinizzazione. Qualche poeta osa: Dante inventa un verbo bellissimo “l’indiarsi” dell’uomo, in parallelo all’incarnarsi di Dio; oppure: “io non sono/ancora e mai/ il Cristo/ ma io sono questa/infinita possibilità”. (D.M.Turoldo). Ci è data la possibilità di essere Cristo. Infatti la creazione intera attende la rivelazione dei figli di Dio, attende che la creatura impari a scollinare oltre il proprio io, fino a che Cristo sia tutto in tutti. Salì con loro sopra un monte a pregare. La montagna è il luogo dove arriva il primo raggio di sole e vi indugia l’ultimo. Gesù vi sale per pregare come un mendicante di luce, mendicante di vita. Così noi: il nostro nascere è un “venire alla luce”; il partorire delle donne è un “dare alla luce”, vivere è un albeggiare continuo. Nella luce, che è il primo, il più antico simbolo di Dio. Vivere è la fatica, aspra e gioiosa, di liberare tutta la luce sepolta in noi. Rabbì, che bello essere qui! Facciamo tre capanne. L’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci mostrano chiaramente che la fede per essere visibile e vigorosa, per essere pane e visione nuova delle cose, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un ‘che bello!’ gridato a pieno cuore. È bello per noi stare qui. Esperienza di bellezza e di casa, sentirsi a casa nella luce, che non fa violenza mai, si posa sulle cose e le accarezza, e ne fa emergere il lato più bello. “Tu sei bellezza”, pregava san Francesco, “sei un Dio da godere, da gustare, da stupirsene, da esserne vivi”. È bello stare qui, stare con Te, ed è bello anche stare in questo mondo, in questa umanità malata eppure splendida, barbara e magnifica, nella quale però hai seminato i germi della tua grande bellezza. Questa immagine del Tabor di luce deve restare viva nei tre discepoli, e in tutti noi; viva e pronta per i giorni in cui il volto di Gesù invece di luce gronderà sangue, come allora fu nel Giardino degli Ulivi, come oggi accade nelle infinite croci dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Madre della grande speranza.
(Letture: Genesi 15,5-12.17-18; Salmo 26; Filippesi 3,17-4,1; Luca 9,28b-36)

image_pdfimage_print

la ‘diserzione’ di Tonio dell’Olio

Diserto
di Tonio Dell’Olio
di Mosaico dei giorni
Sì, diserto. Dalla scelta governativa di dire che la guerra è sbagliata e, per questo si combatte la guerra con la guerra.
Diserto dall’accoglienza selettiva di persone che scappano dalla fame della guerra e dalla guerra della fame quasi a indicare che il luogo di provenienza faccia la differenza. Sì, da questo razzismo non dichiarato ma praticato – eccome! – diserto.
Diserto dall’annegamento nelle informazioni di un solo conflitto mentre si condannano al silenzio le guerre dei poveri.
Diserto la dislessia che pare affliggere alcuni cristiani di fronte alle pagine del Vangelo che parlano di amore dei nemici, di spade da rimettere nel fodero e di “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.
Diserto la retorica di certe manifestazioni che scelgono di non disturbare il manovratore, di dire e non dire, di applaudire il Papa scegliendo di fare esattamente il contrario e di essere buoni per tutte le stagioni.
Diserto dall’arruolamento obbligatorio nel partito del realismo presunto che condanna ogni azzardo fuori dal perimetro del perbenismo.
Diserto la logica dell’applauso prima di tutto, del consenso a tutti i costi, del comandamento di non compromettere la carriera.
Diserto, e per questo so di essere condannato con i senzapotere all’infamia delle pecore nere o delle mosche bianche mentre sono gli altri a rinnegare i colori dell’arcobaleno.
image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

Gesù è stato tentato come noi
il commento di E. Bianchi al vangelo della I domenica di Quaresima, anno C
Lc 4,1-13
 

¹Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, ²per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. ³Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; ¹⁰sta scritto infatti:

Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
affinché essi ti custodiscano;

¹¹e anche:

Essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».

¹²Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
¹³Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. 

E’ la prima domenica del tempo di Quaresima, tempo severo ma “favorevole” (2Cor 6,2) per il cristiano: soprattutto, tempo di lotta contro le tentazioni. Per questo la chiesa all’inizio di questo tempo ci offre sempre il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto, tentazioni che secondo Luca saranno sempre presenti nella sua vita, fino alla fine (cf. Lc 23,35-39). Anche Gesù sapeva che sta scritto: “Figlio, se vuoi servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1). 

Gesù era stato immerso nel Giordano dal suo maestro Giovanni il Battista, e durante quell’immersione lo Spirito santo era sceso su di lui dal cielo aperto, mentre la voce del Padre gli diceva: “Tu sei il mio Figlio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22). È stato l’evento che ha cambiato la vita di Gesù, le ha dato una nuova forma, perché da quel momento egli non è più solo il discepolo del Battista, ma è unto come profeta, ripieno dello Spirito. Per questo lascia Giovanni e gli altri membri della comunità e si allontana dal Giordano, inoltrandosi nel deserto di Giuda. Proprio lo Spirito che è sceso su di lui lo spinge a questo ritiro, alla solitudine, per pensare innanzitutto alla missione che lo attende. Lo Spirito lo ha abilitato, lo ha spinto con forza verso questa nuova forma di vita, che vedrà Gesù quale predicatore e profeta, ma egli deve fare opera di discernimento: come attuerà la sua missione? Con quale stile realizzerà la sua vocazione? Come continuerà a essere in ascolto di Dio, il Padre che lo ha generato (cf. Sal 2,7, che secondo alcuni codici costituisce il contenuto della voce del Padre al battesimo)? Come si opporrà a tutto ciò che contraddice la volontà divina? 

Il ritiro nel deserto è dunque necessario: un ritiro di quaranta giorni, lungo, ma con un limite temporale perché in vista di qualcos’altro. Gesù sa che andare nel deserto significa in primo luogo spogliazione di tutto ciò che uno ha; sa che la solitudine è dimenticare ciò che uno è per gli altri; sa che la penuria di cibo è verifica dei propri limiti umani, della propria condizione di fragilità, dunque di mortalità. Ma solo nella radicale nudità l’uomo conosce la verità profonda di se stesso e del mondo in cui è venuto: e in questa spogliazione la prova, la tentazione è necessaria, da essa non si può essere esenti. Già questo passo di Gesù indica come egli avesse alla base della sua scelta l’adesione alla realtà, alla condizione umana. Quel tempo di quaranta giorni – già vissuto da Mosè (cf. Es 24,18; 34,28; Dt 9,9-11.18.25) e da Elia (cf. 1Re 19,8), già sperimentato nei quarant’anni di Israele nel deserto (cf. Nm 14,33-34; 32,13; Dt 2,7; 8,2-4; 29,4), dopo l’uscita in libertà dall’immersione nel mar Rosso – è un tempo di prova che implica fatica, rinuncia, scelta.

Luca esemplifica in numero di tre le tentazioni che in realtà per Gesù devono essere state molte, e con sapienza antropologica le riassume in quelle del mangiare, del possedere, del dominare. Ma mettiamoci in ascolto puntuale del testo. “Gesù non mangiò nulla per quaranta giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: ‘Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane’”. Gesù ha fame, e nel bisogno ecco sorgere la tentazione: sottrarsi alla condizione umana e ricorrere al miracolo, misconoscendo la propria realtà di essere umano. Se sperimento un bisogno impellente, una pulsione forte, quella della fame che morde lo stomaco e provoca le vertigini, come uscirne? Facendo qualsiasi cosa pur di sfuggire al bisogno, si sarebbe tentati di rispondere: una tentazione tanto più forte, quanto più imperioso è il bisogno. Ma Gesù ha digiunato liberamente, non costretto, volendo imparare a dire dei no, a fare una rinuncia. Certamente la tentazione del cibo è unica per Gesù, uomo come noi ma in una vocazione e missione uniche ricevute da Dio, che lo ha appena proclamato suo Figlio amato. Se Gesù può partecipare alla potenza di Dio, perché non ricorrere al miracolo, mutando un sasso del deserto in pane, e così potersi saziare? Con quel miracolo, però, rinuncerebbe a ciò che ha scelto divenendo uomo: spogliarsi degli attributi della sua divinità, condizione che condivideva quale Figlio di Dio, per essere radicalmente in tutto un uomo, un terrestre come ciascuno di noi (cf. Fil 2,6-8). La tentazione è dunque quella di dimenticare l’umanizzazione scelta, di rinunciarvi, e di usare la potenza di Dio per saziare la fame e riempire l’estrema spogliazione. Ma Gesù resiste, perché conosce la parola: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Dt 8,3a). Sì l’uomo non è solo fame di pane, ma anche – come evidenzia il parallelo matteano che cita per intero il passo del Deuteronomio – “di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3b; Mt 4,4). E non si dimentichi: Gesù moltiplicherà il pane per le folle affamate, per gli altri, mai per sé (cf. Lc 9,12-17)! 

Nella seconda tentazione Gesù vede dall’alto tutti i regni della terra, la loro gloria (dóxa), la loro ricchezza, la loro arroganza, la loro scena mondana. Tutta questa ricchezza può essere a sua disposizione, tutto questo potere (exousía) che è dominio sugli umani e sulla terra può essere da lui esercitato, a una sola condizione: che Gesù adori la ricchezza e il potere, personificati dal diavolo. Se Gesù si sottometterà agli idoli della ricchezza e del potere, questi in cambio saranno nelle sue mani, come strumenti per la sua missione, come garanzia di efficacia: egli riuscirà, riuscirà, in “un’inarrestabile ascesa” (Sal 49,19)… Ma anche di fronte a questa pulsione che abita tutti gli umani Gesù sa dire no. È venuto per servire non per dominare (cf. Mc 10,45; Mt 20,28), è venuto nella povertà, non nella ricchezza (cf. 2Cor 8,9). Ciò non solo non faciliterà la sua missione, ma ne segnerà visibilmente il fallimento secondo l’evidenza mondana; Gesù, però, non pensa alla sua missione come a una conquista, a un grande raduno di credenti su cui dominare. Per questo è libero di rispondere, citando ancora la Torà: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” (Dt 6,13). Ma qui il diavolo fa anche una rivelazione: a lui sono stati consegnati il potere e la gloria di questo mondo ed egli li può dare a chi vuole, a una condizione: diventare suoi ministri. Dunque, chi ha potere e gloria mondani, lo sappia o no, è un ministro del diavolo! 

Segue poi la tentazione più alta, per questo l’ultima, la grande tentazione che per pudore non spiego pienamente ma alla quale solo alludo. Non è solo la tentazione di mettere Dio alla prova, forzandogli la mano, ma è anche la tentazione della “nientità”. Dal punto più alto della costruzione religiosa per eccellenza, il tempio, Gesù vede sotto di sé l’abisso, che è anche il nulla, il vuoto, perché la ragione ci dice che nell’abisso non c’è niente, neanche Dio, ma si è abbandonati per sempre, come se non si fosse mai nati: l’abisso dà le vertigini… Cosa deve fare Gesù davanti a questo buco nero? Gettarsi giù, costringendo il Dio che lo ha dichiarato Figlio a fare il miracolo, cioè inviando angeli a salvarlo per impedirgli la caduta, come lo tenta il diavolo citando la Scrittura (cf. Sal 91,11-12)? Oppure accettare la sua situazione, quella di chi vede il fallimento, il vuoto, ma resta fedele a Dio e non lo tenta, non lo provoca (cf. Dt 6,16)? Sì, questa è la tentazione delle tentazioni, già provata da Israele nel deserto quando, di fronte alle difficoltà, alle contraddizioni e all’apparente smentita delle promesse di Dio, si domandava sgomento: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). Ciò avviene anche nei nostri cuori, quando il sentimento del fallimento dell’intera nostra vita ci coglie, ci sorprende e ci confonde, fino a farci dire dentro di noi: “È stato tutto un inganno! Dio non c’era nei nostri inizi, oppure, Dio ci ha abbandonato!”. Questa è la tentazione che vuole contraddire la fede, la fiducia posta in Dio: non bestemmiandolo, non litigando con lui, ma semplicemente negandolo, cioè estromettendolo dal proprio orizzonte e dalla vita. 

Gesù ha subito queste tentazioni in quanto uomo come noi. Non ci ha dato una finzione esemplare, ma ha veramente vissuto questi abissi, imparando così ad aderire alla realtà: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Dopo questa prova del deserto, Gesù ormai sa come svolgere la missione e come portare a termine la sua vocazione, consapevole che lo Spirito santo è con lui e che della forza dello Spirito è ripieno. Questa però non è per Gesù una vittoria definitiva: il diavolo tornerà a tentarlo, “al momento fissato”, cercando sempre di renderlo diviso, in modo che la sua volontà sia in contraddizione con la volontà del Padre. Ma Gesù realizzerà sempre la parola di Dio e sarà sempre vincitore su ogni tentazione! Uguale a noi in tutto, eccetto che nel peccato (cf. Eb 2,17; 4,15): per questo trionferà sulla morte e, quale Risorto, vivrà per sempre quale Signore del mondo.

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi