la suora che lotta contro il sessismo dentro la chiesa

«la chiesa può guarire dal sessismo in 24 ore»

 

suor Forcades

 

 

di Elisabetta Rosaspina

Monaca di clausura, indipendentista, attivista per il diritto all’aborto e per le unioni omosessuali, Teresa Forcades è una delle mistiche più ascoltate. «Francesco è un riformatore, l’amore è sempre un miracolo»

Monaca? Ebbene sì, di clausura. Catalana? Certo, per nascita e per appartenenza politica e sentimentale. Indipendentista? Eccome! Femminista? Da sempre. Negazionista sulla pericolosità del Covid 19? «No, questo è falso» protesta suor Teresa Forcades, benché tenga da tempo Big Pharma nel mirino: «Non può essere che il business farmaceutico domini nel mezzo di una pandemia», si è ribellata in un’intervista al periodico digitale catalano VilaWeb. Dubita dell’efficacia del metodo di vaccinazione in corso, è vero, «se crei l’immunità al virus, ma non lo elimini, lo inviti a mutare in una nuova variante». Ma «da un punto di vista scientifico non ha senso essere pro o contro la scienza» ha ricordato nella stessa occasione.

Teologa di fama internazionale

I suoi dubbi non sono profani, poiché suor Teresa Forcades, 55 anni, teologa di fama internazionale, figlia di un agente di commercio e di un’infermiera, è laureata in medicina interna a Buffalo, nello Stato di New York. Ha un dottorato in Salute pubblica e uno in Teologia fondamentale, conseguiti a Barcellona. Un Master of Divinity ad Harvard. Ha insegnato Teologia della Trinità e Teologia queer alla Humboldt-Universität di Berlino. La sua opinione conta nella comunità scientifica e in quella ecclesiastica. I suoi libri hanno un’ampia diffusione in patria e all’estero. Il New York Times le ha dedicato recentemente un ampio ritratto (che l’ha fatta molto arrabbiare), catalogandola nell’influente partito europeo dei no vax. Una testimone a favore delle teorie cospirazioniste. Ma lei non ci sta. Un partito, in realtà, l’ha fondato sul serio suor Teresa Forcades, assieme all’economista Arcadi Oliveres, scomparso qualche mese fa: Procés Constituent, a Barcellona, nel 2012. Uno schieramento repubblicano, anticapitalista, indipendentista che, appena nato, raccolse diecimila adesioni in sette giorni.

«Creatura del chiostro aperta al mondo»

Il Vaticano probabilmente non condivide appieno certe sue esternazioni sul diritto all’aborto e sulla legittimità delle unioni omosessuali, ma le riconosce titoli e competenze: «Benedettina, mistica, attivista, medico, creatura del chiostro e al tempo stesso aperta al mondo, perfino nelle sue istanze più estreme» è stata descritta dalla scrittrice Emanuela Canepa nel numero di gennaio del supplemento dell’ Osservatore Romano, Donne Chiesa Mondo .

Sta vivendo almeno due vite, apparentemente poco conciliabili: come fa?
«Non è stato programmato. Sono nata in una famiglia poco praticante dal punto di vista religioso. La mia relazione con Dio è scaturita da un’esigenza pratica. Nel 1995 cercavo un po’ di quiete per preparare un esame universitario e ho chiesto ospitalità al convento di Montserrat. È diventato la mia casa. Non era nei miei piani prendere il velo. Ma la vocazione è come una specie di innamoramento. Non si spiega. Si comincia a tremare e ci si chiede: che cosa mi succede? Sono entrata in monastero due anni dopo, ho lasciato la medicina per prepararmi ai voti».

 

Ma poi ha accumulato nuovi diplomi e specializzazioni.
«Sì. Quando ero novizia la madre badessa si era resa conto delle mie attitudini intellettuali. Mi ha spinto a riprendere gli studi. Il dottorato in Teologia mi pareva un’idea splendida. Avevo già studiato ad Harvard, ma dovevo ricominciare da zero. Ho avuto una crisi, ho pregato. Non ho avuto visioni, ho ricevuto una risposta interiore. Dopo Teologia, l’abbadessa mi ha chiesto: e perché non continuare con Medicina? Mi pareva che c’entrasse poco con la strada che avevo scelto ma mi sono lasciata convincere. Ho scritto un testo contro le multinazionali farmaceutiche. Era una denuncia sociale degli abusi dei quali avevo preso coscienza. Poi vennero le prime conferenze sull’omosessualità e la transessualità. Cominciò tutto dal punto di vista etico, ma ne parlavo anche dal punto di vista scientifico. Le mie erano critiche con cognizione di causa».

Nel 2015 i suoi superiori l’hanno autorizzata a lasciare la clausura per tre anni per dedicarsi agli impegni sociali e politici, alla causa catalana: non è insolito?

«No. Esistono due tipi di clausura: la costituzionale, che è la più antica ed è quella cui appartiene il nostro ordine; e la clausura papale. Per quanto mi riguarda, scaduti i tre anni, nel 2018 sono rientrata».

Sarà possibile sfondare il tetto di cristallo anche nella Chiesa?

«Nella Chiesa è un soffitto di cemento – ride -. Ma nella società extra ecclesiastica molte cose sono cambiate. Nel mio caso ho trovato uno spazio di crescita che non avrei trovato altrove. Il sessismo è nelle università, negli ospedali: io stessa, da monaca, mi sono resa conto di come obbedivo a stereotipi di genere. Ma quando le donne della Chiesa lo vorranno, la Chiesa smetterà di essere sessista in ventiquattr’ore. Perché il patriarcato lo abbiamo costruito assieme, uomini e donne. Tante donne pensano ancora che il loro compito migliore sia quello di accudire, prendersi cura degli altri, degli uomini. E la Chiesa enfatizza questo ruolo. Ma in un monastero femminile non ci sono uomini da accudire. Ci curiamo fra di noi».

Simone Weil nella bellezza trova Dio. E lei dove vede la bellezza?

«Per me la bellezza è spesso in un dettaglio: il piccolo gesto di una sorella del monastero, morta centenaria poco tempo fa. Muoveva appena un po’ il collo verso destra per ascoltare chi le parlava. Offriva all’interlocutore il suo orecchio. Era un piccolo gesto, epitome di bellezza. Per me, la bellezza è la figura di Gesù, che regge la croce al centro della folla, in un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio. In un mondo di menzogne e ingiustizia la verità scompare. La bellezza invece brilla per contrasto, come il bel volto di una bambina in un quartiere degradato. O come le note di un violino in un campo di concentramento». 
Ha già incontrato Papa Francesco?
«Non ancora. Vedo in lui una chiara intenzione di riforma. Ha cominciato dall’opacità finanziaria della Chiesa. So che vorrebbe fare di più. E comunque l’ambiente sta cambiando. Con i papati precedenti, persone come me, che parlano di omosessualità o di depenalizzazione dell’aborto, erano minacciate di sanzioni. Tutto ciò è scomparso dalla mia vita da quando c’è Francesco».

Lei crede ai miracoli? 

«L’amore è un miracolo. Ogni volta che una persona si apre alla verità per amore degli altri, è un miracolo».
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per una fede che fa i conti con il paradigma culturale evolutivo odierno

educarsi ad una fede adulta

colloquio con Carlo Molari

a cura di Mariano Borgognoni
in “Rocca” n. 19 del 1 ottobre 2021

Don Carlo, è nota la sua collocazione nella prospettiva evolutiva del tempo tracciata dal pensiero
scientifico. Non vede però in essa anche il rischio di rimuovere il problema del male, vero punctum crucis, di gran parte della riflessione teologica, almeno da Agostino, e di ogni teodicea? Qual è la sua risposta al problema del male anche dentro i meccanismi stessi della natura al di là del male imputabile alla scelta degli uomini? E che senso ha l’incarnazione in una prospettiva evoluzionista?

Nella prospettiva evolutiva la perfezione non sta all’inizio della creazione, ma si colloca al termine di un processo nel tempo, che è necessario perché la creazione sviluppi le strutture che possano progressivamente accogliere i frammenti di quella Perfezione che continuamente l’azione di Dio offre. È dunque un processo nel quale l’imperfezione, il limite, in altre parole il male, è destinato ad accompagnare l’uomo e tutto il creato nel cammino verso il compimento.
Questa prospettiva, cui le scoperte scientifiche hanno dato un impulso decisivo soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, ha trovato sempre maggiore accoglienza nel pensiero teologico perché ha messo in rilievo un dato strutturale ineliminabile: il limite della creatura che, di per sé, non consente all’uomo e al creato di accogliere tutta la pienezza del dono di Dio, alla quale è pur sempre chiamato, se non attraverso un percorso di sviluppo delle strutture necessarie.
Bisogna precisare bene che non si tratta di un limite dell’azione di Dio (del tipo «se Dio solo volesse potrebbe…»), ma della natura stessa dell’oggetto della creazione. Così come diciamo che Dio non può fare che un cerchio sia un quadrato, allo stesso modo Dio, creando, non può che creare creature (un po’ come dire che Dio, creando, non può creare un altro Dio).
Le conseguenze di tutto questo sono ormai chiare: come detto, il limite, il male, è intrinsecamente connesso al nostro stato di creature, da sempre è così e sempre così sarà, pur con livelli e dinamiche destinate a evolvere, esse pure, con il progredire dell’umanità.
Il male, dunque, non è un’insorgenza indebita sopravvenuta per colpa di qualcuno, e la morte non è un destino cui non fossimo in origine soggetti: tutto questo non trova posto nelle evidenze scientifiche oggi disponibili, e, ormai, neanche nei modelli culturali che si sono affermati. È questo che ha portato Teilhard de Chardin ad affermare che il problema del male, teoricamente per la ragione, è risolto (ndr P.T. de Chardin, Comment je vois, 12 août 1948, in «Oeuvres de Pier Teilhard de Chardin», tome 11, Les directions de l’avenir, Edition du Seuil, Paris 1973, pp. 211 ss.). E ancora: i nostri mali sono il prezzo e la condizione stessa d’un compimento universale (P. T. de Chardin, Credo in questo modo, in «La mia fede», cit., p. 126).
Resta da capire come affrontare nella vita di tutti i giorni il problema del male, della sofferenza, dell’ingiustizia. Affrontato il nodo teorico esso permane sul piano esistenziale e pratico.
Se quel che ho detto è vero dal punto di vista teorico, dal punto di vista esistenziale il problema di come far fronte al male e al carico di sofferenza e di ingiustizia che l’accompagna – e che comunque deve essere «portato» in quanto, abbiamo visto, è un dato ineliminabile della nostra condizione di creature – resta e deve essere affrontato. È un aspetto che dobbiamo considerare in tutte le sue articolazioni di male causato e male subìto, di peccato, cioè di male consapevole, ma anche di male inconsapevole, dunque anche oltre la dimensione sacramentale della riconciliazione.
Lo sviluppo della vita spirituale, infatti, richiede una presa d’atto radicale del male e un lavoro per
eliminare in radice, o almeno portare sotto un certo controllo, anche quelle reazioni inconsapevoli, quegli atteggiamenti diventati consuetudini e quei comportamenti che sono abitudini di cui non ci sentiamo responsabili, ma che comunque inducono e diffondono attorno a noi negatività.
È al lavoro interiore che ci affidiamo per arrivare a portare il male, l’ingiustizia, la sofferenza in modo da continuare a essere manifestazioni dell’azione di Dio in noi e a non tradire il messaggio di cui vogliamo essere testimoni continuando ad amare e a offrire doni di vita nella difficoltà delle relazioni, nella morsa della sofferenza, nell’angustia dell’ingiustizia, nella tristezza del progressivo invecchiamento che ci debilita.
Perché sappiamo che il dono di Dio ci è sempre dato, che ogni giorno possiamo diventare capaci di novità di vita che ieri non conoscevamo, se a questo ci apriamo con fiducia per farne a nostra volta dono a chi ci sta vicino. Ogni giorno, così, consolidiamo i frutti colti nel nostro passato, alimentiamo la nostra speranza e ci prepariamo ad accogliere i doni che arriveranno, fiduciosi che né morte né vita, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio (Rm 8,38- 39). È così che, giorno dopo giorno, cresce la vita in noi, fino al traguardo ultimo in cui diventeremo viventi perché la Vita, in modi che non riusciamo nemmeno a immaginare, diventerà finalmente nostra.

Ho sempre trovato molto originale e interessante la prospettiva da cui ha affrontato il problema della salvezza e della vita dopo la nostra morte fisica. Ma ci salveremo tutti perché grande è la misericordia di Dio oppure alcuni o anche molti si perderanno? Magari non nell’impensabile eternità dell’inferno immaginata da un dio malvagio.

Noi non sappiamo in cosa consista la vita nuova, quella che ci aspetta come compimento al termine di questa esistenza. Le espressioni che normalmente utilizziamo – resurrezione, salita al cielo, paradiso e inferno – sono servite alle prime comunità cristiane per esprimere la grande e profonda esperienza di fede che la vita e l’insegnamento di Gesù avevano suscitato in loro e nelle loro comunità. Per esprimere la permanenza in loro della speranza di una vita al di là del presente, non potevano avere altro linguaggio che quello della resurrezione del corpo, della salita al cielo e dell’imminente ritorno di Gesù. In tutto questo noi dobbiamo vedere il tentativo di raccontarci e trasmetterci un’esperienza di fede profonda, non il succedersi di eventi storici che, fra l’altro, non corrispondono esattamente fra i diversi autori.
Noi oggi abbiamo conoscenze, riferimenti culturali e linguaggi molto diversi; ad esempio, sappiamo che dopo la morte il corpo è destinato a dissolversi nell’ambiente. È allora necessario che noi sviluppiamo, attraverso il lavoro interiore, un livello di vita spirituale, cioè di consapevolezza, di capacità di donazione, distacco dalle cose, che consenta al nostro spirito di entrare nella nuova dimensione della vita e, così, pervenire al compimento, il nome scritto nei cieli di cui parla Gesù, cioè la nostra definitiva identità di figli di Dio.
La domanda che così si pone è che cosa avverrà nel caso non si pervenga a sviluppare la nostra dimensione spirituale. La risposta non può che essere il venir meno dell’esistenza, un tentativo di vita che non ha attecchito e non è andato a buon fine. Certo è una posizione opinabile, ma io credo che valorizzi la storia e le dia un senso.

E la stessa immagine che noi ci facciamo di Dio o presente dentro la Scrittura medesima non va posta in discussione? Non c’è tanto, troppo, di antropomorfico e non dovrebbe forse la teologia soprattutto distruggere le false immagini di Dio? Cosa ne pensa della riflessione di molti teologi cristiani che stanno sviluppando un pensiero post-teista?

È inevitabile che in noi si formi, in qualche modo, un’immagine di Dio. È, anzi, necessario perché altrimenti non potremmo nemmeno pensare a Dio, né, di conseguenza, parlarne. I meccanismi stessi della nostra mente ne hanno bisogno.
Detto questo, è inevitabile, oltre che necessario, che il nostro processo di crescita culturale e lo sviluppo della nostra esperienza di fede nel tempo ci facciano cambiare l’idea che abbiamo di Dio: nessuno di noi ha più l’immagine che ne aveva da bambino. E non c’è dubbio che questo cambiamento che avviene a livello individuale debba essere riflesso nell’immagine che a livello di comunità ecclesiale viene proposta. L’immagine antropomorfa di un Dio intento a osservare le vicende umane e a intervenire è certamente inadeguata, sia per il livello raggiunto dalla riflessione teologica oggi, sia per le intuizioni che hanno posto radici a visioni ben più consone di Dio già secoli fa, nel cuore della tradizione cristiana stessa. Infatti, il farsi delle cose e il loro evolvere non richiedono interventi mirati di Dio, in quanto il potenziale di sviluppo delle cose è già inscritto nella loro stessa natura. Dio non fa le cose, ma fa sì che le cose si facciano.
Si tratta di un modello scaturito da una profonda intuizione, di Tommaso e in parte già prefigurata n Agostino, da secoli presente nella tradizione cristiana, per quanto non abbia avuto la forza di affermarsi rispetto al tradizionale e consolidato modello biblico. È però un modello che trae adesso dalla prospettiva evolutiva un fondamentale elemento di supporto e pone l’immagine di Dio ancora più lontano da qualunque rappresentazione antropocentrica se ne possa dare.

In una parte della sua opera parla delle sfide del pensiero ateo. Ci può spiegare come, secondo lei, è possibile rispondere ad esse e rendere ragione credibilmente della speranza che è in noi? Avere
insomma una fede adulta che non schiva le domande?

Il pensiero ateo merita da parte del teologo grande attenzione. Anche quando si finisce con il dissentire, resta il fatto che l’emergere di nuovi dati scientifici non può che apportare sviluppi nuovi che gettano ulteriore luce sul creato e sulla storia.
La difficoltà dell’interazione con il pensiero ateo risiede tutta nei riguardi della trascendenza, delfine ultimo delle cose e delle ragioni della nostra speranza, e dipende dal fatto che, se crediamo in una Forza che ci trascende e che in noi suscita conoscenza di verità e amore, è perché di questa forza noi veniamo facendo esperienza nella nostra vita. Si tratta di un’esperienza di novità che, pur veicolata da ciò che è intorno a noi, va al di là e ci indica un oltre. Ed è l’esperienza che facciamo ogni giorno che ci fa credere che non sia tutta un’illusione, ma la risposta a un ordine più grande del mondo che ci chiama e al quale sentiamo con tutto noi stessi di voler corrispondere.

Dentro l’orizzonte planetario, di cui lei parla, come Gesù può essere per noi oggi la radice di fondo della nostra fede, la ragione della nostra speranza, l’ancoraggio saldo che ci fa dire «se non avessi la carità…»?

Gesù, che cresceva in sapienza, età e grazia (Lc 2,52) e fu costituito Figlio di Dio in virtù della risurrezione dei morti (Rm 1,4), indica anche a noi, con la sua vicenda umana, la sua fede, il suo pregare, il cammino che siamo chiamati a percorrere oggi.
Come allora, è con il silenzio e la preghiera che possiamo arrivare a una comprensione profonda delle necessità dell’umanità e del mondo oggi; necessità che sono diverse da quelle del tempo di Gesù e richiedono risposte nuove a problemi che, di per sé, sono di un’ampiezza finora sconosciuta nella storia.
Questa è la via che Gesù ha tracciato: arrivare ad aprirci al Verbo eterno al punto da poter dire, con lui, io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30); che non è da intendersi in senso ontologico, ma nel significato operativo di: le opere che io compio, i pensieri che sviluppo, l’amore, il perdono, i doni che io offro non sono miei, ma del Padre. Perché è in questo abbandono fiducioso e totale a Dio che Gesù è arrivato a comprendere la strada, per quanto tragica e dolorosa, che doveva percorrere per rimanere fedele e dare testimonianza dell’amore di Dio che salva.
Noi viviamo in circostanze molto diverse, dobbiamo dunque trovare strade nuove per arrivare a testimoniare il medesimo amore di Dio. Non sono le opere di Gesù che siamo chiamati a imitare oggi; noi dobbiamo fare nostro il suo sentire nei confronti del mondo, il suo atteggiamento e la sua disponibilità all’ascolto, il suo modo di rapportarsi ai fratelli con compassione e misericordia, il suo convincimento della necessità di una conversione e di una preghiera continua, la sua fiducia nel Regno che viene, il suo abbandono totale nelle mani del Padre cresciuto in lui nella preghiera e nella fedeltà in tutte le circostanze: imparò l’obbedienza da ciò che patì (Eb 5,8).
Ed è questo stesso abbandono fiducioso in Dio, anche nelle circostanze più negative come la croce, che, oggi come allora, alimenta la nostra capacità di accogliere la sua azione in noi.
Possiamo così pervenire all’offerta di quei doni di amore e di riconciliazione oggi richiesti: è questa la nostra speranza di contribuire così al cammino dell’umanità verso il Regno cui è chiamata. Che questo sia possibile ce lo dice Gesù stesso: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste (Gv 14,12), parole che restano in noi come il fondamento della nostra speranza e del nostro impegno a individuare le nuove forme di fratellanza oggi necessarie per il futuro stesso della specie umana.
Solo così noi, sull’esempio di Gesù, consentiamo al Verbo di continuare a incarnarsi, cioè di farsi progressivamente carne in noi, quella carne che offriamo come «atto sacro», sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come dice Paolo in Rm 12,1.

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in morte di Pablo Richard – un ricordo di Juan José Tamayo

Paul Richard, teologo della liberazione contro l’idolatria del mercato

 Juan José Tamayo

 

collega e caro amico

La mattina del 20 settembre ho ricevuto la notizia della scomparsa del mio caro amico e collega Pablo Richard. Mi congelai e non ebbero la forza di chiedere la causa della sua morte. I ricordi di tanti seminari di studio condivisi presso il Dipartimento di Ricerca Ecumenica (DEI) a San José, in Costa Rica, mi sono passati per la mente; i numerosi incontri intercontinentali, il primo presso la sede del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra nel 1983 durante il VI Incontro della Terza Associazione Ecumenica Mondiale dei Teologi, dove ci siamo incontrati, e l’ultimo presso l’Università Iberoamericana (l’Ibero) della città messicana di Puebla nel 2017 durante l’Incontro Intergenerazionale e Intergenerazionale La forza dei più piccoli: Fare teologia della liberazione dalle nuove resistenze e speranze, che hanno riunito 46 teologi provenienti da diversi paesi dell’America Latina e della Cariibe; la sua partecipazione al Congresso di Teologia dell’Associazione dei Teologi Giovanni XXIII nel 1988; il Congresso sull’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco. Sulla cura della casa comune, tenutasi a San Cristobal de Las Casas nel 2015; cena a casa mia a Madrid condivisa con mia moglie Margarita, i miei figli, Pablo e sua moglie Gabriela.

Formazione interdisciplinare

Pablo Richard è nato in Cile nel 1939 ed è morto a San José, in Costa Rica, dove viveva dal 1978. Avrebbe compiuto 82 anni il 13 dicembre. È stato uno dei teologi e biblisti della liberazione latinoamericani più riconosciuti in America Latina e nel mondo. Aveva un eccellente background interdisciplinare. Ha studiato Filosofia in Austria, Teologia all’Università Cattolica del Cile, Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma e alla Scuola Biblica di Gerusalemme, e Sociologia alla Sorbona di Parigi, dove ha conseguito il dottorato con una tesi in sociologia della religione su “Morte del cristianesimo e nascita della Chiesa”, che ha segnato la sua ricerca futura e le sue pratiche ecclesiali come membro e animatore di comunità di base.

Ebbe come professori i più prestigiosi maestri nei diversi campi della sua formazione, tra i quali: José Comblin e Gustavo Gutiérrez, in teologia, Luis Alonso Schökel, Carlo María Martini, poi arcivescovo di Milano, Pierre Grelot e Roland de Vaux negli studi biblici. Era un profondo conoscitore del marxismo nei suoi aspetti utopici, umanistici e critici, le cui analisi sociali, politiche ed economiche usava come mediazione socio-analitica per l’analisi della realtà latinoamericana, con i corrispondenti correttivi dal punto di vista del cristianesimo gesuano.

Nella nascita dei cristiani per il socialismo

Ha vissuto attivamente l’elezione di Salvador Allende e il processo democratico e pacifico di transizione al socialismo nel suo paese, il Cile, dove è nato il movimento cristiani per il socialismo, che successivamente si è diffuso in altri paesi, tra cui la Spagna nel 1973. Richard fu uno dei suoi fondatori, leader e teorici di spicco e su cui scrisse diverse opere. Il movimento ha cercato un dialogo pubblico e una convergenza tra cristianesimo e socialismo nella loro prospettiva etica liberatoria, entrambi liberati dai rispettivi dogmatismi e incompatibilità.

La dittatura di Pinochet lo costrinse a lasciare il Cile per recarsi in Francia, dove, secondo la sua stessa confessione, prese le distanze dalla Chiesa e dal sacerdozio. “È stato”, dice, “un esilio in ogni modo possibile, ma anche un momento difficile di riflessione e ricostruzione interiore”. Lì trovò una calda corrente di solidarietà, specialmente nei padri domenicani Chenu e Cosmao e nel teologo protestante George Casalis. L’incontro con monsignor Romero, arcivescovo martire di San Salvador, al suo ritorno in America Latina, lo ha segnato per sempre nella sua vita e nella sua teologia e ha significato la fine del suo esilio ecclesiale e l’integrazione nella Chiesa, dove ha assunto una nuova missione.

Nel 1978 si è trasferito a San José de Costa Rica per lavorare nel Dipartimento di Ricerca Ecumenica (DEI), un centro di dialogo fruttuoso tra Bibbia, teologia ed economia e un luogo di formazione di agenti di comunità di base, leader di movimenti sociali e giovani ricercatori, dove Paul ed io abbiamo condiviso incontri interdisciplinari arricchenti sotto la guida del prestigioso economista e teologo Frantz Himkelammert all’orizzonte della teologia della liberazione. In questo Centro, di cui è stato direttore, ha lavorato ininterrottamente per 40 anni, senza dubbio il più fecondo e creativo sia nel campo della formazione che nella produzione teologica e biblica.

Idolatria, legata all’oppressione

Vale la pena menzionare da questa produzione il lavoro collettivo di cui è stato coordinatore e co-autore La lucha de los dioses. The Idols of Oppression and the Search for the Liberating God, pubblicato dalla DEI nel 1980, che ha avuto un forte impatto soprattutto in America Centrale. In essa mostra che l’idolatria è intrinsecamente legata all’oppressione sia personale che strutturale e che la principale minaccia al cristianesimo non è l’ateismo, ma la corruzione religiosa, politica ed ecumenica del sistema dominante.

Richard ha partecipato ai dialoghi della teologia della liberazione latinoamericana con altre teologie dell’allora chiamato Terzo Mondo: teologie asiatiche e africane e teologia nera americana in una sfida profonda e arricchente all’interno dell’Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo, il cui primo incontro ha avuto luogo nel 1976 a Dar-es-Salaam (Tanzania). Questi incontri sono stati critici nei confronti della teologia eurocentrica, hanno denunciato il razzismo epistemologico occidentale e hanno posto le basi per la nascita di una teologia autonoma dei popoli del Sud, nel dialogo tra religioni e culture a livello di uguaglianza.

Come ho indicato all’inizio, il mio primo incontro con Pablo Richard avvenne nel 1983 al VI Incontro dell’Associazione Ecumenica dei Teologi del Terzo Mondo tenutosi presso la sede del Consiglio Mondiale a Ginevra sul tema “Fare teologia in un mondo diviso”, al quale furono invitati teologi degli Stati Uniti e dell’Europa. Dalla Spagna abbiamo partecipato la teologa femminista Margarita María Pintos de Cea-Naharro. Lì iniziò una lunga amicizia con Pablo Richard nutrito dalla teologia della liberazione, che entrambi coltiviamo, lui dall’America Latina e io dalla Spagna.

Un ruolo di primo piano in quell’incontro è stato svolto dalle teologhe femministe di liberazione che, pur apprezzando i contributi del femminismo del Primo Mondo, hanno riconosciuto che questo femminismo non aveva preso in considerazione con la serietà richiesta i fenomeni di razzismo, imperialismo e sfruttamento di classe, che hanno avuto conseguenze molto negative sulle donne nel Terzo Mondo.

Pilastri della teologia di Paul Richard

Quattro sono i pilastri su cui si fonda la teologia di Paul Richard: la pratica della liberazione, la Chiesa dei poveri, la lettura comunitaria popolare della Bibbia e la spiritualità. La sua teologia, politicamente, economicamente e socialmente impegnata, non si limita a pensare e interpretare il mondo, ma a trasformarlo, applicando ai teologi la tesi XI di Marx su Feuerbach: “I filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi, ma ciò che è in discussione è trasformarlo”.

Pablo Richard ha accompagnato i processi rivoluzionari latinoamericani, in particolare la rivoluzione sandinista in Nicaragua, attraverso la formazione dei leader del movimento cristiano di base e l’emergere di un altro modello di Chiesa che avrebbe sostenuto le trasformazioni politiche, religiose, sociali, ecumeniche e culturali del continente. Teoria e pratica della liberazione erano inseparabili nella sua vita e nel suo pensiero.

Ha svolto un ruolo fondamentale nel passaggio dalla “Chiesa del cristianesimo”, situata nella classe dominante e nelle strutture di potere, alla “Chiesa dei poveri”, situata nei settori impoveriti della società e orientata alla trasformazione delle relazioni ecclesiali gerarchico-patriarcali e autoritarie in strutture comunitarie e relazioni fraterno-sororali.

Richard ha creato il movimento di Lettura Popolare e Comunitaria della Bibbia volto alla formazione di operatori pastorali in tutta l’America Latina attraverso un’ermeneutica liberatrice della Bibbia come fonte di vita e di speranza, orientata alla trasformazione globale della società dall’opzione per le persone impoverite e collettive come soggetto collettivo privilegiato della parola di Dio.

Uno degli esempi più luminosi di tale lettura della Bibbia è l’Apocalisse. Ricostruzione della speranza (DEI, San José de Costa Rica, 1994), un libro di grande rigore esegetico nato e praticato in laboratori biblici. In esso studia il libro dell’Apocalissedel Nuovo Testamento, che è orientato alla ricostruzione della speranza in tempi di persecuzione, trasmette ai cristiani perseguitati una spiritualità di resistenza e propone un mondo alternativo. Riccardo non legge l’Apocalisse con un occhio alla fine del mondo e in modo catastrofico, ma dall’esperienza della risurrezione di Gesù di Nazareth. L’utopia proposta dall’Apocalisse non si riferisce all’aldilà della storia, ma a un mondo senza oppressione e senza una morte indegna. La rivelazione, afferma, “crea miti liberatori e sovverte i miti dominanti”.

Un altro dei pilastri della sua teologia è la spiritualità liberatrice, che nasce dall’incontro con il Dio dei poveri, della speranza e della vita, confrontato con l’idolatria del mercato e del capitale, convertito in assoluti a cui rendere omaggio. Questa spiritualità è governata dal principio evangelico anti-idolatrico: “Non puoi servire due padroni: Dio e il denaro” (Mt 6,24), che egli visse in modo esemplare e insegnò nel suo magistero biblico lacustre sia accademicamente che nella lettura comunitaria.

La memoria di Paolo Riccardo vivrà nella moglie Gabriela e nei figli, nelle comunità ecclesiali di base, nel mondo dell’accattonaggio da lui accompagnato e nei suoi libri, che continueranno a illuminare il nostro cammino verso l’utopia di un altro mondo possibile. Dalle sue numerose pubblicazioni consiglio di leggere quanto segue: Cristiani per il socialismo. Storia e documenti (1976), La Bibbia e la memoria dei poveri (1978); La Chiesa latinoamericana tra paura e speranza (1980); Apocalisse. La costruzione della speranza (1994); Il movimento Gesù davanti alla Chiesa (1998); Forza etica e spirituale della teologia della liberazione nel contesto della globalizzazione (2004) e, come editore, Dieci parole chiave sulla Chiesa in America Latina (2003).

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“verso un noi sempre più grande” – il titolo della giornata del migrante

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA 107ma GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO 2021

[26 settembre 2021]

“verso un noi sempre più grande”

Cari fratelli e sorelle!

Nella Lettera Enciclica Fratelli tutti ho espresso una preoccupazione e un desiderio, che ancora occupano un posto importante nel mio cuore: «Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”» (n. 35).
Per questo ho pensato di dedicare il messaggio per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato a questo tema: “Verso un noi sempre più grande”, volendo così indicare un chiaro orizzonte per il nostro comune cammino in questo mondo.
La storia del “noi”
Questo orizzonte è presente nello stesso progetto creativo di Dio: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”» (Gen 1,27-28). Dio ci ha creati maschio e femmina, esseri diversi e complementari per formare insieme un noi destinato a diventare sempre più grande con il moltiplicarsi delle generazioni. Dio ci ha creati a sua immagine, a immagine del suo Essere Uno e Trino, comunione nella diversità.
E quando, a causa della sua disobbedienza, l’essere umano si è allontanato da Dio, Questi, nella sua misericordia, ha voluto offrire un cammino di riconciliazione non a singoli individui, ma a un popolo, a un noi destinato ad includere tutta la famiglia umana, tutti i popoli: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3).
La storia della salvezza vede dunque un noi all’inizio e un noi alla fine, e al centro il mistero di Cristo, morto e risorto «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Il tempo presente, però, ci mostra che il noi voluto da Dio è rotto e frammentato, ferito e sfigurato. E questo si verifica specialmente nei momenti di maggiore crisi, come ora per la pandemia. I nazionalismi chiusi e aggressivi (cfr Fratelli tutti, 11) e l’individualismo radicale (cfr ibid., 105) sgretolano o dividono il noi, tanto nel mondo quanto all’interno della Chiesa. E il prezzo più alto lo pagano coloro che più facilmente possono diventare gli altri: gli stranieri, i migranti, gli emarginati, che abitano le periferie esistenziali.
In realtà, siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità. Per questo colgo l’occasione di questa Giornata per lanciare un duplice appello a camminare insieme verso a un noi sempre più grande, rivolgendomi anzitutto ai fedeli cattolici e poi a tutti gli uomini e le donne del mondo.
Una Chiesa sempre più cattolica
Per i membri della Chiesa Cattolica tale appello si traduce in un impegno ad essere sempre più fedeli al loro essere cattolici, realizzando quanto San Paolo raccomandava alla comunità di Efeso: «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,4-5).
Infatti la cattolicità della Chiesa, la sua universalità è una realtà che chiede di essere accolta e vissuta in ogni epoca, secondo la volontà e la grazia del Signore che ci ha promesso di essere con noi sempre, fino alla fine dei tempi (cfr Mt 28,20). Il suo Spirito ci rende capaci di abbracciare tutti per fare comunione nella diversità, armonizzando le differenze senza mai imporre una uniformità che spersonalizza. Nell’incontro con la diversità degli stranieri, dei migranti, dei rifugiati, e nel dialogo interculturale che ne può scaturire ci è data l’opportunità di crescere come Chiesa, di arricchirci mutuamente. In effetti, dovunque si trovi, ogni battezzato è a pieno diritto membro della comunità ecclesiale locale, membro dell’unica Chiesa, abitante nell’unica casa, componente dell’unica famiglia.
I fedeli cattolici sono chiamati a impegnarsi, ciascuno a partire dalla comunità in cui vive, affinché la Chiesa diventi sempre più inclusiva, dando seguito alla missione affidata da Gesù Cristo agli Apostoli: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8).
Oggi la Chiesa è chiamata a uscire per le strade delle periferie esistenziali per curare chi è ferito e cercare chi è smarrito, senza pregiudizi o paure, senza proselitismo, ma pronta ad allargare la sua tenda per accogliere tutti. Tra gli abitanti delle periferie troveremo tanti migranti e rifugiati, sfollati e vittime di tratta, ai quali il Signore vuole sia manifestato il suo amore e annunciata la sua salvezza. «I flussi migratori contemporanei costituiscono una nuova “frontiera” missionaria, un’occasione privilegiata di annunciare Gesù Cristo e il suo Vangelo senza muoversi dal proprio ambiente, di testimoniare concretamente la fede cristiana nella carità e nel profondo rispetto per altre espressioni religiose. L’incontro con migranti e rifugiati di altre confessioni e religioni è un terreno fecondo per lo sviluppo di un dialogo ecumenico e interreligioso sincero e arricchente» (Discorso ai Direttori Nazionali della Pastorale per i Migranti, 22 settembre 2017).
Un mondo sempre più inclusivo
A tutti gli uomini e le donne del mondo va il mio appello a camminare insieme verso un noi sempre più grande, a ricomporre la famiglia umana, per costruire assieme il nostro futuro di giustizia e di pace, assicurando che nessuno rimanga escluso.
Il futuro delle nostre società è un futuro “a colori”, arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali. Per questo dobbiamo imparare oggi a vivere insieme, in armonia e pace. Mi è particolarmente cara l’immagine, nel giorno del “battesimo” della Chiesa a Pentecoste, della gente di Gerusalemme che ascolta l’annuncio della salvezza subito dopo la discesa dello Spirito Santo: «Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (At 2,9-11).
È l’ideale della nuova Gerusalemme (cfr Is 60; Ap 21,3), dove tutti i popoli si ritrovano uniti, in pace e concordia, celebrando la bontà di Dio e le meraviglie del creato. Ma per raggiungere questo ideale dobbiamo impegnarci tutti per abbattere i muri che ci separano e costruire ponti che favoriscano la cultura dell’incontro, consapevoli dell’intima interconnessione che esiste tra noi. In questa prospettiva, le migrazioni contemporanee ci offrono l’opportunità di superare le nostre paure per lasciarci arricchire dalla diversità del dono di ciascuno. Allora, se lo vogliamo, possiamo trasformare le frontiere in luoghi privilegiati di incontro, dove può fiorire il miracolo di un noi sempre più grande.
A tutti gli uomini e le donne del mondo chiedo di impiegare bene i doni che il Signore ci ha affidato per conservare e rendere ancora più bella la sua creazione. «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”» (Lc 19,12-13). Il Signore ci chiederà conto del nostro operato! Ma perché alla nostra Casa comune sia assicurata la giusta cura, dobbiamo costituirci in un noi sempre più grande, sempre più corresponsabile, nella forte convinzione che ogni bene fatto al mondo è fatto alle generazioni presenti e a quelle future. Si tratta di un impegno personale e collettivo, che si fa carico di tutti i fratelli e le sorelle che continueranno a soffrire mentre cerchiamo di realizzare uno sviluppo più sostenibile, equilibrato e inclusivo. Un impegno che non fa distinzione tra autoctoni e stranieri, tra residenti e ospiti, perché si tratta di un tesoro comune, dalla cui cura come pure dai cui benefici nessuno dev’essere escluso.
Il sogno ha inizio
Il profeta Gioele preannunciava il futuro messianico come un tempo di sogni e di visioni ispirati dallo Spirito: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). Siamo chiamati a sognare insieme. Non dobbiamo aver paura di sognare e di farlo insieme come un’unica umanità, come compagni dello stesso viaggio, come figli e figlie di questa stessa terra che è la nostra Casa comune, tutti sorelle e fratelli (cfr Enc. Fratelli tutti, 8).

Preghiera
Padre santo e amato,
il tuo Figlio Gesù ci ha insegnato
che nei Cieli si sprigiona una gioia grande
quando qualcuno che era perduto
viene ritrovato,
quando qualcuno che era escluso, rifiutato o scartato
viene riaccolto nel nostro noi,
che diventa così sempre più grande.
Ti preghiamo di concedere a tutti i discepoli di Gesù
e a tutte le persone di buona volontà
la grazia di compiere la tua volontà nel mondo.
Benedici ogni gesto di accoglienza e di assistenza
che ricolloca chiunque sia in esilio
nel noi della comunità e della Chiesa,
affinché la nostra terra possa diventare,
così come Tu l’hai creata,la Casa comune di tutti i fratelli e le sorelle. Amen.
Roma, San Giovanni in Laterano, 3 maggio 2021, Festa dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo

Francesco

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il commento al vangelo della domenica

è di Dio chi regala un sorso di vita


È di Dio chi regala un sorso di vita
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della 26 domenica  tempo ordinario Anno B


In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. (…)».

Maestro, quell’uomo non è dei nostri. Quel forestiero che fa miracoli, ma che non è iscritto al gruppo; che migliora la vita delle persone, ma forse è un po’ eretico o troppo libero, viene bloccato. E a capo dell’operazione c’è Giovanni, il discepolo amato, il teologo fine, “il figlio del tuono”’, ma che è ancora figlio di un cuore piccolo, morso dalla gelosia. «Non ti è lecito rendere migliore il mondo se non sei dei nostri!». La forma prima della sostanza, l’iscrizione al gruppo prima del bene, l’idea prima della realtà! Invece Mosè, nella prima lettura, dà una risposta così liberante a chi gli riferisce di due che non sono nell’elenco eppure profetizzano: magari fossero tutti profeti…

La risposta di Gesù, l’uomo senza frontiere, è molto articolata e molto alla Mosè: Lascialo fare! Non tracciare confini. Il nostro scopo non è aumentare il numero di chi ci segue, ma far crescere il bene; aumentare il numero di coloro che, in molti modi diversi, possano fare esperienza del Regno di Dio, che è gioia, libertà e pienezza.

È grande cosa vedere che per Gesù la prova ultima della bontà della fede non sta in una adesione teorica al “nome”, ma nella sua capacità di trasmettere umanità, gioia, salute, vita. Chiunque regala un sorso di vita, è di Dio. Questo ci pone tutti, serenamente e gioiosamente, accanto a tanti uomini e donne, diversamente credenti o non credenti, che però hanno a cuore la vita e si appassionano per essa, che sono capaci di inventarsi miracoli per far nascere un sorriso sul volto di qualcuno. Il vangelo ci chiama a «stare accanto a loro, sognando la vita insieme» (Evangelii gaudium, 74).

Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua… non perderà la sua ricompensa.

Un po’ d’acqua, il quasi niente, una cosa così semplice e povera che nessuno ne è privo.

Gesù semplifica la vita: tutto il vangelo in un bicchiere d’acqua. Di fronte all’invasività del male, Gesù conforta: al male opponi il tuo bicchiere d’acqua; e poi fidati: il peggio non prevarrà.

Mosè e Gesù, maestri della fede, ci invitano a non piantare paletti ma ad amare gli orizzonti, a guardare oltre il cortile di casa, a tutto l’accampamento umano, a tutta la strada da percorrere: alzate gli occhi, non vedete quanti semi dello Spirito volano dappertutto? Quante persone lottano per la vita dei fratelli contro i démoni moderni: inquinamento, violenza, fake news, corruzione, economia che uccide? E se anche sono fuori dal nostro accampamento, sono comunque profeti. Sono quelli che ascoltano il grido dei mietitori non pagati (Giacomo 5,4) e ridanno loro parola, perché tutto ciò che riguarda l’avventura umana riguarda noi. Perché tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti.

(Letture: Numeri 11, 25-29; Salmo 18; Giacomo 5,1-6; Marco 9, 38-43.45.47-48)

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le teologhe italiane di fronte ai femminicidi

coordinamento teologhe italiane

“uomini che uccidono le donne”

Perché ancora si raccontano i femminicidi normalizzando i gesti degli assassini? Perché l’idea che l’esistenza delle donne valga meno di quella dei maschi non è affatto tramontata, e si infila dappertutto. Allora ci sono dei passi seri da fare, ci sono delle responsabilità a cui nessuno può sottrarsi. Chiese e “uomini perbene” inclusi.
 

Se a qualche persona fosse sfuggito il fatto che non solo “altrove”, ma qui – qui da noi, nelle nostre città, nelle nostre case – c’è una tragedia che si consuma quotidianamente, le cronache delle ultime settimane avrebbero dovuto togliere ogni velo dagli occhi: 8 donne uccise in dieci giorni. Se contiamo dall’inizio dell’anno sono 86, di cui 72 uccise in ambito familiare-affettivo; e in 51 casi l’assassino è il partner o l’ex.

Morte non perché si trovavano a passare in mezzo a una sparatoria o a un attentato. Ma perché ciò che i loro assassini hanno voluto sopprimere era il loro essere donne: la parola “femminicidio” – diceva già anni fa Michela Murgia – non indica il sesso della morta; indica il motivo per cui è stata uccisa.

Il punto è questo, ormai dovremmo saperlo, e non è più tollerabile che lo si dimentichi e non lo si assuma in tutta la sua portata.

E invece siamo ancora qui – per fortuna insieme a tante altre – a denunciare il modo in cui questi crimini vengono raccontati sui mass media. I quali sì, lo vedono bene che si tratta di una faccenda tra uomini e donne; ma la normalizzano. Perché lei era “bella e impossibile” o aveva un top nero, lei voleva lasciarlo (poi magari in una riga in mezzo all’articolo si scopre che erano anni che lui la picchiava) e lui soffriva tantissimo, ed è un brav’uomo che salutava sempre (quindi lei l’ha sicuramente esasperato, altrimenti non sarebbe successo) e ha avuto un raptus, e lei non aveva cucinato e usciva troppo, e lui non sopportava che lei avesse un altro… Quindi, per forza che poi succede che la uccide, no?

“Per forza” in che senso?

Eh, no. “Per forza” si dice quando ti sfugge un oggetto dalle mani e la gravità lo fa cadere a terra. Non per un femminicidio, non per lo stupro, non per le forme molteplici di violenza domestica e nelle relazioni intime, non per le infamie perpetrate da gruppi di maschi su Telegram, non per il catcalling (che sarebbe ad esempio quando cammini per strada pensando ai fatti tuoi e dei maschi ti urlano «abbèlla, non sai che ti farei…» e sostengono che è un complimento mentre tu ti disfi di paura, di umiliazione, di rabbia; e loro lo sanno, lo sanno fin troppo bene, altro che complimento).

A meno che… a meno che anche quando un uomo uccide o violenta o molesta sessualmente una donna non si presupponga che c’è una legge forte e insindacabile quanto quella gravitazionale, a cui coloro che raccontano e commentano sia adeguano. La legge per cui il mondo è del maschio, e quello che una donna vive, sente, desidera non conta. La sua vita, la sua dignità, il suo corpo, la sua libertà, il suo consenso non contano, o comunque contano meno. E tutto sommato quello che un uomo fa per riportare una donna “al suo posto” (il posto deciso da lui) va bene. Magari uccidere no – quello si condanna – ma solo perché è un eccesso, non perché sia sbagliato il sistema in sé. È questo che ancora ci arriva – condito spesso da disgustoso voyerismo – dalle tastiere di tante redazioni.

Allora questo “per forza” va continuamente svelato per quello che è: la prova certa che una cultura patriarcale, sessista e violenta abita i nostri mondi privati e pubblici e fa da humus alle manifestazioni estreme che ben conosciamo. Le rende “ovvie” – al pari degli stupri di guerra, che di ovvio non hanno proprio niente. È per questo che l’indignazione dell’opinione pubblica, quando c’è, fatica a tradursi in coscienza collettiva, in azioni condivise, in cambiamenti strutturali.

Da teologhe cristiane diciamo

In sintonia con altre realtà di donne impegnate nell’analisi e decostruzione dell’universo simbolico e pratico che sorregge tale sistema, le teologhe femministe da molto tempo lavorano perché le Chiese prendano coscienza delle proprie complicità – passate e presenti – rispetto a un ordine gerarchico fra i sessi che non è compatibile né con i diritti umani né con il vangelo[1].

Alcune prospettive in particolare ci sembrano oggi irrinunciabili:

  • La violenza contro le donne riguarda le Chiese

Sembra scontato, ma non lo è: nelle Chiese cristiane – seppure con differenze fra le diverse confessioni – la violenza maschile contro le donne non è considerata una priorità, e anzi persistono ampie sacche di negazionismo e minimizzazione (sia in generale che rispetto ai numerosissimi casi che avvengono dentro le Chiese).

Spesso anche nei contesti e nei documenti più sensibili alla qualità delle relazioni – dal livello privato a quello politico – essa è dimenticata o evocata solo con brevi accenni che ne oscurano il carattere pervasivo, strutturale e paradigmatico.

C’è quindi bisogno di un lavoro sistematico e condiviso, che grazie al lavoro di tante studiose anche italiane può avvalersi di numerosi e qualificati strumenti utili per rileggere la tradizione, le teologie, le pratiche pastorali, l’ecclesiologia, l’uso dei testi biblici ecc. Perché il paradigma del dominio e della “voce unica” si infila anche nelle catechesi più moderne, nelle omelie più ispirate, nei convegni più illuminati, nei tiktok e nei blog più frizzanti.

  • Come e a cosa educhiamo?

Sappiamo che in molti modi la cultura occidentale trasmette ai maschi una mentalità di violenza contro le donne addestrandoli al dominio, al controllo, all’“onore”, alla superiorità; e questa stessa cultura tende a insegnare alle donne la sottomissione a questa violenza, ad accettare legami ingiusti, a esporsi a ciò che non le fa vivere e a credere che la sottomissione al desiderio maschile sia una via di realizzazione personale e un mezzo per rendere migliore il mondo.

Siamo quindi di fronte a un’emergenza anzitutto educativa, che richiede un livello di intervento profondo e costante, paziente e inesorabile per lavorare sui modelli culturali, per decostruire stereotipi di genere che annientano la vita, per imparare a essere uomini e donne in modo nuovo, insieme.

Riteniamo fondamentale l’impegno di coloro che – nell’ottica del comma 16 della L. 107/2015, dell’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030 e della Convenzione di Istanbul – si spendono per una pedagogia e una didattica capaci di decostruire quei messaggi e sostenere relazioni educative e paradigmi culturali fondati sulla parità, la dignità, la libertà e l’inclusione.

Crediamo però che anche nei contesti ecclesiali sia necessaria la stessa cura e attenzione nei percorsi educativi e formativi che coinvolgono l’infanzia, le fasce giovanili e le generazioni adulte, famiglie comprese: una generica “attenzione alla persona” non basta a decodificare e mutare la realtà.

  • La questione è maschile

La violenza contro le donne e il sistema che la sostiene non sono una “questione femminile”. Le donne ne fanno le spese, certo; possono adeguarsi; possono anche esserne complici, andando contro sé stesse.

Ma la questione è maschile, e sono gli uomini innanzitutto che devono assumerla, perché riguarda la costruzione della loro maschilità, l’eredità ricevuta, le scelte che si possono e si vogliono fare per uscire dalle gabbie di un’identità che è stata strutturalmente legata al dominio e al controllo sulle donne, all’autorità, all’illusione della non parzialità e dell’invulnerabilità. In questo senso nessun uomo, per quanto “perbene”, può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi.

Lentamente gli uomini cristiani stanno cominciando a seguire l’esempio dei gruppi maschili che da qualche tempo lavorano in questa direzione.

Auspichiamo che i passi di alcuni diventino di molti e di tutti, per avviarsi verso una maschilità che non tradisca, come invece è successo finora, quella paradigmatica di Gesù[2].

Molto del futuro delle Chiese – su cui grava anche la millenaria e distorcente associazione fra maschile e sacro – dipende dall’ampiezza e dalla profondità di questa conversione.

* * * *

[1] Si veda ad es. Elizabeth E. Green, Cristianesimo e violenza contro le donne, Claudiana, Torino 2015; Paola Cavallari (a cura di), Non solo reato, anche peccato. Religioni e violenza contro le donne, Effatà, Cantalupa 2018.

[2] La illustra ampiamente Simona Segoloni RutaGesù, maschile singolare, EDB, Bologna 2020.

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le teologhe italiane e la violenza contro le donne

a proposito dei femminicidi

“la violenza contro le donne riguarda le Chiese” e non è “una questione femminile”

foto SIR/Marco Calvarese

“La violenza contro le donne riguarda le Chiese” 

È quanto scrive il Consiglio di presidenza delle teologhe italiane, in un comunicato sulla piaga dei femminicidi. “Nelle Chiese cristiane – la denuncia – la violenza maschile contro le donne non è considerata una priorità, e anzi persistono ampie sacche di negazionismo e minimizzazione (sia in generale che rispetto ai numerosissimi casi che avvengono dentro le Chiese). Di qui la necessità di “un lavoro sistematico e condiviso, che grazie al lavoro di tante studiose anche italiane può avvalersi di numerosi e qualificati strumenti utili per rileggere la tradizione, le teologie, le pratiche pastorali, l’ecclesiologia, l’uso dei testi biblici. Perché il paradigma del dominio e della ‘voce unica’ si infila anche nelle catechesi più moderne, nelle omelie più ispirate, nei convegni più illuminati, nei tiktok e nei blog più frizzanti”. “Siamo di fronte a un’emergenza anzitutto educativa, che richiede un livello di intervento profondo e costante, paziente e inesorabile per lavorare sui modelli culturali, per decostruire stereotipi di genere che annientano la vita, per imparare a essere uomini e donne in modo nuovo, insieme”, la tesi delle teologhe, che auspicano “una pedagogia e una didattica capaci di decostruire quei messaggi e sostenere relazioni educative e paradigmi culturali fondati sulla parità, la dignità, la libertà e l’inclusione”, anche nei contesti ecclesiali. La violenza contro le donne e il sistema che la sostiene non sono una “questione femminile”, il monito del documento: “Le donne ne fanno le spese, certo; possono adeguarsi; possono anche esserne complici, andando contro sé stesse. Ma la questione è maschile, e sono gli uomini innanzitutto che devono assumerla, perché riguarda la costruzione della loro maschilità, l’eredità ricevuta, le scelte che si possono e si vogliono fare per uscire dalle gabbie di un’identità che è stata strutturalmente legata al dominio e al controllo sulle donne, all’autorità, all’illusione della non parzialità e dell’invulnerabilità. In questo senso nessun uomo, per quanto ‘perbene’, può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi”.

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il commento al vangelo della domenica

chi accoglie e abbraccia un bambino accoglie Dio


Chi accoglie e abbraccia un bambino accoglie Dio
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della XXV domenica tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». […] Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. […]

Un’alternanza di strade e di case: i tre anni di Galilea sono raccontati così da Marco. Sulla strada si cammina al ritmo del cuore; si avanza in gruppo; qualcuno resta un po’ indietro, qualcun’altro condivide chiacchiere leggere con un amico, lasciando fiorire parole autentiche e senza maschere. Gesù ha lasciato liberi i discepoli di stare tra loro, per tutto il tempo che vogliono, con i pensieri che hanno, con le parole che sanno, senza stare loro addosso, controllare tutto, come un genitore ansioso. Poi il Vangelo cambia ambientazione: giungono in casa, e allora cambia anche la modalità di comunicazione di Gesù: sedutosi, chiamò i dodici e disse loro (sedette, chiamò, disse sono tre verbi tecnici che indicano un insegnamento importante): di cosa stavate parlando? Di chi è il più grande. Questione infinita, che inseguiamo da millenni, su tutta la terra. Questa fame di potere, questa furia di comandare è da sempre un principio di distruzione nella famiglia, nella società, nella convivenza tra i popoli. Gesù si colloca a una distanza abissale da tutto questo: se uno vuol essere il primo sia il servo. Ma non basta, c’è un secondo passaggio: “servo di tutti”, senza limiti di gruppo, di famiglia, di etnìa, di bontà o di cattiveria. Non basta ancora: «Ecco io metto al centro un bambino», il più inerme e disarmato, il più indifeso e senza diritti, il più debole e il più amato! Proporre un bambino come modello del credente è far entrare nella religione l’inaudito. Cosa sa un bambino? Il gioco, il vento delle corse, la dolcezza degli abbracci. Non sa di filosofia, di teologia, di morale. Ma conosce come nessuno la fiducia, e si affida. Gesù ci propone un bambino come padre nella fede. «Il bambino è il padre dell’uomo» (Wordsworth). I bambini danno ordini al futuro, danno gioia al quotidiano. La casa ha offerto il suo tesoro, un cucciolo d’uomo, parabola vivente, piccola storia di vita che Gesù fa diventare storia di Dio: Chi lo abbraccia, abbraccia me! Gesù offre il suo tesoro: il volto di un Dio che è non onnipotenza ma abbraccio: ci si abbraccia per tornare interi (A. Merini), neanche Dio può stare solo, non è “intero” senza noi, senza i suoi amati. Chi accoglie un bambino accoglie Dio! Parole mai dette prima, mai pensate prima. I discepoli ne saranno rimasti sconcertati: Dio come un bambino! Vertigine del pensiero. L’Altissimo e l’Eterno in un bambino? Se Dio è come un bambino significa che devi prendertene cura, va accudito, nutrito, aiutato, accolto, gli devi dare tempo e cuore (E. Hillesum). Non puoi abbandonare Dio sulla strada. Perché Dio non sta dappertutto, sta soltanto là dove lo si lascia entrare (M. Buber).

(Letture: Sapienza 2,12.17-20; Salmo 53; Lettera di san Giacomo 3,16-4,3; Marco 9,30-37)

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‘oltre il campo’ per i rom ei sinti? un convegno della ‘migrantes’

Rom e Sinti

percorsi di inclusione, per andare “oltre il campo”

il convegno organizzato da Fondazione Migrantes e Associazione 21 luglio, con la diocesi di Roma

il vescovo Ambarus: «È fondamentale la comunità»

la testimonianza di Hanifa e Marijo. Loukarelis (Unar): «Non si può lasciare nessuno indietro. Ne va della qualità della democrazia»

Passare da un campo rom a un appartamento è possibile. Desiderare un futuro diverso per i propri figli, permettere loro di vivere in modo decoroso in un luogo dove ci sono l’acqua e la corrente elettrica non è un’utopia. Sognare di avere un lavoro non è un’illusione. Lo hanno testimoniato Hanifa e Marijo che ieri sera, 13 settembre, hanno preso la parola durante il convegno “Oltre il campo. Superare i campi rom in Italia: dalle sperimentazioni di ieri alle certezze di oggi”, organizzato da Fondazione Migrantes e Associazione 21 luglio in collaborazione con la diocesi di Roma. Un incontro che non ha messo in luce la vita nei campi «in maniera pietistica ma ha mantenuto lo sguardo sulla dignità delle persone, che va salvaguardata aiutando i rom a non sentirsi schiacciati», ha affermato il vescovo Benoni Ambarus, ausiliare della diocesi di Roma che ha anche la delega alla pastorale dei Rom e Sinti.

Marijo si trasferì con la famiglia in un insediamento abusivo a Tor di Valle quando aveva 4 anni. Hanifa ha abitato in un campo per dieci anni. «Vivere in un campo rom è un disastro – ha detto -. Non hai pace ma solo immondizia ovunque». Entrambi da poco più di un anno si sono trasferiti in appartamenti con le rispettive famiglie. Hanifa sogna di lavorare per i diritti umani, Marijo di aprire un salone di parrucchiere per garantire un futuro ai figli e ad altri rom. Vive a Torre Gaia dove è stato «accolto bene», i figli vanno a scuola e hanno fatto nuove amicizie. Sul concetto di accoglienza si è soffermato monsignor Ambarus che tirando le fila del convegno ha spiegato che «non basta una casa, non c’è bisogno di un approccio puramente economico che porta a chiudere un campo perché si spende meno e il criterio non deve essere solo la sicurezza. È fondamentale la comunità, termine abusato ma che si fatica a vivere. Comunità significa essere consapevoli che tutti sono esseri umani». A tal proposito ha ricordato che come diocesi di Roma l’auspicio è quello di «vivere il superamento di campi rom facilitando la creazione di legami di comunità tra parrocchie, associazionismo, istituzioni e tutte le realtà di un determinato territorio. Una sfida che non si può declinare solo a parole».

Anche don Giovanni De Robertis, direttore generale della Fondazione Migrantes, ha rimarcato che come Chiesa si deve rivendicare «la difesa della dignità di ogni essere umano in un momento in cui purtroppo alcuni, con sfrontatezza, ritengono che ci siano essere umani di serie A ed esseri umani che sono inferiori. Persone a cui spetta tutto, anche il superfluo, e altre per cui non c’è neanche l’indispensabile. La casa non è qualcosa di superfluo ma di essenziale».

Durante il convegno è stata illustrata una ricerca dell’Associazione 21 luglio pubblicata da Fondazione Migrantes che traccia un’analisi comparativa degli interventi messi in atto in dieci città italiane, con esempi virtuosi di comuni come Moncalieri, Palermo e Sesto Fiorentino, dove i campi rom sono stati chiusi favorendo percorsi di inclusione. La ricerca, per Triantafillos Loukarelis, direttore dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) presso la presidenza del Consiglio dei ministri, «indica una possibilità e un nuovo trend da parte delle amministrazioni locali, che hanno compreso finalmente che non si può lasciare nessuno indietro perché ne va della qualità della democrazia. È la dimostrazione che l’esclusione delle persone non ha nessun senso logico se non quella di una visione distorta della società».

Illustrando le linee guida per superare i campi rom e costruire percorsi di inclusione, che a Roma riguardano 400 persone, Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, ha spiegato che tra le azioni da compiere una volta individuati gli interventi e definite le risorse è imperativo che si prendano in carico tutte le famiglie dell’insediamento. «Non si tratta di una sola questione etica – ha detto – è anche e soprattutto un parametro di efficacia. È fondamentale prevedere interventi di inclusione condivisi e negoziati con ogni singola famiglia».

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nata dietro le sbarre in una cella del carcere, una piccola rom

la piccola rom nata in carcere per colpa di una email

di Gad Lerner
in “il Fatto Quotidiano” del 14 febbraio 2021

Non ha trovato che minimo spazio una notizia che, in un Paese civile, avrebbe dovuto finire in prima pagina. La notte dello scorso 3 settembre nel carcere di Rebibbia, cioè nella Capitale d’Italia, una bambina è venuta al mondo dietro le sbarre di una cella. Non dico in infermeria. Proprio in cella l’ha partorita sua madre Amra, una rom di 23 anni arrestata per furto a fine luglio scorso. L’unica assistenza le è giunta dalla compagna di detenzione Marinela, a sua volta incinta al quinto mese, che poi ha avvolto la neonata in un asciugamano e, gridando, è finalmente riuscita a richiamare  l’attenzione delle guardie. Questo infame luogo di nascita la bimba non se lo troverà inscritto sulla carta d’identità, ma rimane il marchio di un destino segnato: nata in galera, perché nessuno ha risposto a una email della Garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, che il 17 agosto chiedeva di trasferire la donna nell’apposita casa famiglia protetta, di cui forniva nome, indirizzo e disponibilità. Mi piacerebbe poter sperare che almeno uno dei quattro candidati sindaci di Roma voglia assumersi l’impegno di un risarcimento, affinché la vita futura di questa creatura, e della sua giovane madre che ha già altri tre figli, non si riduca a un entra/esci dalla prigione ma – pur con tutte le difficoltà del caso – segua un percorso di reinserimento sociale. Trattandosi di rom, temo che sia un’illusione.
Viene riversata su queste donne l’accusa di farsi mettere incinte apposta per poter continuare a delinquere, il che giustificherebbe la loro detenzione. In realtà si tratta di pochissimi casi. Del resto,  fino a cinquant’anni fa, in Svizzera ne era contemplata la sterilizzazione forzata. Quelli del“rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave” devono mettere per forza nel conto anche i bambini in carcere. Magari fin dal primo respiro

 

nascere in carcere nel 2021, in Italia

di Giusi Fasano
in “Corriere della Sera” del 13 settembre 2021

«Dove sei nata?», le chiederanno chissà quante volte nella vita. «In carcere», risponderà lei. È venuta al mondo l’altra notte, nella casa circondariale di Rebibbia. Non sappiamo come si chiami ma certo sappiamo quale nome sarebbe di buon augurio, date le circostanze. Libera sarebbe il suo nome perfetto. Sua madre ha più guai che anni e lei, che è la quarta figlia, avrebbe dovuto proteggerla dall’arresto perché lo sanno tutti (o quasi) che una donna incinta non dovrebbe finire in cella. Invece no. La legge stavolta ha scelto la «misura di maggior rigore», come ha scritto la giudice che ha deciso di tenerla in cella temendo che la detenuta potesse tornare a «commettere fatti analoghi», cioè furti. Italiana di origini bosniache, 23 anni, senza lavoro, residente in un campo rom e con il compagno disoccupato, la mamma di Libera non aveva credibilità da offrire in pegno al sistema Giustizia italiano. Ma aveva il pancione, quello sì. E davanti a quella condizione sarebbe                     
toccato al sistema Giustizia garantirle un modo migliore per mettere al mondo la piccola. Dopo le prime contrazioni l’ha aiutata la sua compagna di cella, sono intervenuti medico e infermiera ma non c’è stato il tempo di portarla in ospedale. E sì che il suo legale aveva insistito per la revoca della carcerazione, la ragazza era stata anche ricoverata al Pertini di Roma per una minaccia di aborto pochi giorni prima di partorire. Ma niente: era rientrata in cella. La garante dei detenuti di Roma aveva scritto al tribunale proponendo di trasferirla in una casa rifugio per detenute con figli piccoli. Zero risposte. Così nascere in carcere, per Libera, è diventato di fatto un «danno collaterale» del curriculum penale di sua madre. Stanno bene, mamma e bimba, ma la storia in sé fa una tristezza infinita, come fanno tristezza i 25 bambini da zero a sei anni attualmente «detenuti» assieme alle loro madri nelle carceri italiane o negli Icam, gli istituti di custodia attenuata. Piccoli prigionieri degli errori degli adulti. Qualunque sia il crimine commesso dalle loro madri, i bambini dietro le sbarre sono una sconfitta per tutti. E sarebbe meraviglioso se con l’eco della sua storia la nostra piccola Libera facesse così tanto rumore da farli uscire tutti. Allora sì, nascere in carcere sarebbe almeno servito a qualcosa.

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