il commento al vangelo della domenica


amare Dio e il prossimo: un unico amore!
il commento di E. Bianchi al Vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario: anno B
Mc 12,28-34
 

²⁸Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». ²⁹Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; ³⁰amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. ³¹Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». ³²Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; ³³amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». ³⁴Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Uno scriba che ha appena ascoltato la discussione di Gesù con i sadducei a proposito della resurrezione dei morti (cf. Mc 12,18-27) e ha apprezzato la sua sapienza, si avvicina a lui per chiedergli: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Domanda che nasce da un’esigenza assai diffusa nell’ambiente religioso del tempo di Gesù: operare una sintesi dei precetti di Dio presenti nella Torah (613, secondo il Talmud babilonese), così da giungere all’essenziale, a ciò che costituisce l’intenzione profonda del cuore di Dio, della sua offerta di vita e di senso a tutta l’umanità. 

Gesù risponde citando come primo comandamento l’inizio dello Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,4-9) ossia la grande professione di fede nel Signore Dio ripetuta tre volte al giorno dal credente ebreo, centrale in tutta la tradizione rabbinica: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è uno. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,4-5). Questa preghiera rivela che l’ascolto ha un primato assoluto, è la modalità di relazione decisiva dell’uomo nei confronti di Dio: l’ascolto obbediente è il fondamento dell’amore. Anzi, le parole del Deuteronomio riprese da Gesù sembrano addirittura tracciare un movimento che dall’ascolto (“Ascolta, Israele”) conduce alla fede (“Il Signore è il nostro Dio”), dalla fede alla conoscenza (“Il Signore è uno”) e dalla conoscenza all’amore (“Amerai il Signore”)… Al Dio che ci ama di un amore eterno (cf. Ger 31,3), che ci ama per primo gratuitamente (cf. 1Gv 4,19), si risponde con un amore libero e pieno di gratitudine, che si radica nell’ascolto obbediente della sua Parola, fonte della fede. Fidarsi di Dio significa fidarsi del suo amore della sua capacità di amare, del suo essere amore (cf. 1Gv 4,8.16). Questo significa credere in Dio e dunque anche, inseparabilmente, amarlo. 

Qui possiamo e dobbiamo approfondire la nostra meditazione, chiedendoci cosa significhi amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Che amore è mai questo verso un tu invisibile, “tre volte santo” (cf. Is 6,3), cioè altro, distinto da chi ama? Nella tradizione cristiana incontriamo almeno due risposte diverse a tale questione. In Agostino e in una lunga tradizione spirituale dietro a lui, l’amore verso Dio da parte del credente è un amore di desiderio, un sentimento, una dinamica per cui il credente va alla ricerca dell’amore e dunque ama l’amore. Il linguaggio di questo amore è sovente quello presente nel Salterio: 

Io ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia rupe, mia difesa, mio liberatore (Sal 18,2-3).

L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente (Sal 42,3).

La mia anima ha sete di te, a te, mio Dio, anela la mia carne (Sal 63,2). 

Sì, Dio è oggetto di amore da parte dell’essere umano, perché è il “tu” che con il suo amore preveniente desta l’amore del credente come risposta; l’amore per Dio può essere un amore più forte di quello nutrito per se stessi o per qualche altra persona. Si faccia però attenzione: non si tratta di un amore totalitario che esclude altri amori, ma è un amore appassionato, un amore in cui non c’è timore (cf. 1Gv 4,18). In breve, un amore che supera e ri-orienta tutti gli altri amori. 

Ma nella spiritualità cristiana è presente anche un’altra interpretazione dell’amore per Dio. È quella che legge nell’amore per Dio un amore obbediente, nel senso di un amore che nasce dall’ascolto (ob-audire), di un amore che risponde “amen” alla parola del Signore e all’amore stesso del Signore sempre preveniente. È un amore non di desiderio, di ricerca, di nostalgia, ma di adesione; è un amore con cui il credente cerca di realizzare pienamente la volontà di Dio, cerca di vivere come vuole il suo Signore e così mostra di amarlo. Ci sono parole di Gesù anche a questo proposito: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15); “se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). E ancora, nella Prima lettera di Giovanni: “Questo è l’amore di Dio, osservare i suoi comandamenti” (1Gv 5,3). In questa seconda ottica l’accento cade quindi sull’amore del prossimo comandato da Dio: realizzare questo comando, sintesi di tutta la Legge e i Profeti (cf. Rm 13,10; Gal 5,14), significa amare Dio. Dunque amare Dio è innanzitutto amare l’altro come Dio lo ama, perché – come ha chiarito una volta per tutte il discepolo amato – “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). 

È in questo senso che possiamo comprendere la decisiva innovazione compiuta da Gesù, il quale accosta il comandamento dell’amore per Dio a quello dell’amore per il prossimo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). L’innovazione consiste per l’appunto nell’abbinamento di questi due passi della Torah, dato senza paralleli nella letteratura giudaica antica, ripreso invece con frequenza dai successivi scritti cristiani. Basti pensare al brano di un antichissimo scritto cristiano delle origini, la Didaché: “La via della vita è questa: innanzitutto amerai il Dio che ti ha plasmato e poi il prossimo tuo come te stesso; e tutto ciò che non vorresti fosse fatto a te, neppure tu fallo a un altro” (1,2). 

È importante riflettere sulla novità a livello dei contenuti della fede che questo accostamento di passi biblici porta con sé. È indubbio che Gesù stabilisca una precisa gerarchia tra i due precetti, ponendo l’amore per Dio al di sopra di tutto. Nello stesso tempo, però, risalendo alla volontà del Legislatore, egli discerne che amore di Dio e del prossimo sono in stretta connessione tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, non l’uno senza l’altro. Non a caso nella versione di Matteo il secondo comandamento è definito simile al primo (cf. Mt 22,39), mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27). In altre parole, se è vero che ogni essere umano è creato da Dio a sua immagine (cf. Gen 1,26-27), non è possibile pretendere di amare Dio e, contemporaneamente, disprezzare la sua immagine sulla terra: ecco la profonda unificazione del pensare, parlare e agire alla quale Gesù invita. Una comprensione riassuntiva delle sante Scritture porta dunque Gesù – il cui parere è condiviso dal suo interlocutore – ad affermare che l’uomo compiuto, l’uomo “non lontano dal regno di Dio” è colui che, amando Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze sa amare il prossimo come se stesso. E il prossimo è colui al quale ci facciamo prossimi, vicini, come Gesù ha affermato a commento della parabola del samaritano (cf. Lc 10,36-37). 

Nel quarto vangelo, quando dà l’ultimo e definitivo comandamento, che per questo si chiama “il comandamento nuovo”, Gesù compie un ulteriore passo avanti: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12), ossia senza misura, “fino alla fine” (Gv 13,1). In questa ardita sintesi, Gesù non ha neppure esplicitato la richiesta di amare Dio, perché sapeva bene che quando gli umani si amano in verità, quando si amano come lui li ha amati, nel fare questo vivono già l’amore di Dio. Ecco perché l’apostolo Giovanni, che nel prologo del vangelo ha scritto: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito lo ha raccontato” (Gv 1,18), è lo stesso che nella sua Prima lettera afferma: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma se ci amiamo gli uni gli altri Dio dimora in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza” (1Gv 4,12). Amando gli altri noi amiamo anche Dio e ne abbiamo una conoscenza autentica, mentre chi dice di credere in Dio senza amare i fratelli è un illuso e un bugiardo (cf. 1Gv 4,20-21)! 

Gesù ha vissuto la sua intera esistenza come capolavoro d’amore e in questo ha compiuto pienamente la volontà di Dio, è stato “l’uomo secondo il cuore di Dio”. Così facendo ha tracciato una via ben precisa per chi vuole seguirlo, semplificando all’estremo il cammino per andare a Dio: il comandamento che deve orientare la vita del cristiano è quello dell’amore per tutti, fino ai nemici (cf. Mt 5,44). Sì, l’amore concreto e quotidiano per i fratelli e le sorelle è il segno da cui si riconoscono i discepoli di Gesù Cristo, i cristiani, come ha indicato una volta per tutte Gesù stesso: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

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il commento al vangelo della domenica

siamo tutti mendicanti di amore e di luce


Siamo tutti mendicanti di amore e di luce
il commento di E. Ronchi al vangelo dell trentesima domenica del tempo ordinario:

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». (…) E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato» (…).

Vangeli di strade e di incontri, in queste settimane. «Mentre partiva da Gerico…». Siamo alle porte della città, dove le carovane dei pellegrini si ricompongono, dove si aggirano i mendicanti, sperando in una monetina tra i tanti che si danno appuntamento alle porte. Un cieco, seduto, a terra, immobile, sta lì a mendicare la sua sopravvivenza da chi passa. Ma ecco che «sentendo che era Gesù il Nazareno» Bartimeo è come investito da un brivido, da una scossa: alza la testa, si rianima, comincia a gridare il suo dolore. Non si vergogna di essere il più povero di tutti, anzi è la sua forza. Siamo tutti come lui, mendicanti di affetto o di amore o di luce. La mendicanza è la sorgente della preghiera: Kyrie eleison, grida. Tra tutte, la preghiera più cristiana ed evangelica, la più antica e la più umana. Che nelle nostre liturgie abbiamo confinato all’atto penitenziale, mentre è la richiesta di nascere di nuovo. La ripetono lebbrosi, donne, ciechi e non è richiesta di perdono per i peccati, ma di luce per gli occhi spenti, di una pelle nuova che riceva carezze ancora.
Come un bambino che grida alla madre lontana, chiedono a Dio: mostrati padre, sentiti madre di questo figlio naufrago, fammi nascere di nuovo, ridammi alla luce! Bartimeo cerca un Dio che si intrecci con la sua vita a pezzi, con i suoi stracci. Ma la folla attorno fa muro al suo grido: taci! disturbi! Terribile pensare che la sofferenza possa disturbare. Disturbare Dio! Bartimeo allora fa l’unica cosa che si può fare in questi casi: grida più forte. È il suo combattimento, con le tenebre e con la folla.
Il Nazareno ascolta il grido e risponde in un modo tutto nuovo: coinvolge la folla che prima voleva zittire il mendicante, si fida della folla, anche se è così facile a cambiare di umore: chiamatelo! E la folla va, portavoce di Cristo, e si rivolge al cieco con parole bellissime, da brivido, dove è custodito il cuore dell’annuncio evangelico. Parole facili e che vanno diritte al cuore, da imparare, da ripetere, sempre, a tutti: «Coraggio, alzati, ti chiama». Coraggio, la virtù degli inizi. Alzati, dipende da te, lo puoi fare, riprendi in mano la tua vita. Ti chiama, è qui per te, non sei solo, il cielo non è muto. Ed ecco che si libera l’energia compressa, e fioriscono gesti quasi eccessivi: non parla, grida; non si toglie il mantello, lo getta; non si alza da terra, ma balza in piedi. Guarisce in quella voce che lo accarezza, lo chiama e diventa la strada su cui cammina. Noi, che siamo al tempo stesso mendicanti e folla, nelle nostre Gerico, lungo le nostre strade, ad ogni persona a terra, portiamo in dono, senza stancarci mai, queste tre parole generanti: «Coraggio, alzati, ti chiama».
(Letture: Geremia 31, 7-9; Salmo125; Lettera agli Ebrei 5, 1-6; Marco 10, 46-52).

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il commento al vangelo della domenica

 così Gesù ci spiazza

‘sono venuto per servire’


Così Gesù ci spiazza: sono venuto per servire
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della XXIX domenica tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».[…]

Tra voi non è così! Bellissima espressione che mette a fuoco la differenza cristiana. Gli altri dominano, non così tra voi. Voi vi metterete a fianco delle persone, o ai loro piedi, e non al di sopra. Gli altri opprimono. Voi invece solleverete le persone, le tirerete su per un’altra luce, altro sole, altro respiro. La storia gloriosa di ciascuno non è scritta da chi ha avuto la capacità di dominarci, ma da chi ha avuto l’arte di amarci: gloria della vita. Sono venuto per dare la mia vita in riscatto per la moltitudine… Gesù riscatta l’umano, ridipinge l’icona di cosa sia la persona, cosa sia vita e cosa no, tira fuori un tesoro di luce, di sole, di bellezza da ciascuno. Libera il volto nuovo dell’umanità, riscatta l’umano dagli artigli del disumano; riscatta il cuore dell’uomo dal potere mortifero della indifferenza. Gesù è il guaritore del peccato del mondo, che ha un solo nome: disamore. Giacomo e Giovanni, i “figli del tuono”, gli avevano chiesto, con quel tono da bambini: Vogliamo che tu ci faccia quello che vogliamo noi… Gli altri apostoli si indignano, lo fanno per rivalità, per gelosia, perché i due fratelli hanno tentato di manipolare la comunità. Ma Gesù non li segue, va avanti, salva la domanda dei due e anche l’indignazione degli altri: Li chiama a sé, nell’intimità, cuore a cuore, e spiega, argomenta. Perché dietro ad ogni desiderio umano, anche i più storti, c’è sempre una matrice buona, un desiderio di vita, di bellezza, di armonia. Ogni desiderio umano ha sempre dietro una parte sana, piccolissima magari. Ma quella è la parte da non perdere. Gli uomini non sono cattivi, sono fragili e si sbagliano facilmente. «Anche il peccato è spesso un modo sbagliato per cercarti» (D. M. Turoldo). L’ultima frase del Vangelo è di capitale importanza: Sono venuto per servire. La più spiazzante autodefinizione di Gesù. La più rivoluzionaria e contromano. Ma che illumina di colpo il cuore di Dio, il senso della vita di Cristo, e quindi della vita di ogni uomo e ogni donna. Un Dio che, mentre nel nostro immaginario è onnipotente, nella sua rivelazione è servo. Da onnipotente a servo. Novità assoluta. Perché Dio ci ha creati? Molti ricordiamo la risposta del catechismo: Per conoscere, amare e servire Dio in questa vita, e goderlo nell’altra. Gesù capovolge la prospettiva, le dà una bellezza e una profondità che stordiscono: siamo stati creati per essere amati e serviti da Dio, qui e per sempre. Dio esiste per te, per amarti e servirti, dare per te la sua vita, per essere sorpreso da noi, da questi imprevedibili, liberi, splendidi, creativi e fragili figli. Dio considera ogni figlio più importanti di se stesso.
(Letture: Isaia 53,10-11; Salmo 32; Lettera agli Ebrei 4,14-16; Marco 10,35-45)

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una società diversa – un sogno impossibile? la marcia della pace Perugia-Assisi

“I care”
in marcia per una società della cura
domenica 10 ottobre , la bella marcia della pace Perugia-Assisi in edizione covid19, molto partecipata con l’attenzione ad evitare  assembramenti troppo stretti
una ricostruzione di Mario Di Vito
in “il manifesto” del 12 ottobre 2021
Il cielo incerto e il primo vero freddo della stagione non fanno troppa paura. In ventimila, da tutta
l’Italia, hanno percorso i 24 chilometri che separano Perugia da Assisi per la sessantesima edizione
della Marcia per la Pace. In testa lo striscione con scritto «I care», con un occhio alla pandemia e un
altro alla volontà esplicita dei partecipanti di prendersi cura del mondo.
«C’è bisogno della cultura della responsabilità e della cura reciproca – scandiscono gli
organizzatori –, cura delle giovani generazioni, della scuola, dell’educazione, degli altri, del pianeta,
dei bene comuni, della comunità e delle città». Un impegno che non riguarda soltanto quest’annata,
ma che, nelle intenzioni, dovrà segnare tutto il prossimo decennio: «Cura è il nuovo nome
della pace», come da frase di don Lorenzo Milani.
Un messaggio ribadito anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha inviato un
messaggio ai manifestanti: «I valori che ispirano e la partecipazione che continua a suscitare la
Marcia sono risorse preziose in questo nostro tempo di cambiamenti, ma anche di responsabilità.
Questa edizione si svolge a sessanta anni dalla prima marcia promossa da Aldo
Capitini, quell’originaria, esigente aspirazione alla pace e alla non violenza ha messo
radici profonde nella coscienza e nella cultura delle nostre comunità.
La pace non soltanto è possibile. Ma è un dovere per tutti». Tra i volti, oltre alla presenza
istituzionale del sindaco di Perugia Andrea Romizi e
della governatrice umbra Donatella Tesei, da segnalare Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace
condannato la settimana scorsa a tredici anni per aver cercato di offrire ai migranti un futuro
migliore e un’accoglienza degna in questo paese.
«Sono qui – spiega un Lucano visibilmente provato dagli eventi – perché non ho altri riferimenti per
trovare entusiasmo e continuare. Non mi importa, alla fine penso che è quasi naturale pagare gli
effetti collaterali di quello che ho fatto, senza dire luoghi comuni o costruire alibi. Quando ho
cominciato ad interessarmi alle politiche di accoglienza è stato per una casualità e mai avrei
immaginato che la normalità sarebbe diventata un fatto così eclatante.
Per me, non ci può essere pace senza diritti umani, senza uguaglianza e senza rispetto della vita. La
Marcia della pace significa trovare la pace».
Applausi di tutto il corteo per lo striscione della Cgil, in solidarietà per il terrificante assalto subito
ieri da parte di un gruppo di militanti fascisti in libera uscita per le strade di Roma durante la
manifestazione dei «no green pass».
I militanti del sindacato hanno anche apprezzato le non scontate parole di vicinanza espresse dal
palco da Romizi e Tesei, esponenti della destra umbra. Il sindaco di Perugia ha anche voluto
esprimere «un pensiero affettuoso all’imam Abdel Qader, nostro concittadino e amico, uomo di
pace e di dialogo che saliva sempre con noi su questo palco e che oggi non c’è più a causa delle
conseguenze del Covid».
Tra il folto gruppo di stendardi istituzionali, si fa notare la sindaca di Assisi Stefania Proietti.
«Siamo in migliaia a gridare basta alla violenza e all’indifferenza – dice –, oggi più di ieri è urgente
non solo invocare la pace ma anche farla con azione concrete. Oggi più di ieri bisogna prendersi
cura degli altri e mettere al centro la vita, la persona, la dignità».
Nella folla in marcia si vedono padre Alex Zanotelli, don Luigi Ciotti, Cecilia Strada, Aboubakar
Soumahoro, la moglie dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso lo scorso febbraio in Congo
Zadia Seddiki, i genitori del reporter Andy Rocchelli Elisa e Rino Signori.
Il resto è militanza diffusa, cattolici di base, striscioni, bandiere, migliaia di persone partite da ogni
angolo d’Italia per per poter dire di esserci, per affermare di combattere ogni giorno per la pace,
l’uguaglianza e la solidarietà. Per cercare di fare del mondo un posto migliore. 
nel grandioso quadro della multicolore partecipazione e dei messaggi inneggianti alla ‘convivialità delle differenze’ un bell’angolino rappresentato da alcune ragazzine rom del campo di Coltano (Pisa) orgogliosamente ed entusiasticamente presenti con la loro bandiera e il loro striscione con la ruota rappresentante il senso della vita come viaggio; con loro p. Agostino che da sempre condivide amichevolmente la loro vita nel campo
qui sotto la descrizione del loro viaggio vissuto con entusiasmo

la marcia della pace Perugia-Assisi  di Violza- Fatima- Adem- Yasin e il diario del viaggio scritto da due di loro, ‘scritto con semplicità’

Alle 4 del mattino siamo in partenza per Perugia , assonnati e freddolosi, iniziamo il viaggio. Di per sé la marcia noi  l’abbiamo iniziata due giorni fa, quando insieme abbiamo deciso di partecipare con entusiasmo e abbiamo voluto preparare un NOSTRO striscione. Ci dispiace per Laura che all’ultimo momento non ha VOLUTO venire, perdendo il suo entusiasmo. Sono le 6:20 e Agostino si è fermato a prendere un caffè, perché dorme ancora, invece noi siamo ancora assonnati. Abbiamo preparato uno striscione a modo nostro, la frase che abbiamo creato è :

NOI ROM VIVIAMO LA PACE CON IL CUORE E CON I PIEDI

è uno striscione bello e colorato perché è fatto con le nostri mani e la nostra fantasia.

Sono le 7,40 e siamo arrivati a Ponte San Giovanni. Qui aspettiamo l’arrivo della marcia prevista tra un’ora circa, approfittiamo per fare colazione e riposarci, c’è chi dorme,  chi mangia patatine e chi va al bagno. Attendiamo con ansia l’arrivo del Corteo della Pace, partito da Perugia. La giornata sembra bella con un po’ di nuvole ma non piove. Mentre attendiamo l’arrivo del Corteo, lì sul posto c’è tanta gente in attesa dell’arrivo del Corteo. Decidiamo di aprire il nostro striscione e di sventolare le due bandiere dei ROM e quella della Pace. Tante persone ci hanno chiesto che bandire fossero, quelle che tenevamo in mano, perché non la conoscevano. Noi abbiamo spiegato il significato della nostra bandiera: i due colori, l’azzurro e il verde e la ruota. Tutti sono rimasti sorpresi della nostra spiegazione è hanno apprezzato molto le nostre parole. Incuriositi molti ci hanno chiesto se eravamo ROM e da dove veniamo. Anche durante la marcia tante persone hanno chiesto la stessa cose. Ovviamente non sono mancati gli apprezzamenti per il nostro striscione e la nostra presenza in questo corteo.

Come ci sono piaciute anche le tantissime fotografie che la gente ci chiedeva, come segno di simpatia e gratitudine. In questa marcia abbiamo conosciuto Gualtiero un amico di vecchia data di Agostino, che  ha voluto restare con noi fino alla fine e con la sua presenza ci ha espresso la sua simpatia. Partecipando a questa marcia noi ci siamo divertiti tanto, nonostante la stanchezza, la pesantezza delle nostre gambe, ma è stato bello camminare insieme a così tanta gente per manifestare anche noi la volontà di un mondo più pacifico. Per noi è stata la prima volta fare una iniziativa insieme a così tanta gente che venivano da tanti posti diversi. Durante il viaggio di ritorno, noi ci siamo chiesti come mai la gente non conosceva la nostra bandiera. È vero, purtroppo la maggioranza degli italiani ci conoscono solo per gli aspetti negativi, perché invece a loro manca una conoscenza più VERA DELLA NOSTRA VITA: se non conosco la nostra bandiera, come fanno a conoscere la nostra storia, la nostra vita? Noi siamo contenti di aver partecipato, perché così abbiamo potuto farci conoscere, infatti molta gente si è sorpresa che anche noi rom siamo venuti a manifestare per la Pace.

Dobbiamo dire la verità, ci siamo fermati a Santa Maria degli Angeli, a 5 chilometri da Assisi, eravamo molto stanchi e i nostri piedi non c’è la facevano ad andare avanti. Rimane il desiderio per una prossima marcia di arrivare fino alla città di San Francesco. Dopo esserci riposati verso le ore 15 abbiamo preso il treno per ritornare a Ponte San Giovanni, per prendere il nostro camper, durate il viaggio di ritorno la stanchezza si è fatta sentire e abbiamo approfittato di riposarci. Questa è la storia della nostra marcia Perugia- Assisi. Alle 19,30 siamo arrivati al campo di Coltano, dove le nostre famiglie ci aspettavo con ansia e curiosità.

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il commento al vangelo della domenica

sarai felice se renderai felice qualcuno


Sarai felice se renderai felice qualcuno
il commento di E. Ronchi al vangelo della  XXVIII Domenica del  Tempo ordinario,  Anno B


In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: (…) «Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”» (…).

«Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri». (...)

Gesù è sulla strada, il luogo che più amava: la strada, che è di tutti, collega i lontani, è libera e aperta, una breccia nelle mura, ama gli orizzonti. Ed ecco un tale, uno senza nome ma ricco (la sua identità rubata dal denaro) gli corre incontro. Corre, come uno che ha fretta, fretta di vivere, di vivere davvero. L’uomo senza nome sta per affrontare un grande rischio: interroga Gesù per sapere la verità su se stesso. «Maestro buono, è vita o no la mia? Cosa devo fare per essere vivo davvero?». Domanda eterna. Universale.
Gesù risponde elencando cinque comandamenti e un precetto. «Maestro, tutto questo io l’ho già fatto, da sempre. Eppure…. Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. Lo amò per quel “eppure”, che racconta fame e sete d’altro: osservare la legge non ha riempito la vita.

Gesù lo fissa. Quell’uomo fa una esperienza da brividi, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso è preso dall’incantamento, dal fascino del Signore, non resiste…

Invece la conclusione cammina nella direzione che non ti aspetti: «Una cosa ti manca, va’, vendi, dona ai poveri…». Dona. Sarai felice se farai felice qualcuno. Tu non sei ciò che hai, ma ciò che dai.

Dare: verbo pauroso. Noi vogliamo prendere, trattenere, accumulare. Dare ai poveri… Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare. Ma l’uomo ricco se ne va triste. Noi tutti abbiamo due vite in guerra tra loro: una è fatta di cose e di quotidiano e la seconda si nutre di richiami e appelli, di vocazione e sogno.

L’uomo ricco cammina triste: hanno vinto le cose e il denaro; non seguirà più la vita come appello, ma solo la vita come esistenza ordinaria, ostaggio delle cose.

Per tre volte oggi si dice che Gesù “guardò”: con amore, con preoccupazione, con incoraggiamento. La fede altro non è che la mia risposta al corteggiamento di Dio, un’avventura che nasce da un incontro, quando Dio entra in te e io gli do tempo e cuore.
Ecco allora una delle parole più belle di Gesù: tutto è possibile presso Dio. Egli è capace di far passare un cammello per la cruna di un ago. Dio ha la passione dell’impossibile. Dieci cammelli passeranno.

Don Milani sul letto di morte lo ha capito: adesso finalmente vedo il cammello passare per la cruna dell’ago. Era lui, il cammello, lui di famiglia ricca e potente, che passava per la cruna della piccolezza.

Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio cento fratelli e un cuore moltiplicato.

«Con gli occhi nel sole
a ogni alba io so
che rinunciare per te
è uguale a fiorire» (M. Marcolini).
(Letture: Sapienza 7,7-11; Salmo 89; Lettera agli ebrei 4, 12-13; Marco 10, 17-30).

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il modello teologico post-teista per una teologia per i nostri tempi?

 

Per un cristianesimo post-teista

per un cristianesimo post-teista

 da: Adista Documenti n° 35 del 09/10/2021

 

Il modello post-teista: una nuova speranza transreligiosa e planetaria

il modello post-teista

una nuova speranza transreligiosa e planetaria

 da: Adista Documenti n° 35 del 09/10/2021

 Non è solo in Italia che ci si interroga sul post-teismo. Il dibattito sul necessario cambiamento di paradigma nell’interpretazione del messaggio cristiano attraversa molti altri Paesi, dalla Spagna alla Francia, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Argentina al Cile. Ed è proprio per un confronto tra realtà anche geograficamente diverse che alcuni dei protagonisti di questo cammino di ricerca, José ArregiJosé María Vigil Santiago Villamayor (tre degli autori del libro Oltre Dio edito da Gabrielli), più lo statunitense Tony Brun e il cileno Gerardo González, hanno organizzato il 19 settembre scorso, su Zoom, un’ampia consultazione dal titolo “Un altro Dio e un altro cristianesimo sono possibili” (questo il link del video, in spagnolo e senza sottotitoli: https://www.academia.edu/video/jYrYX1). Un incontro a cui hanno partecipando oltre 100 persone, esprimendo dubbi, avanzando proposte, suggerendo correzioni e, anche, rivelando il proprio entusiasmo verso il nuovo paradigma post-teista, sulla base di una profonda convinzione: che di fronte alla scelta tra un profondo rinnovamento, l’adeguamento alla cultura dominante o l’arroccamento sulle posizioni tradizionali, è la prima alternativa quella su cui vale la pena scommettere, con tutto ciò che comporta anche rispetto all’immagine di Dio. E come contributo alla riflessione, centrata su tre interrogativi – qual è la nostra attuale situazione nel passaggio post-religionale; come favorire la sostituzione del paradigma religioso pre-moderno; quali elementi hanno bisogno di una maggiore maturazione – gli autori hanno preparato un testo base sul modello post-teista, proposto come «uno spazio comune per tutti i movimenti e i progetti per un altro mondo possibile». «L’umanità e il pianeta – si legge nel testo di convocazione dell’incontro – gemono nei dolori del parto aspirando alla giustizia universale, al benessere e alla felicità di tutti gli esseri viventi, a cominciare dai più vulnerabili. È un sentire universale e una dinamica che riteniamo propria anche della sapienza di Gesù di Nazaret».  

 

Qui, in  traduzione dallo spagnolo, il testo base della consultazione, scritto «in memoria di Roger Lenaers» (v. Adista News 7/8/21; la notizia della scomparsa di John Shelby Spong sarebbe arrivata solo dopo, v. Adista Notizie n. 33/21).  

Introduzione   

Molti/e cristiani/e sono oggi a disagio con i contenuti della loro fede. Sentono di richiamarsi a una cosmovisione pre-moderna ormai superata, verso cui provano una crescente disaffezione. Anche in altre tradizioni religiose o umaniste e in generale nella cultura di molti Paesi si produce un fenomeno simile. E così ci troviamo di fronte a un’umanità smarrita in transito verso nuove interpretazioni della realtà e un’unitaria speranza planetaria, post-secolare e post-teista.  

Tale smarrimento si deve in primo luogo ai nuovi modelli epistemologici, pluralisti e relativisti che mettono in discussione l’esistenza di una verità assoluta; ammettono molteplici linguaggi e procedimenti, che siano empirici, inclusivi o simbolici, ma in ogni caso dialogici e autocritici; sono distanti dal dogmatismo e dalla soggettività derivati dall’autorità e da presunte rivelazioni.  

Tali nuovi modelli pongono la religione nella necessità di rivedere i propri presupposti epistemologici e le proprie figure simboliche. Ma ciò non avviene in maniera sufficiente. Da questi nuovi modelli epistemologici deriva un’ontologia nuova. Una interpretazione della realtà come un tutto complesso e unitario di materia, energia, vita e coscienza, basata su una visione non dualista, olistica, in cui la “materia dinamica” autoconfiguratrice è fonte di successive proprietà emergenti qualitative, matrice che genera tutto l’esistente. Un’interpretazione che si oppone al dualismo materia-spirito e costituisce un grave colpo all’immagine tradizionale del Dio creatore, spirito puro, onnipotente e provvidente.  

Le religioni sono costruzioni sociali e così come sono state costruite si possono decostruire. Non sono creazioni eterne e inamovibili di un Dio ente supremo ed esterno al mondo. E così, in relazione al cristianesimo, ci sembra che la Bibbia non sia più il principio e fondamento della storia, la narrazione per antonomasia, tanto meno esclusiva. Il Mistero della Salvezza è una grande metafora e la Storia Sacra un racconto particolare contraddetto dalla scienza. La Rivelazione come verità primaria e superiore non è sostenibile. Non c’è un Dio precedente e separato dal mondo né uno spirito puro al di fuori della realtà creatrice, né un Figlio di Dio venuto a redimerci dalla morte e dal male, frutti di un peccato ereditario.  

Un altro cristianesimo è possibile e necessario. Si deve liberare la divinità dalla sua identificazione con un Ente Supremo dominante, Gesù dalla sua sacralizzazione come unigenito Figlio di Dio, incarnato in un ebreo della specie Homo Sapiens, e la Chiesa dal sistema cognitivo obsoleto che la tiene prigioniera e dalla sua struttura gerarchica derivata in gran par te dall’immagine di un Dio unico e onnipotente. È necessario convergere in una pratica laica di liberazione centrata sui diritti umani e la giustizia ecologica e ispirata a Gesù di Nazaret ed eventualmente ad altri cammini profetici e spirituali. Costruire un racconto universale che, partendo da modelli scientifici come la teoria della Grande Storia, incorpori l’ispirazione e lo spirito delle metafore e dei simboli religiosi; un racconto che sia al tempo stesso universale, particolare e provvisorio.  

In molte città dell’Europa, dell’America Latina, degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e di altri Paesi sono sorti gruppi dal grande potenziale rinnovatore, i quali avvertono questo cambiamento di paradigma come un terremoto devastante che provoca prima sconcerto, poi sollievo e infine una rinascita spirituale. Ci piacerebbe camminare con voi in tale passaggio e per questo vi invitiamo a questa ampia consultazione.  

1. La tarda modernità, post-religionale e post-secolare  

Il mondo sta sperimentando una mutazione di grande portata, una metamorfosi globale; ci troviamo nell’occhio dell’uragano di un nuovo tempo assiale simile a quello del VI secolo prima della nostra era. Le idee, i costumi, le relazioni, la geopolitica, la tecnoscienza, ecc., configurano un contesto assai diverso da quello derivato dalle coinvinzioni più profonde del cristianesimo. L’immagine tradizionale predominante di Dio è cambiata e la sua esistenza è già da anni messa in discussione in maniera generalizzata; la scienza sostituisce le grandi risposte religiose; le questioni del male e della morte, dell’origine e della fine della vita vengono vissute in modo non mitologico e l’anelito comune è orientato generalmente verso la liberazione, l’autonomia e un benessere integrale e universale qui sulla terra. La religione, allora, perde il suo humus ed entra in competizione con altri progetti assiologici che le tolgono terreno. Senza contare, nel caso del cristianesimo, che il pluralismo e la globalizzazione lo rendono una religione tra le tante.  

Le posizioni conservatrici in politica e nella morale favoriscono l’esaurimento dei contenuti religiosi, ridotti a qualcosa di magico, obsoleto e contrario alla liberazione, e trovano nel vecchio cristianesimo la legittimazione del proprio modello oppressore di società e di persona. Sembra infine annunciarsi una nuova specie umana frutto dell’info-bio-tecnologia, esseri umani modificati geneticamente o roboticamente (transumanesimo) o nuovi esseri post-umani.  

L’esperienza religiosa “tremenda e affascinante” di altri tempi, costruita sullo sdoppiamento del mondo, cede oggi il testimone a una trascendenza più laica basata sulla venerazione, sull’amore e sull’impegno per la liberazione universale. Ciò che in altri tempi abbiamo chiamato “soprannaturale” non è tale, ma identificato oggi con l’atteggiamento di gratuità legato alla profondità umana.  

2. Il nuovo paradigma epistemologico  

La concezione della verità è cambiata. Le teorie epistemologiche attuali, assumendo la complessità e la prospettiva costruttivista della conoscenza, sono più aperte e meno pretenziose che nei secoli passati. Dal positivismo estremo si è passati a una concezione empirica più soft.  

Per i più recenti epistemologi non c’è bisogno che gli enunciati scientifici siano strettamente verificabili o confermati da esperimenti: basta che siano plausibili, che possano essere sottoposti al principio di falsificabilità. La conoscenza avanza negando l’errore più che affermando la certezza e sostituendo i paradigmi che non spiegano convenientemente i fatti.  

Tale evoluzione epistemologica nell’ambito della conoscenza considerata strettamente scientifica, il metodo positivo matematico-verificazionista, ci può servire da base per l’analisi del cambiamento religioso che oggi si sperimenta. È venuta meno la concezione della credenza dogmatica a favore di un’interpretazione più in termini di racconto, di simbolo o metafora. Le scienze umane e sociali (psicologia, sociologia, storia…), per essere rigorose, si servono di metodi scientifici o perlomeno non devono contrapporsi ai dati scientifici. Neppure la filosofia può ignorare o contraddire i risultati delle scienze. E le spiritualità o religioni tengono fortemente conto del proprio carattere di costruzione sociale e simbolica con funzioni meno esplicative e più comportamentali. Le manifestazioni umane simboliche (di carattere etico, estetico, sapienziale…), purché in linea con i dati scientifici, sono riconosciute come vie di accesso a una conoscenza reale, per quanto non possano essere sottoposte ai criteri di verificabilità-falsificabilità delle scienze positive.  

Ben al di là di una mera somma di discipline, la transdisciplinarietà, o scambio tra équipe, metodi e programmi di ricerca, offre una visione più completa della complessità del reale. La religione e il cristianesimo vogliono sentirsi parte di questo sforzo transdisciplinare. Hanno scoperto il grande errore di confondere la metafora con la descrizione realista, l’ispirazione con la norma. E accettano di assumere le nuove teorie dell’evoluzione, della genetica, della relatività e della meccanica quantistica, delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale. È ormai impossibile – oltre che chiaramente assurdo – pensare a idee permanenti, a dogmi immutabili e indiscutibili, a una morale irriformabile, a verità divinamente rivelate, a istituzioni infallibili. Il riduzionismo scientifico e il fondamentalismo religioso si stemperano e convergono.  

Scienza e fede  

Se prima, in senso figurato, “la fede aveva sempre ragione”, ora è la scienza a stabilire il criterio della minima verità comune. È oggi la ragione aperta la matrice dell’ispirazione credente. La conoscenza non emana dalla «Parola di Dio», né è assolutamente certa. Prima la scienza era accettabile nella misura in cui concordava con quella Parola rivelata. Ora lo schema si è in qualche modo invertito.  

La Bibbia – come ogni testo ispiratore – ci offre significato e speranza, in quanto racconto simbolico- poetico, ma deve essere intesa in linea con l’informazione scientifica. Scienza e fede sono linguaggi diversi: la scienza può arricchirsi con la fede, ma la fede non può essere in contraddizione con la scienza. La Bibbia non è il principio e il fondamento della comprensione della realtà, della morale e dell’organizzazione sociale o politica. Neppure può essere la fonte unica della spiritualità. Diciamo piuttosto che la Bibbia non ha ragione, ha anima. Dietro la smitizzazione di Rudolf Bultmann, il riconoscimento dei generi letterari e le ricerche archeologiche, intendiamo la Bibbia non tanto come un libro sacro e definitivo, normativo e rivelatore, Parola di Dio e verità assoluta, quanto piuttosto come un insieme di miti e storie con una funzione sapienziale, spirituale e socio-politica. Oggi vengono scritti racconti e poesie di uguale densità, sublimità e finalità.  

Tutte le religioni, pur assai diverse nelle forme, svolgono funzioni equivalenti e camminano verso una sovraetica della compassione. Il loro valore non può più derivare dalla forza della loro presunta ispirazione divina bensì dalla loro risposta alle necessità e ai diritti dell’essere umano. Con Kant potremmo dire: Credi e agisci in maniera tale che la tua fede possa essere considerata valida da tutta l’umanità.  

3. La nuova concezione della realtà  

Ci sembra più coerente e solida un’interpretazione non-dualista della realtà; aperta, olistica, emergente e creativa, in cui il caso e la necessità si coniugano senza necessità di un piano prestabilito, ma rivelando grande complessità, bellezza e ordine malgrado tanti fallimenti e involuzioni. Non crediamo che possano esserci cose o esseri spirituali sprovvisti di una qualsiasi forma o supporto. Angeli e demoni, oggetti sacri, santi, miracoli, considerati come esistenze indipendenti o interventi divini, sono costruzioni della nostra mente. Capacità come quelle di ragionare, amare, godere della bellezza e dare valore alla giustizia, che nella cosmovisione tradizionale eravamo soliti definire frutti dello spirito umano, sono qualità emerse dalla realtà materiale o energetica cosmica nel processo  evolutivo.  

Proprietà emergenti e materia creativa  Il cosmo è un grande sistema con “proprietà emergenti” (proprietà che dipendono dal comportamento del sistema e che non possono essere spiegate dagli elementi che lo compongono, ndt). La vita e la coscienza emergono da un processo di auto-organizzazione a partire dalla materia o energia primordiale. Tutto è costituito da una materia dinamica e creativa da cui sorgono successivamente molteplici “proprietà emergenti”. In ultima istanza non ci sono confini definiti tra la sfera fisica, quella vivente e quella mentale.  

La materia è qualcosa di primordiale che evolve continuamente, e non la cosa statica, senza vita e sterile che risulta da una percezione superficiale. Non intendiamo più la materia come qualcosa di passivo, inerte, agli antipodi dello spirito; più che una massa è attività, energia, movimento. Il dualismo materia- spirito falsifica la realtà. La realtà è in ultimo termine inaccessibile alla nostra conoscenza e si presenta come qualcosa di aperto ed enigmatico. L’indeterminazione della materia e il nuovo concetto di legge fisica come espressione di tendenze probabili impediscono un’immagine integrale, oggettiva ed esatta del mondo e una concezione realista della conoscenza.  

4. Il racconto di Gesù di Nazareth

Gesù di Nazareth è una persona come noi, non l’essere perfetto, né il redentore, con il suo sangue, di un peccato mitico ed ereditario. La sua interpretazione come il Cristo ha ammantato di esclusività il suo messaggio e ne ha forzato l’imposizione. Quello di Gesù di Nazaret è un racconto ispiratore, una storia incompleta e una costruzione religiosa simbolica, aperta, oltre il molteplice mito creato dalle discepole e dai discepoli delle prime generazioni a partire dalla sua venerazione come Profeta degli ultimi tempi, Figlio di Dio o Messia sofferente esaltato da Dio, Sapienza o Logos di Dio incarnato. È a partire da questo mito che alcuni tentarono di ricostruire la sua storia, “vita e miracoli”, e altri costruirono un immenso edificio razionale sulla base di questa “filiazione divina”. Ma il dato originario è il racconto di fede dei discepoli e delle discepole della seconda generazione, il “Gesù della fede”. Il Cristo della Chiesa, il dogma cristologico, è una costruzione dottrinale, la quale, secondo i tempi e le epoche, ha potuto comunque veicolare l’ispirazione di “santità” o dedizione suscitata da Gesù.  

Il titolo “Figlio di Dio” è un’espressione simbolica propria dell’epoca che non possiamo più interpretare letteralmente. Il punto decisivo non è tanto quello che si racconta che abbia detto e fatto Gesù, se sia stato il Messia (“Cristo”) definitivo e atteso, quanto il senso di elevazione e di gratuità che suscita in noi, ciò che avviene nella memoria e nell’interiorità quando ci si imbatte nelle cose ultime. La cosiddetta “divinità di Gesù” non è un tratto oggettivo della sua persona. La intendiamo come metafora della sua umanità radicale ed espressione dell’adesione vitale che ci ispira quando ci lasciamo toccare dalla sua sapienza. Il messaggio liberatore e gli atti carismatici di Gesù hanno dato vita a un “movimento” che lo ha riconosciuto come profeta e martire esaltato da Dio, costituito come Messia o Figlio del Dio che verrà. Nelle chiese di cultura greca, questa confessione giudaico-cristiana si è trasformata nella confessione della filiazione ontologica, dualista, ed è in questa chiave che si sarebbero elaborati più tardi i dogmi cristologici. Ma questo linguaggio e questi significati risultano estranei alla filosofia, alla cosmovisione scientifica e alla cultura comune di oggi.  

5. Il post-teismo  

Un passaggio decisivo della nostra decostruzione/ricostruzione è il non-teismo, o post-teismo: il superamento del teismo, ossia smettere di pensare, immaginare, credere in un Ente Supremo, Dio creatore e Causa esterna del mondo; un Ente “anteriore” o almeno distinto da questo, immagine ancora in vigore tra i credenti in generale, tra la maggioranza dei teologi e nella dottrina ufficiale cristiana. Tale visione non risulta più concepibile né credibile per la maggioranza delle persone e in particolare per gli intellettuali, per quanto sensibili possano essere al mistero più profondo della realtà: la loro intelligenza spirituale cammina verso altre direzioni.  

Il teismo nasce e cresce nell’età dei metalli, quando si intensifica l’agricoltura, aumenta la popolazione e si costruiscono città, e nelle città i templi. I compiti si specializzano, la società diventa più complessa. C’è bisogno di miti, leggi, capi, autorità, funzionari e guerrieri per trasmettere gli ordini del signore, farli rispettare e conquistare territori. La società si gerarchizza, gli esseri umani diventano schiavi gli uni degli altri… E c’è bisogno di divinità per dare coesione, sicurezza e legittimità ultima alla convivenza ordinata, gerarchizzata e sottomessa.  

L’architettura del mondo viene riconvertita su “due piani”. I miti della separazione tra il cielo e la terra – dal quinto millennio prima della nostra era – provocano la lacerazione della realtà cosmica, fino ad allora unita, unitaria, unica, totale (olistica). Rimane confinata nel piano basso la realtà materiale, naturale, carnale e sessuale e sale al cielo una realtà strettamente spirituale, immateriale, non naturale, non carnale e non sessuale, spirituale e soprannaturale. Il dualismo e Theos sono, però, rappresentazioni superate e per questo diciamo che non c’è bisogno di essere teisti né di sviluppare un’esistenza soprannaturale per essere cristiani, benché tale immagine sia ancora presente nella maggior parte delle persone.  

Il post-teismo non è, in sé, né ateo, né nichilista, né materialista-riduzionista, né chiuso alla sacralità e alla divinità; semplicemente, si sbarazza criticamente e coscientemente di un prodotto evolutivo creato dall’essere umano, una “fantasia utile” di cui si è servito in un momento dato dello sviluppo della sua cultura e infrastruttura materiale.  

Il post-teismo è compatibile con la diversità di simboli con cui riconosciamo con riverenza e in maniera attiva un Mistero ultimo o una Realtà Ineffabile nella quale siamo. È un invito a superare tanto il teismo quanto l’ateismo convenzionale di tipo positivista, a riscoprire la casa comune cosmica, a far ritorno dalla fuga soprannaturale alla natura a cui apparteniamo. Il postteismo non pone una camicia di forza all’esperienza del mistero e permette la creatività spirituale e l’autonomia, poiché non c’è la coercizione di un’immagine imposta e fissa: è contrario all’assolutismo di una rappresentazione unica. Equivale a un agnosticismo attivo. Un “non sapere” che fonde il suo vuoto cognitivo nel vuoto infinito, come uno sguardo profondo verso un orizzonte senza forma che, per la sua imprecisione, può adottare diverse figure aperte e ispiratrici. Cammina sulle acque della realtà, sempre olistica, senza separarle.  

6. Alcune inquietudini di fronte al post-teismo  

C’è chi dice che il post-teismo intacchi l’ordine sociale e il suo fondamento principale, ma è piuttosto la società teocentrica e teocratica costituita con l’aiuto di questo Theos prima descritto che è servita da standard e guida per un conservatorismo autoritario distruttore dell’armonia sociale, frenando da un lato il progresso della conoscenza e dell’educazione civica laica e dall’altro alimentandoli ma in maniera subordinata ai propri fini pastorali.  

Si obietta che il non-teismo distrugge la religiosità popolare. Effettivamente, la critica decostruttiva del Theos può provocare la crisi profonda di molte immagini, convinzioni e pratiche della religiosità popolare. Ma non è questo l’obiettivo diretto della nostra riflessione post-teista: non vogliamo dettare a nessuno nuove idee, immagini o pratiche religiose o non religiose. Crediamo, tuttavia, che, senza alcun tipo di paternalismo, sia una nostra responsabilità proporre, con onestà e rispetto, criteri teologici che riteniamo più coerenti con la cosmovisione attuale, affinché le persone stesse giudichino e scelgano da sé in maniera da poter essere protagoniste della propria liberazione integrale.  

Si presuppone che il post-teismo ponga al secondo posto o indebolisca l’impegno liberatore. Pensiamo di no. Il superamento del teismo tradizionale ancorché maggioritario non nega né riduce il primato della liberazione integrale, ma la libera solo dalla sua epistemologia e dalla sua impalcatura mitiche, sempre più insostenibili a breve e medio termine. La riflessione post-teista vuole offrire criteri e strumenti teologici (in senso ampio) oggi più coerenti per la liberazione da tutte le oppressioni. La liberazione richiede anche la liberazione da un “Dio” che sottomette o legittima la sottomissione.  

Preoccupa la perdita della relazione personale con Dio. Il paradigma post-teista riconosce che si tratta di un antropomorfismo, di un’erronea supposizione simile a quella di un “amico invisibile” al nostro fianco o al di sopra di noi. Bisognerebbe parlare piuttosto del carattere sovrapersonale della realtà ultima, di tutta la realtà, in quanto il concetto di “persona” è stato e continua a essere generalmente inteso come un soggetto individuale di fronte a un altro. L’intera realtà, tuttavia, è relazionale. Il post-teismo riconosce le esperienze dell’interiorità, le molteplici forme di sentirsi parte di una realtà tanto ambigua quanto impregnata di bellezza e di bontà, oggetto di gratitudine, fonte di speranza e di compassione attive. Che si usi un nome piuttosto che un altro o si scelga il silenzio o una maniera dialogica.  

Altre inquietudini si riferiscono all’apparenza panteista del post-teismo. Ma noi non diciamo che tutto è Dio, bensì che ciò che è stato chiamato Dio è in tutto come essere e non come ente superiore separato. E soprattutto continueremo a cercare il significato e il posto che occupa Gesù in questa nuova visione. Al momento rimandiamo a quanto detto nel punto 4. Ricapitolando, ci sembra che oggi, per molte persone cristiane, profondamente sincere e impegnate, non solo sia lecito ma sia anche urgente lasciarsi dietro ogni immagine teista di Dio, andando con ciò oltre Gesù, figlio del suo tempo.  

7. Il cambiamento da sostenere 

  Questo nuovo modello di cristianesimo comporta un ritorno ai valori evangelici, per quanto reinterpretati. Il vangelo non costituisce tanto un’identità religiosa concreta superiore quanto un appello ai valori universali su cui la comunità umana sta dialogando e cercando un consenso a partire dal suo miglior sentire. Ci troviamo di fronte non tanto a una conversione morale o a un apostolato nuovo quanto a una nuova interpretazione della conoscenza, della realtà e della divinità.  

Molte persone religiose pensano che, se si perde la religione, il mondo perderà il fondamento della verità e soprattutto della morale. Ma dietro la grande decostruzione del teismo e della religione rimane il vigore creativo della realtà, l’autopoiesi dell’amore, ispirata alla profondità dell’essere umano e di tutto quanto è. Una speranza senza certezze e un amore senza condizioni, come leggiamo nel racconto di Gesù.  

Oggi è quasi impossibile continuare con le pratiche religiose derivate dal teismo. La teologia che le sostiene sprofonda come costruzione razionale. Fondata su metafore e credenze mitologiche, rivendica coerenza e verità quando ciò che esiste è, semplicemente, una creazione di significato e di motivazione. La teologia è riconducibile piuttosto a una speleologia del cuore umano, una socio-antropologia della trascendenza che si apre nella coscienza, senza un “a priori” teista o ateo.  

Bisogna colmare una volta per tutte il ritardo premoderno. E farlo e dirlo senza paura. Nelle celebrazioni, in qualunque modo siano, nei comunicati e nelle conversazioni, possiamo servirci di qualcosa di meglio che di alcuni miti inespressivi e ritualizzati ed evitare convinzioni certe e moralismi basati su miracoli e cammini di redenzione. Si può mostrare piuttosto la meraviglia della nostra Grande storia universale, creativa, aperta. Provare stupore per la quantità innumerevole di stelle, particelle e neuroni, per la buona volontà, per il valore del perdono, della consolazione, della civiltà e dell’azione per la giustizia; per l’armonia con la natura e per la compassione nei confronti dei più bisognosi, recuperando così in altro modo i grandi valori e le grandi scoperte delle tradizioni religiose e cooperando sullo stesso piano con tutti. Né la religione di un altro mondo, né la rassegnata mancanza di significato nella laicità. La nostra missione è essere compartecipi dell’evoluzione creatrice, ispirati da Gesù di Nazaret.

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il commento al vangelo della domenica

l’amore non va offeso
il commento di E, Bianchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario (3 ottobre 2021)
Mc 10,2-16
 

²Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. ³Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». ¹⁰A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. ¹¹E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; ¹²e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio». ¹³Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. ¹⁴Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. ¹⁵In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». ¹⁶E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro. 

 

La parte più lunga del vangelo di questa domenica ci testimonia un confronto di Gesù con alcuni farisei, i quali lo mettono alla prova, lo tentano, cercando di sorprenderlo in errore riguardo alla tradizione dei padri, sul tema della possibilità del divorzio. Questo annuncio evangelico è esigente, chiaro: da una parte ci scandalizza, soprattutto se conosciamo la faticosa realtà della vicenda nuziale; dall’altra, lo stesso brano può essere utilizzato come un bastone, per giudicare e condannare chi è in contraddizione con le parole chiare e piene di parrhesía pronunciate da Gesù. 

Per questo, ogni volta che devo predicare su questo testo mi metto in ginocchio non solo davanti al Signore, ma anche davanti ai cristiani e alle cristiane che vivono il matrimonio, per dire loro che, certo, rileggo le parole di Gesù e le proclamo, ma senza giudicare, senza minacciare, senza l’arroganza di chi si sente immune da colpe al riguardo, memore di ciò che Gesù afferma altrove: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28). Chi legge queste parole di Gesù non sta dall’altra parte, in uno spazio esente dal peccato, ma innanzitutto si deve sentire solidale con quanti, nel duro mestiere del vivere e nell’ancor più duro mestiere del vivere nella coppia la vicenda matrimoniale, sono caduti nella contraddizione alla volontà del Signore. Non posso dunque fare altro che offrire qui alcuni semplici spunti di meditazione, eco della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture. 

Nel millennio dell’Antico Testamento la pratica del divorzio era comune in tutto il medio oriente e il mondo mediterraneo. Il divorzio era una realtà normata dal diritto privato, che lo prevedeva solo su iniziativa del marito. Il matrimonio era un contratto, neppure scritto, e dobbiamo riconoscere che nell’Antico Testamento non vi è nessuna legge sul matrimonio. Il brano del Deuteronomio a cui certamente si riferiscono i farisei (Dt 24,1-4) in verità appartiene alla casistica e non alla dottrina, perché mette a fuoco un caso particolare, e di conseguenza deve essere recepito con dei limiti ben precisi. Si legge in quel testo: 

Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso (‘erwat davar, lett.: “nudità di qualcosa”), scriva per lei un certificato di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa (Dt 24,1). 

Viene dunque contemplato il caso in cui l’uomo trovi nella moglie “qualcosa di vergognoso”, espressione assai vaga che i rabbini interpretano in modi molto diversi; in tal caso, il marito ha la possibilità di divorziare. A certe condizioni, pertanto, il divorzio è permesso e ne è prevista la procedura, ma da questo non si può concludere che nella Torah, nella Legge di Mosè vi sia una dottrina sul matrimonio e una sua precisa concordi disciplina. D’altra parte, i profeti, i sapienti e gli stessi testi essenici non offrono posizioni certe e chiare che escludano il divorzio e proclamino che la Legge di Dio lo vieta. Solo Malachia testimonia una parola del Signore semplice ma radicale: “Io odio il ripudio” (Ml 2,16). 

Ma ecco che Gesù è chiamato dai farisei a esprimersi proprio su questa possibilità: “È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?”. Egli risponde con una domanda: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi a lui: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”. È come se gli dicessero: “Questa è la Torah!”. Gesù allora interviene in modo sorprendente: non entra nella casistica religiosa a proposito della Legge; non si mette a precisare le condizioni necessarie al ripudio, come facevano i due grandi rabbi del suo tempo, Hillel e Shammai; non si schiera dalla parte dei rigoristi né da quella dei lassisti. Nulla di tutto questo: Gesù vuole risalire alla volontà del Legislatore, di Dio. In tal modo egli ci fornisce un principio decisivo di discernimento nel leggere e interpretare la Scrittura: fare riferimento all’intenzione di Dio (e non a tradizioni umane: cf. Mc 7,8.13!), che attraverso le sua parola messa per iscritto vuole rivelarci la sua volontà.  uesta dunque la replica di Gesù ai suoi interlocutori: “Per la durezza del vostro cuore (sklerokardía) Mosè scrisse per voi questa norma. Ma nell’in-principio (be-reshiten archê: Gen 1,1) della creazione Dio ‘li fece maschio e femmina’ (Gen 1,27); ‘per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola’ (Gen 2,24). Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Gesù risale al disegno del Creatore, alla creazione dell’adam, il terrestre tratto dall’adamah, la terra (cf. Gen 2,7; 3,19), fatto maschio e femmina perché insieme i due vivano nella storia, la storia dell’amore, la storia della vita, l’uno di fronte all’altra, volto contro volto, in una reciproca responsabilità, chiamati nel loro incontro a diventare una sola realtà, una sola carne. In questo incontro di amore c’è la chiamata a essere amanti come Dio ama, essendo lui amore (cf. 1Gv 4,8.16), di un amore durevole, fedele, per sempre; in questo incontro c’è l’arte e la grazia del dono gratuito l’uno all’altra, a cominciare dal proprio corpo; c’è l’alleanza che fa sì che l’incontro sia storia nel tempo e tenda dunque al “per sempre”, fino alla morte, per andare anche oltre la morte. 

Questa la volontà di Dio nel creare il terrestre e nel porlo nel mondo quale sua unica immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27). È un mistero grande, ma tanto grande che è difficile per gli umani fragili, deboli e peccatori viverlo in pienezza. In verità, sappiamo quanta miseria si sperimenti in questo faticoso incontro, come sia facile la contraddizione, come questo capolavoro dell’arte del vivere insieme nell’amore sia perseguibile, ma mai pienamente e solo con l’aiuto della grazia, con l’efficacia del Soffio santo del Signore. Eppure l’annuncio di Gesù permane, in tutta la sua chiarezza: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Subito dopo, questa parola dura ed esigente viene spiegata da Gesù ai suoi discepoli, nella casa in cui la comunità si ritrovava. E viene spiegata con un’aggiunta straordinaria per la cultura del tempo, visto che Gesù mette sullo stesso piano la responsabilità dell’uomo e quella della donna: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”. 

Certo, Mosè ha cercato di umanizzare la pratica del divorzio, imponendo al marito di percorrere una via giuridica di rispetto per la donna. Ma Gesù, proprio guardando alla durezza di cuore dei destinatari della Torah, osa andare ben oltre, mettendo in evidenza la volontà, l’intenzione del Creatore. Del resto, lo aveva già fatto altre volte, svelando, per esempio, la volontà di Dio sul sabato e sulla sua osservanza (cf. Mc 2,23-28): sempre Gesù si fa interprete autentico della Legge non attraverso vie legalistiche, non attraverso interpretazioni fondamentaliste, ma annunciando profeticamente la volontà di Dio a tutti, in particolare ai peccatori pubblici e agli esclusi, da lui sempre accolti, perdonati, mai condannati. 

Dall’annuncio dell’indissolubilità del matrimonio Marco, cambiando scena, passa poi al tema dell’accoglienza dei piccoli. Vengono portati e presentati a Gesù dei “bambini” (paidía), affinché li tocchi, e dunque attraverso il contatto fisico comunichi loro forze benefiche di guarigione di benedizione. Nella cultura giudaica del tempo i bambini non contavano nulla, erano di fatto trattati da esclusi, come le donne e gli schiavi. Il rapporto con un rabbi è una relazione importante che riguarda gli adulti, quelli che sono in grado di conoscere e osservare la Torah. Per questo i discepoli intervengono a sgridare i bambini, ma Gesù va in collera, si indigna e li rimprovera perché i bambini, come gli altri “esclusi” e “marginali”, hanno un loro posto nel regno di Dio. 

Proprio i bambini e quelli che sono simili a loro per la piccolezza e l’essere scartati e ai margini, sono i primi beneficiari e destinatari del Regno. Non vi è qui nessun ipotetico riferimento a un’innocenza dei bambini, ma viene messa in evidenza la loro condizione di povertà, di esclusione, di piccolezza, che attira l’attenzione di Gesù. Semmai egli sa individuare in questi bambini una esemplarità nella loro accoglienza del dono del Regno: stupore, meraviglia, nessun merito vantato, ma la semplicità di chi accoglie il dono dei doni. E così Gesù ammonisce quanti nella sua comunità vorrebbero impedire agli esclusi, ai poveri, agli ultimi l’accesso a lui. Proprio a questi ultimi va invece la sua tenerezza, la sua benedizione, il suo abbraccio, affinché non si sentano più abbandonati o messi ai margini 

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in morte di Spong, il teologo della morte del teismo, non di Dio

 

Addio a John Shelby Spong, tra i padri della teologia post-teista

addio a John Shelby Spong, tra i padri della teologia post-teista

tratto da: Adista Notizie n° 33 del 25/09/2021  

 Dopo il teologo belga Roger Lenaers, scomparso lo scorso 5 agosto, ci ha lasciato, all’età di 90 anni, anche il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, un’altra delle figure più emblematiche del nuovo pensiero teologico legato al paradigma post-religionale e post-teistico. Se ne è andato nel sonno, dopo una vita da lui descritta come felice e piena d’amore e sempre accompagnata dalla speranza, anche dalla speranza della vita eterna. 

Proprio a questo tema, del resto, aveva dedicato uno dei suoi libri, dal titolo, appunto, Vita eterna. Una nuova visione (scritto nel 2009 e uscito in italiano nel 2017 per i tipi di Gabrielli Editori), tentando di rispondere in maniera credibile a un interrogativo centrale non solo per la fede cristiana ma anche per la vita di ogni singolo essere umano: «Al di là della religione, al di là del teismo, al di là del cielo e dell’inferno, è ancora plausibile parlare di vita eterna»? 

Sganciando definitivamente tale visione dai concetti di premio e castigo, e dunque invitando a condurre la propria esistenza sotto la spinta dell’amore anziché della paura, il teologo statunitense non aveva però rinunciato a credere alla possibilità che «la vita umana autocosciente» condivida «l’eternità di Dio e che – scriveva –, nella misura in cui sono in comunione con quella forza vitale in perpetua espansione, quella potenza d’amore che arricchisce la vita e quell’inesauribile Fondamento dell’essere, io vivrò, amerò e sarò parte di ciò che Dio è, non vincolato dalla mia mortalità ma dall’eternità di Dio». Una svolta dalla divinità sopra di noi a quella dentro di noi che, concludeva Spong, «non significa allontanarsi da Dio, come i paurosi grideranno; significa, e io ora lo credo, camminare in Dio». 

Ma il suo impegno a «salvare il cristianesimo come forza per il futuro», rendendone il messaggio nuovamente rilevante e significativo per le donne e gli uomini contemporanei, era iniziato già molto tempo prima, e cioè da quando, attento ai numerosi segnali di declino evidenziati da ogni parte dalla religione cristiana, aveva compreso, «come vescovo e come cristiano impegnato», la necessità di trovare nella Chiesa il coraggio che la rendesse «capace di rinunciare a molti schemi del passato». 

Un impegno, il suo, tradottosi, alla vigilia del XXI secolo, in un libro diventato una pietra miliare in questo cammino di riflessione teologica: Why Christianity Must Change or Die (edito in Italia nel 2019 da Il pozzo di Giacobbe, con il titolo Perché il cristianesimo deve cambiare o morire), successivamente ridotto a un manifesto in 12 tesi attaccato, «alla maniera di Lutero», all’ingresso principale della cappella del Mansfield College, all’Università di Oxford, e poi inviato per posta a tutti i leader cristiani del mondo: su Dio, Gesù, il peccato originale, la nascita verginale, i miracoli, la teologia dell’espiazione, la resurrezione, l’ascensione, l’etica, la preghiera, la vita dopo la morte, l’universalismo. Dodici tesi che Spong aveva ripreso, sviluppandole ulteriormente, nel suo ultimo libro, scritto all’età di 87 anni, uscito negli Stati Uniti nel 2018 e pubblicato in Italia grazie alla casa editrice Mimesis nel 2020, con il titolo Incredibile. Perché il credo delle Chiese cristiane non convince più. Era stato, in realtà, il suo quinto “ultimo libro”, ciascuno nascosto “a sua insaputa” «sotto il tappeto» del processo di elaborazione del precedente, ma a questo, il teologo, proprio adducendo ragioni di salute, aveva assicurato che non ne sarebbero seguiti altri. 

Preceduto da opere importanti come, oltre a quelle già citate, Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovoGesù per i non religiosi, Il quarto VangeloLetteralismo biblico: eresia dei gentiliI peccati della Bibbia (edite da Massari e sempre curate da Ferdinando Sudati, come tutti i libri di Spong nel nostro Paese), il volume aveva offerto una sintesi conclusiva della sua coraggiosa rilettura post-teista del cristianesimo, in direzione di una nuova espressione religiosa compatibile con le recenti acquisizioni scientifiche: senza dogmi, senza dottrina, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta. 

Una visione del cristianesimo «così radicalmente riformulata da poter vivere in questo nuovo audace mondo» – come già scriveva in Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo – ma legata ancora all’esperienza che ha dato origine a questa fede-tradizione più di duemila anni fa. Non a caso l’autore si è sempre professato come un gioioso, appassionato, convinto credente nella realtà di Dio: «Credo che Dio sia reale e che io viva profondamente e significativamente in rapporto con questa divina realtà. Proclamo Gesù mio Signore. Credo che egli abbia mediato Dio in un modo poderoso e unico nella storia dell’umanità e in me». Tuttavia, aggiungeva nello stesso libro, «non definisco Dio come un essere soprannaturale. Non credo in una divinità che può aiutare una nazione a vincere una guerra, intervenire a curare la malattia di una persona cara, permettere a una particolare squadra sportiva di battere la sua avversaria». 

Morte del teismo, non di Dio 

Secondo Spong, il Dio inteso teisticamente come «un essere con potere soprannaturale» da supplicare, obbedire e compiacere starebbe sul punto di morire, se non è già morto, per quanto le autorità ecclesiastiche preferiscano continuare il gioco del “facciamo finta”. Tuttavia, precisava il teologo, la morte del teismo come descrizione umana di Dio non comporta affatto di per sé la morte di Dio. Non esige, cioè, la rinuncia alla speranza che «ci sia una realtà trascendente presente nel cuore stesso della vita» che sia possibile chiamare Dio e che «la sua presenza sia sperimentata come qualcosa che ci richiama oltre i nostri timorosi e fragili limiti umani». Né intacca la convinzione che questa realtà trascendente si sia rivelata nella vita di Gesù in modo così completo da permettere di vedere in lui il significato di Dio. 

Questa speranza in Spong non è mai venuta meno: «Dio è la sorgente ultima della vita. Si venera Dio vivendo pienamente, condividendo profondamente ». E ancora: «Dio è la sorgente ultima dell’amore. Si adora questo Dio amando generosamente, diffondendo con levità amore, donando amore senza fermarsi a valutare il costo». E, infine: «Dio è l’Essere, e veneriamo questo Dio avendo il coraggio di essere tutto quello che possiamo essere», andando oltre «il modo di sopravvivere chiusi in se stessi». E dunque «Dio non è morto. Siamo veramente entrati in Dio. Siamo portatori di Dio, co-creatori, incarnazioni di ciò che Dio è». 

Ma nel mondo post-teistico, secondo Spong, continuerà a esserci spazio anche per la Chiesa, anche dopo che il culto non avrà più lo scopo di confessare i nostri peccati a un “paterno giudice”, né di contare sul potere delle preghiere comunitarie per dirigere il corso della storia del mondo. Una Chiesa che si dedicherà all’espansione del Regno di Dio, operando con determinazione non per un programma religioso, ma per il programma della vita, della vita in abbondanza per tutti, non imponendo la propria verità a nessuno ma vivendo solo per accrescere l’amore.

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