la giornata della pace all’insegna della ‘cultura della cura’

LA CULTURA DELLA CURA COME PERCORSO DI PACE

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA LIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1° GENNAIO 2021

(una sintesi)

La vita e il ministero di Gesù incarnano l’apice della rivelazione dell’amore del Padre per l’umanità. Nella sinagoga di Nazaret, Gesù si è manifestato come Colui che il Signore ha consacrato e «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Nella sua compassione, Cristo si avvicina ai malati nel corpo e nello spirito e li guarisce; perdona i peccatori e dona loro una vita nuova. Gesù è il Buon Pastore che si prende cura delle pecore; è il Buon Samaritano che si china sull’uomo ferito, medica le sue piaghe e si prende cura di lui (cfr Lc 10,30-37).

Le opere di misericordia spirituale e corporale costituiscono il nucleo del servizio di carità della Chiesa primitiva. I cristiani della prima generazione praticavano la condivisione perché nessuno tra loro fosse bisognoso (cfr At 4,34-35) e si sforzavano di rendere la comunità una casa accogliente, aperta ad ogni situazione umana, disposta a farsi carico dei più fragili. Divenne così abituale fare offerte volontarie per sfamare i poveri, seppellire i morti e nutrire gli orfani, gli anziani e le vittime di disastri, come i naufraghi.
La diakonia delle origini, arricchita dalla riflessione dei Padri e animata, attraverso i secoli, dalla carità operosa di tanti testimoni luminosi della fede, è diventata il cuore pulsante della dottrina sociale della Chiesa, offrendosi a tutte le persone di buona volontà come un prezioso patrimonio di principi, criteri e indicazioni, da cui attingere la “grammatica” della cura: la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà con i poveri e gli indifesi, la sollecitudine per il bene comune, la salvaguardia del creato.
Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune, ossia dell’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente. La solidarietà esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti.
Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani. Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si potranno separare in modo da essere trattate singolarmente, a pena di ricadere nuovamente nel riduzionismo.
La bussola dei principi sociali, necessaria a promuovere la cultura della cura, è indicativa per le relazioni tra le Nazioni, che dovrebbero essere ispirate alla fratellanza, al rispetto reciproco, alla solidarietà e all’osservanza del diritto internazionale. A tale proposito, vanno ribadite la tutela e la promozione dei diritti umani fondamentali, che sono inalienabili, universali e indivisibili. Va richiamato anche il rispetto del diritto umanitario, soprattutto in questa fase in cui conflitti e guerre si susseguono senza interruzione.
La promozione della cultura della cura richiede un processo educativo e la bussola dei principi sociali costituisce, a tale scopo, uno strumento affidabile per vari contesti tra loro correlati. Vorrei fornire al riguardo alcuni esempi. L’educazione alla cura nasce nella famiglia, nucleo naturale e fondamentale della società, dove s’impara a vivere in relazione e nel rispetto reciproco. Sempre in collaborazione con la famiglia, altri soggetti preposti all’educazione sono la scuola e l’università, e analogamente, per certi aspetti, i soggetti della comunicazione sociale. Le religioni in generale, e i leader religiosi in particolare, possono svolgere un ruolo insostituibile nel trasmettere ai fedeli e alla società i valori della solidarietà, del rispetto delle differenze, dell’accoglienza e della cura dei fratelli più fragili.
La cultura della cura, quale impegno comune, solidale e partecipativo per proteggere e promuovere la dignità e il bene di tutti, quale disposizione ad interessarsi, a prestare attenzione, alla compassione, alla riconciliazione e alla guarigione, al rispetto mutuo e all’accoglienza reciproca, costituisce una via privilegiata per la costruzione della pace.   In questo tempo, nel quale la barca dell’umanità, scossa dalla tempesta della crisi, procede faticosamente in cerca di un orizzonte più calmo e sereno, il timone della dignità della persona umana e la “bussola” dei principi sociali fondamentali ci possono permettere di navigare con una rotta sicura e comune. Come cristiani, teniamo lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, Stella del mare e Madre della speranza. Tutti insieme collaboriamo per avanzare verso un nuovo orizzonte di amore e di pace, di fraternità e di solidarietà, di sostegno vicendevole e di accoglienza reciproca. Non cediamo alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo, ma impegniamoci ogni giorno concretamente per «formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri




il commento al vangelo della domenica

vecchiaia del mondo e giovinezza eterna di Dio


Vecchiaia del mondo e giovinezza eterna di Dio
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica della   Santa Famiglia di Gesù  Giuseppe e Maria – Anno B


Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore
– com’è scrittonella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi (…). Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo (…) gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore (…).

Portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.
Una giovanissima coppia e un neonato che portano la povera offerta dei poveri: due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino. Vengono nella casa del Signore e sulla soglia è il Signore che viene loro incontro attraverso due creature intrise di vita e di Spirito, due anziani, Simeone e Anna, occhi stanchi per la vecchiaia e giovani per il desiderio: la vecchiaia del mondo accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio. E la liturgia che si compie, in quel cortile aperto a tutti, è naturale e semplice, naturale e perciò divina: Simeone prende in braccio Gesù e benedice Dio. Compie un gesto sacerdotale, una autentica liturgia, possibile a tutti. Un anziano, diventato onda di speranza, una laica sotto l’ala dello Spirito benedicono Dio e il figlio di Dio: la benedizione non è un ufficio d’élites, ma esubero di gioia che ciascuno può offrire a Dio (R. Virgili). Anche Maria e Giuseppe sono benedetti, tutta la famiglia viene avvolta da un velo di luce per la benedizione e la profezia di quella coppia di anziani laici, profeti e sacerdoti a un tempo: la benedizione e la profezia non sono riservate ad una categoria sacra, abitano nel cortile aperto a tutti. Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia. Parole che sono per me e per te: io non morirò senza aver visto l’offensiva di Dio, l’offensiva della luce già in atto dovunque, l’offensiva mite e possente del lievito e del granello di senape. Poi Simeone dice tre parole immense su Gesù: egli è qui come caduta, risurrezione, come segno di contraddizione. Gesù come caduta. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, rovina del nostro mondo di maschere e bugie, della vita insufficiente e malata. Venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare ciò che è contro l’umano. Egli è qui per la risurrezione: è la forza che ti fa rialzare quando credi che per te è finita, che ti fa partire anche se hai il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. È qui e assicura che vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. Cristo contraddizione del nostro illusorio equilibrio tra il dare e l’avere; che contraddice tutta la mia mediocrità, tutte le mie idee sbagliate su Dio. Caduta, risurrezione contraddizione. Tre parole che danno respiro e movimento alla vita, con dentro il luminoso potere di far vedere che tutte le cose sono ormai abitate da un oltre. La figura di Anna chiude il grande affresco. Una donna profeta! Un’altra, oltre ad Elisabetta e Maria, capaci di incantarsi davanti a un neonato perché sentono Dio come futuro.
(Letture: Genesi 15, 1-6; 21,1-3; Salmo 104; Ebrei 11,8.11-12.17-19; Luca 2, 22-40)




gli auguri natalizi … ma ‘sovversivi’ del vescovo Hélder Càmara

 

«Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.»
dom Hélder Câmara

“Mi piace pensare al Natale come ad un atto di sovversione… Un bambino povero, una ragazza madre, un papá adottivo…

Chi assiste alla sua nascita é gente messa ai margini della societá, i pastori. Riceve doni da persone di “altre religioni”.

La sua famiglia deve fuggire e cosí diventa un rifugiato politico, un profugo.

Poi ritornano, e vanno a vivere in periferia.

Il resto della storia noi la celebriamo nella Pasqua…ma con lo stesso carattere sovversivo.

La rivoluzione verrá dai poveri. Solo da loro potrá venire la salvezza.

BUON NATALE

Buona Sovversione…

Erber Camara




il commento al vangelo della domenica

la Madonna è la radice di carne del vangelo


La Madonna è la radice di carne del Vangelo
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di avvento:

IV Domenica di Avvento
Anno B

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. […]

In apertura, un elenco di sette nomi affolla la pagina: Gabriele, Dio, Galilea, Nazareth, Giuseppe, Davide, Maria. Sette, il numero appunto della totalità, perché ciò che sta per accadere coinvolgerà tutta la storia, le profondità del cielo e tutto il brulichio perenne della vita. Un Vangelo controcorrente: per la prima volta nella Bibbia un angelo si rivolge a una donna; in una casa qualunque e non nel santuario; nella sua cucina e non fra i candelabri d’oro del tempio. In un giorno ordinario, segnato però sul calendario della vita (nel sesto mese…). Gioia è la prima parola: rallegrati! Vangelo nel Vangelo! E subito ecco il perché: Maria, sei piena di grazia. Sei riempita di cielo, non perché hai risposto “sì” a Dio, ma perché Dio per primo ha detto “sì” a te. E dice “sì” a ciascuno di noi, prima di ogni nostra risposta. Perché la grazia sia grazia e non merito o calcolo. Dio non si merita, si accoglie. L’Altissimo si è innamorato di te e ora il tuo nome è: amata per sempre; come lei anch’io amato per sempre. Tutti, teneramente, gratuitamente amati per sempre. Amore è passione di unirsi: il Signore è con te. Espressione che avrebbe dovuto mettere in guardia la ragazza, perché quando si esprime così Dio sta affidando un compito bellissimo ma arduo (R. Virgili): chiama Maria a una storia di brividi e di coraggio. Maria, avrai un figlio, tuo e di Dio, un figlio di terra e di cielo. Gli darai nome Gesù (prima volta: solo il padre aveva il potere di dare il nome). E la ragazza, pronta, intelligente e matura, dopo il primo turbamento non ha paura, dialoga, obietta, argomenta. Sta davanti a Dio con tutta la dignità di donna, con maturità e consapevolezza, pone domande: spiegami, dimmi come avverrà. Zaccaria ha chiesto un segno, Maria chiede il senso e il come. E l’angelo: viene l’infinito nel tuo sangue, l’immenso diventa piccolo in te, che importa il come? La luce che ha generato gli universi si aggrappa al buio del tuo grembo. Che importa come avverrà? E tuttavia Gabriele si ferma a spiegare l’inspiegabile, a rassicurarla: parla di Spirito sulle acque come all’origine, di ombra sulla tenda come al Sinai, la invita a pensare in grande, più in grande che può: fìdati, sarà Lui a trovare il come. L’ha trovato anche per Elisabetta. Lo sentirai nel tuo corpo, come lei. Lo Spirito poteva scegliere altre strade, certo, ma senza il corpo di Maria il Vangelo perde corpo, diventa ideologia o etica. Adesso ancora Dio cerca madri. Sta a noi, come madri amorevoli, aiutare il Signore a incarnarsi in questo mondo, in queste case e strade, prendendoci cura della sua parola, dei suoi sogni, del suo vangelo. Dio vivrà per il nostro amore.
(Letture: 2 Samuele 7,1-5.8-12.14.16; Salmo 88; Romani 16,25-27; Luca 1,26-38)




il commento al vangelo della domenica

Giovanni Battista

il testimone della luce


Giovanni Battista il testimone della luce
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della  III Domenica di Avvento

Anno B

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo» (…).

Venne Giovanni mandato da Dio, venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce. A una cosa sola: alla luce, all’amica luce che per ore e ore accarezza le cose, e non si stanca. Non quella infinita, lontana luce che abita nei cieli dei cieli, ma quella ordinaria, luce di terra, che illumina ogni uomo e ogni storia.
Giovanni è il “martire” della luce, testimone che l’avvicinarsi di Dio trasfigura, è come una manciata di luce gettata in faccia al mondo, non per abbagliare, ma per risvegliare le forme, i colori
e la bellezza delle cose, per allargare l’orizzonte. Testimone che la pietra angolare su cui poggia la storia non è il peccato ma la grazia, non il fango ma un raggio di sole, che non cede mai.
Ad ogni credente è affidata la stessa profezia del Battista: annunciare non il degrado, lo sfascio, il marcio che ci minaccia, ma occhi che vedono Dio camminare in mezzo a noi, sandali da pellegrino e cuore di luce: in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete.
Sacerdoti e leviti sono scesi da Gerusalemme al Giordano, una commissione d’inchiesta istituzionale, venuta non per capire ma per
coglierlo in fallo: Tu chi credi di essere? Elia? Il profeta che tutti aspettano? Chi sei? Perché battezzi? Sei domande sempre più incalzanti. Ad esse Giovanni risponde “no”, per tre volte, lo fa con risposte sempre più brevi: anziché replicare “io sono” preferisce dire “io non sono”. Si toglie di dosso immagini gratificanti, prestigiose, che forse sono perfino pronti a riconoscergli.
Locuste, miele selvatico, una pelle di cammello, quell’uomo roccioso e selvatico, di poche parole, non vanta nessun merito, è l’esatto contrario di un pallone gonfiato, come capita così di frequente sulle nostre scene. Risponde non per addizione di meriti, titoli, competenze, ma per sottrazione: e ci indica così il cammino verso l’essenziale. Non si è profeti per accumulo, ma per spoliazione.
Io sono voce, parlo parole non mie, che vengono da prima di me, che vanno oltre me. Testimone di un altro sole. La mia identità sta dalle parti di Dio, dalle parti delle mie sorgenti. Se Dio non è, io non sono, vivo di ogni parola che esce dalla sua bocca.
La voce rigorosa del profeta ci denuda: Io non sono il mio ruolo o la mia immagine. Non sono ciò che gli altri dicono di me. Ciò che mi fa umano è il divino in me; lo specifico dell’umanità è la divinità. La vita viene da un Altro, scorre nella persona, come acqua nel letto di un ruscello. Io non sono quell’acqua, ma senza di essa io non sono più.
«Chi sei tu?». Io cerco l’elemosina di una voce che mi dica chi sono veramente. Un giorno Gesù darà la risposta, e sarà la più bella: Voi siete luce! Luce del mondo.
(Letture: Isaia 61, 1-2.10-11; Luca 1; 1 Tessalonicesi 5,16-24; Giovanni 1, 6-8.19-28).




salvarsi insieme in tempo di covid – la consegna spirituale di p. Sorge

NOI E LA PANDEMIA 

IL TESTAMENTO DEL GESUITA PADRE SORGE

o insieme ci salviamo o insieme moriamo

UN DIALOGO  , UNA RIFLESSIONE SUL NOSTRO TEMPO NEL LIBRO POSTUMO DEL PADRE SORGE

DOPO IL COVID, OCCORRE “RIPENSARCI, RICOSTRUIRE UN’ITALIA E UN’EUROPA ATTORNO A UN NUOVO UMANESIMO, BASATO SU ETICA E SOLIDARIETÀ”

di Bartolomeo Sorge

In questo lungo periodo della pandemia, praticamente ho fatto vita da recluso o, più propriamente, da eremita. Infatti, il Superiore del nostro istituto Aloisianum a Gallarate, è stato molto rigido: nessun padre può uscire di casa e nessun estraneo vi può entrare. In pratica, ci ha messi tutti in quarantena!
Tanto rigore si spiega non solo in fedeltà alle disposizioni governative, ma anche perché l’istituto Aloisianum, antica sede della nostra facoltà filosofica, è stata trasformata in infermeria per i gesuiti anziani o ammalati: se vi entrasse il virus, sarebbe una strage! Del resto, il Covid ha fermato l’intera umanità, tanto che ho avuto la sensazione di assistere alle prove generali del Giudizio Universale! Molte volte mi sono chiesto: “Come farà l’intera umanità, una popolazione di miliardi e miliardi, a prendere visione e a rendere conto della storia intera di millenni, tutti insieme e nello stesso momento?”. Il fatto che un virus, minuscolo e invisibile, sia riuscito a bloccare contemporaneamente l’umanità intera, obbligando gli individui di tutte le latitudini a chiudersi in casa e a riflettere sulla gravità della situazione, mi ha fatto pensare istintivamente al Giudizio Universale. Infatti, tutti abbiamo preso consapevolezza del fatto che l’umanità è una sola grande famiglia, che c’è un destino comune di cui tutti siamo corresponsabili. (…) In altre parole, la pandemia ha smascherato l’inganno dell’individualismo, perché ci ha fatto toccare con mano che gli esseri umani sono fatti per darsi la mano tra di loro, per aiutarsi l’un l’altro in spirito di fraterna solidarietà: o ci salviamo tutti insieme o tutti insieme periamo. (…) Abbiamo bisogno di restituire alla nostra società un’anima etica, occorre cioè realizzare un nuovo umanesimo che ci raccolga tutti attorno al valore fondante della convivenza civile, che è la solidarietà. Questo binario – etica e solidarietà – è l’unica direzione verso cui andare, dopo l’esperienza del coronavirus, per ricostruire un’Italia e un’Europa secondo la volontà di Dio e in vista di un effettivo bene comune. Etica, cioè rispetto dei valori comuni con al centro la dignità della persona e i suoi diritti fondamentali inalienabili (che nessuno può togliere perché nessuno glieli dà se non Dio), e al tempo stesso solidarietà. Se non accettiamo questo binomio, non abbiamo appreso la lezione venuta dalla crisi della pandemia. Pertanto, il lavoro che dobbiamo fare a livello economico, giuridico, sanitario, artistico è riscoprire la dimensione etica e trascendente delle relazioni sociali, sapendo che nessuno riesce a salvarsi da solo, né tantomeno si potrà costruire un’umanità migliore, se non tutti insieme. (…) Ha ragione papa Francesco quando denuncia le gravi conseguenze della “cultura dello scarto”, quella cultura che si fonda sulla logica, oggi sempre più diffusa, dell’“usa e getta” e colpisce non solo gli esseri umani, come purtroppo è avvenuto con gli anziani in molte Rsa, ma anche gli oggetti che si trasformano velocemente in spazzatura. Perciò, applicando quanto il Papa scrive nell’enciclica Laudato si’, occorre che noi oggi sappiamo cogliere l’occasione dell’epidemia per diffondere una nuova “cultura della cura” o della responsabilità, attraverso un cambiamento profondo di mentalità e di stile di vita individuale, familiare e collettivo. (…) Teniamo a mente che la longevità è un privilegio, e lo dico con gratitudine pensando ai miei 91 anni. Quello su cui dobbiamo vigilare è la solitudine, come ci ha detto papa Francesco in occasione del I Congresso internazionale di pastorale degli anziani: “La vecchiaia non è una malattia, è un privilegio! La solitudine può essere una malattia, ma con la carità, la vicinanza e il conforto spirituale possiamo guarirla”. (…)
Il vero problema sta nel fatto che noi oggi abbiamo rimosso il pensiero della morte. In passato non era così. Con la morte avevamo imparato a convivere quotidianamente; e quanto ci tenevamo che una persona cara non morisse in ospedale, ma venisse a morire in casa! Oggi è cambiato il costume e muta anche l’aspetto esterno dei nostri cimiteri, sempre più simili a musei pieni di statue e di lapidi inneggianti alla vita che a “dormitori” dove i defunti giacciono in attesa della risurrezione! Il Covid, con le sue centinaia di morti ogni giorno, ci ha richiamati alla realtà. E qual è questa realtà? La nostra Costituzione riconosce la salute come un diritto fondamentale del singolo in relazione alla comunità. Infatti, all’art. 32 è scritto: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. La salute, cioè, deve essere trattata come una questione di interesse collettivo, come un bene comune al pari ad esempio dell’istruzione o dell’ambiente. Se invece noi riduciamo la salute a merce, attorno alla quale sviluppare interessi economici e aziendali – così come avviene da diversi anni in alcune nostre Regioni – ne paghiamo le conseguenze, che sono sotto gli occhi di tutti.
È poi vero che anche il nostro rapporto con la salute si è modificato nel tempo, e di questo abbiamo perso la memoria. Una volta era quasi “normale” ammalarsi, e persino morire anche in giovane età, dato che le cure mediche a disposizione erano limitate. Ora forse si è caduti nell’eccesso opposto, cioè non prendiamo più in considerazione l’eventualità di ammalarsi, “pretendiamo” di essere sempre sani e abbiamo rimosso la morte dal nostro orizzonte di vita, oltre che dal discorso pubblico. La malattia e la morte oggi sono diventate un tabù! Mi piace ricordare che nell’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, firmato a New York nel 1946, è scritto: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità”. E come dimenticare le parole di papa Francesco, nel bel mezzo del lockdown del marzo 2020? “Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. La salute nostra e del mondo intero è collegata a tutte le relazioni tra di noi esseri umani e anche con gli altri esseri viventi; e questo virus, probabilmente passato dal pipistrello all’uomo, ce lo dimostra!
Dinanzi a tutto quello che stiamo vivendo, invece di lasciarci prendere dall’ansia, che non aiuta e crea solo più confusione, chiediamoci piuttosto che cosa ci domanda di cambiare la pandemia. Ci chiede forse di ripensare il nostro rapporto con la salute, che non è solo assenza di malattia – e lo scrivo dall’infermeria di Gallarate! –, di misurarci con la morte?




questa mania di far nascere Gesù Bambino a mezzanotte e in punto …

Natale  

non conta l’ora ma la nascita di Cristo

di Antonio Spadaro
in “il Fatto Quotidiano” del 1 dicembre 2020

Quando è nato Gesù? Con un certo fastidio san Clemente Alessandrino, scrittore greco-cristiano del
II secolo, uno dei “padri della Chiesa”, annotava in un suo scritto: “Non si contentano di sapere in
che anno è nato il Signore, ma con curiosità troppo spinta vanno a cercarne anche il giorno”
(Stromata, I,21,146). Già queste parole ci fanno capire che in realtà non lo conosciamo; ma la stessa
espressione ci fa anche comprendere bene che ciò che importa del Natale non è la data: è il fatto che
il Figlio di Dio abbia preso carne umana in una notte e sia venuto come luce del mondo.
I Vangeli di Matteo e Luca non forniscono indicazioni cronologiche precise. L’affermarsi della festa
nel giorno del 25 dicembre la si deve molto all’opera del papa san Leone Magno (440-461). In
nessun modo la Chiesa ha mai definito questo punto, lasciando che il giorno del Natale di Gesù si
consolidasse come semplice tradizione. Nel 1993 san Giovanni Paolo II, durante l’udienza di
preparazione del Natale disse, ad esempio: “La data del 25 dicembre, com’è noto, è convenzionale”.
La tradizione però è molto antica: un documento dell’anno 354 attesta l’esistenza a Roma della
festa cristiana del Natale celebrata il 25 dicembre. Essa, come noto, corrisponde alla celebrazione
pagana – molto sentita dal popolo – del solstizio d’inverno, Natalis Solis Invicti, cioè la nascita del
nuovo sole dopo la notte più lunga dell’anno. Questa è la data nella quale viene celebrata la nascita
di colui che è il Sole vero che sorge dalla notte del paganesimo. La data coincideva con le ferie di
Saturno, durante le quali gli schiavi ricevevano doni dai loro padroni ed erano invitati a sedere alla
stessa mensa, come liberi cittadini.
Comprendiamo, dunque, che celebrare il Natale significa celebrare un evento della fede avvenuto in
un momento storico preciso, ma non determinabile cronologicamente. Nella notte di Natale la
liturgia ci invita a fare l’esperienza spirituale dell’entrare nell’oscurità per ammirare e adorare il
manifestarsi della vera Luce, quella del Verbo di Dio che incarnandosi ha illuminato la storia: “La
luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,5).
La liturgia cattolica prevede, oltre a quella vespertina della vigilia, tre messe: quella ad noctem (cioè
la messa della notte), la messa in aurora e la messa in die (nel giorno). Anche i protestanti e gli
ortodossi che seguono il calendario gregoriano celebrano il Natale lo stesso giorno. Invece, le chiese
ortodosse orientali lo celebrano il 6 gennaio; gli ortodossi che seguono il calendario giuliano il 7
gennaio e la Chiesa Armena Apostolica di Gerusalemme che segue il calendario giuliano lo celebra
il 19 gennaio.
Il dato simbolicamente importante per la celebrazione della notte non è dunque l’orario esatto – che
sia la mezzanotte o qualunque altra ora – ma il fatto che si celebri quando non c’è luce, quando è
buio. E questo proprio per rendere evidente il senso simbolico della festa. Tuttavia la messa non è la
“messa di mezzanotte”, ma “della notte”. Se si comprende il ragionamento, si comprende pure che
la celebrazione della notte che dovesse svolgersi quando è buio, ma in un orario precedente alla
mezzanotte, non fa di certo “nascere” Gesù in anticipo. Se la profondità della notte è ben resa dalla
mezzanotte, d’altra parte, la messa alle 21 o alle 22 è prassi abbastanza comune in molte comunità
cristiane per motivi di ordine pratico e per agevolare la partecipazione. La stessa celebrazione della
notte di Natale in San Pietro, ad esempio, inizia sempre ben prima delle ore 24. E – ricordiamolo – è
anche vero che esiste la messa dell’alba, che certamente si celebra dopo le 5 del mattino.
Veniamo a noi: certamente la politica non deve parlare di come si celebra la liturgia di Natale. E
certamente la Chiesa deve evitare che le celebrazioni diventino luoghi di contagio. Le indicazioni
circa il modo in cui le celebrazioni debbano svolgersi nei luoghi di culto sono solo un esempio delle
restrizioni di vasta portata all’esercizio di molti diritti umani e libertà civili in tutto il mondo,
causate dallo sforzo per far sì che la distanza fisica prevenga efficacemente le infezioni.
La salute pubblica è menzionata specificamente dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo
come motivo per limitare la libertà di religione o di credo (articolo 9). Tuttavia, tutte le restrizioni
dei diritti fondamentali devono avere una base giuridica, essere necessarie, adeguate, ragionevoli e
generalmente proporzionate in relazione allo scopo che servono e al diritto che limitano.
La politica deve abbassare le mani sullo svolgimento delle celebrazioni liturgiche e non deve
sottovalutare le esigenze spirituali delle comunità religiose che, con i loro valori, contribuiscono a
garantire la tenuta e la coesione sociale. D’altra parte, sulle celebrazioni la Chiesa sa di dover
tutelare il bene e la salute di tutti, modulando i tempi e i modi del culto, scegliendo, in sintonia con
chi è preposto alla tutela della salute, come evitare che le chiese del Natale siano luoghi di contagio.
Non c’è da sollevare da parte alcuna polemiche pretestuose su temi così delicati che toccano sia il
bene comune e la salute dei cittadini sia alcuni valori spirituali che fondano la coesione sociale.




il commento al vangelo della domenica

è una buona notizia a far ripartire la nostra vita


È una buona notizia a far ripartire la nostra vita
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica di avvento:

II Domenica di Avvento

Anno B

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaia: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano (…).

Due voci, a distanza di secoli, gridano le stesse parole, nell’arsura dello stesso deserto di Giuda. La voce gioiosa di Isaia: «Ecco, il tuo Dio viene! Ditelo al cuore di ogni creatura». La voce drammatica di Giovanni, il Giovanni delle acque e del sole rovente, mangiatore di insetti e di miele, ripete: «Ecco, viene uno, dopo di me, è il più forte e ci immergerà nel turbine santo di Dio!» (Mc 1,7). Isaia, voce del cuore, dice: «Viene con potenza», e subito spiega: tiene sul petto gli agnelli più piccoli e conduce pian piano le pecore madri. Potenza possibile a ogni uomo e a ogni donna, che è la potenza della tenerezza. I due profeti usano lo stesso verbo, sempre al presente: «Dio viene». Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia che ingoia la notte. Due frasi molto intense aprono e chiudono questo vangelo. La prima: Inizio del vangelo di Gesù Cristo, della sua buona notizia. Ciò che fa ricominciare a vivere, a progettare, a stringere legami, ciò che fa ripartire la vita è sempre una buona notizia, una fessura di speranza. Inizio del vangelo che è Gesù Cristo. La bella notizia è una persona, il Vangelo è Gesù, un Dio che fiorisce sotto il nostro sole, venuto per far fiorire l’umano. E i suoi occhi che guariscono quando accarezzano, e la sua voce che atterra i demoni tanto è forte, e che incanta i bambini tanto è dolce, e che perdona. E che disegna un altro mondo possibile. Un altro cuore possibile. Dio si propone come il Dio degli inizi: da là dove tutto sembra fermarsi, ripartire; quando il vento della vita «gira e rigira e torna sui suoi giri e nulla sembra nuovo sotto il sole» (Qo 1,3-9), è possibile aprire futuro, generare cose nuove. Da che cosa ricominciare a vivere, a progettare, a traversare deserti? Non da pessimismo, né da amare constatazioni, neppure dalla realtà esistente e dal suo preteso primato, che non contengono la sapienza del Vangelo, ma da una «buona notizia». In principio a tutto c’è una cosa buona, io lo credo. A fondamento della vita intera c’è una cosa buona, io lo credo. Perché la Bibbia comincia così: e vide ciò che aveva fatto ed ecco, era cosa buona. Viene dopo di me uno più forte di me. La sua forza? Gesù è il forte perché ha il coraggio di amare fino all’estremo; di non trattenere niente e di dare tutto. Di innalzare speranze così forti che neppure la morte di croce ha potuto far appassire, anzi ha rafforzato. È il più forte perché è l’unico che parla al cuore, anzi, parla «sul cuore», vicino e caldo come il respiro, tenero e forte come un innamorato, bello come il sogno più bello.
(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 84; II Lettera di san Pietro 3,8-14; Marco 1,1-8)




un grido … e la morte come punizione per aver voluto una vita

quel grido che scuote la nostra indifferenza


di Michele Smargiassi
in “la Repubblica” del 13 novembre 2020

In un mare di piombo, sotto un cielo di piombo, un gommone color piombo oscilla sotto
quell’orizzonte di piombo che non vuole rimanere orizzontale; quelli in mezzo sono corpi di esseri
umani. E lì, ma non lo vediamo, c’è Joseph, vissuto solo sei mesi, che le onde hanno strappato dalle
braccia della madre.

Questo vediamo. I marinai del salvataggio di Open Arms hanno voluto che
vedessimo questo, che «non fossero solo i nostri occhi a vedere». Perché sanno che vedere, ancora
una volta, è più che ascoltare, o leggere; perché mostrare è più che raccontare.
Ma cosa vedono davvero i nostri occhi? Un rettangolo di vetro luminoso, uno schermo che fa
schermo. Se le parole sono insufficienti, le immagini sono forse sufficienti? Nel luglio di due anni
fa, dallo stesso mare, gli stessi soccorritori ripescarono una donna, si chiamava Josefa, terribile
ricorrenza dei nomi.
Anche allora qualcuno volle che la vedessimo: vedemmo i suoi occhi sbarrati. Quegli occhi sì che
avevano visto. E continuavano a vedere quel che noi non abbiamo potuto: cosa è la morte. Brutta
parola, vero? Ma almeno chiamiamola col suo nome. La morte come punizione per aver voluto una
vita.
No, non è questo che vediamo, neppure stavolta, in questa manciata di secondi concitati, dove
succedono molte cose: una madre disperata si rotola sul fondo arancione della scialuppa della
salvezza, un altro uomo scampato alle onde grida, un bambino viene ripescato, depositato in salvo
come un orsetto fradicio. Era fradicio, ma era morto, anche il piccolo Alan Kurdi sulla spiaggia di
Bodrum; e si disse, ma non era vero, che quella fotografia avrebbe aperto il cuore dell’Europa.
Certe immagini colpiscono il corpo, ci fanno rabbrividire, ma la strada che porta al cuore è più
lunga, e neanche «vedere coi nostri occhi» la accorcia così tanto.
Ma qui c’è un grido. «Ho perso il mio bambino», il grido delle madri della strage degli innocenti, il
grido muto della madre di Guernica. Le parole ammutoliscono, le immagini sbiadiscono, ma si può
resistere a quel grido?




il dono che, per credenti e non credenti, può portarci il natale

 

la vita nuova che deve venire

Natale e il nostro tempo ormai «invaso»

dobbiamo prepararci a un Natale diverso. Un po’ più povero. Con meno amici,
meno familiari, meno regali. Ma forse anche con meno frenesia e con più raccoglimento, più
riflessione. Più spiritualità e, forse, più ospitalità

di Mauro Magatti
in “Avvenire” del 29 novembre 2020

La discussione di queste settimane attorno al Natale è tutta ruotata attorno alla possibilità di tenere
aperti gli impianti sciistici e salvare la stagione turistica. Il tema è diventato così esplosivo da
sollevare persino qualche tensione diplomatica tra i Paesi aperturisti – come Svizzera e Austria – e
quelli rigoristi – Italia, Francia, Germania. I problemi economici di intere comunità montane che
vivono perlopiù di questa attività non devono essere sottovalutati. Come nel caso della ristorazione,
è quindi doveroso sottolineare la necessità di interventi proporzionati da parte dei governi per
salvaguardare attività che sono a rischio di venire decimate. Non è giusto che il costo della
pandemia sia scaricato sulle spalle dei più esposti. E tuttavia, questa vicenda suggerisce molto di
più circa la natura più profonda delle nostre società. In questi mesi si è ripetutamente detto che la
pandemia è un rivelatore che ci permette di capire meglio quello che siamo. E in effetti, proprio il
dibattito sul Natale conferma un tale effetto. Forse prima era più difficile accorgercene. Ma in questi
mesi abbiamo visto che il nostro modello di vita non ammette nessun ‘altrove’. Né spaziale – il
mondo interconnesso è stato investito in pochi mesi dal virus, senza possibilità di scampo – né
temporale – non c’è più un momento ‘esterno’ al circuito economico.
Passo dopo passo, l’attività commerciale ha ‘invaso’ la domenica così come la fascia serale. Il nostro
tempo libero è affollato di attività a pagamento: palestre, cinema, musei, viaggi.
Così che il lavorare non riguarda più solo le 8 ore della classica giornata feriale, ma si estende alla
quasi totalità delle nostre attività che si reggono solo a condizione di avere un corrispettivo
economico. E lo stesso vale per il calendario annuale, ormai riempito di ‘festività’ commerciali: le
ferie estive al mare e quelle invernali sugli sci; San Valentino, Carnevale, Pasqua, i saldi di fine
stagione (rigorosamente invernali ed estivi), Halloween, la festa del papà, quella della mamma, il
Black Friday, le festività natalizie etc.
Non che la cosa sia di per sé un male. Lavorare nella cultura o nel turismo è meglio che stare in una
fonderia o in una miniera. Ma non vanno nemmeno sottovalutati gli effetti collaterali. Sta di fatto
che, mentre stiamo (lentamente) cominciando a capire che la questione della sostenibilità va presa
sul serio – pena esporci alle conseguenze disastrose del riscaldamento globale – ci si continua a
proporre e riproporre un modello che non lascia respiro, che corre sempre più velocemente e che
non ammette pausa. Un modello 24 ore su 24, sette giorni su sette.
Nei giorni scorsi – e, meno male, non solo da queste pagine – qualche voce ha cercato di dire che,
data la situazione, dobbiamo prepararci a un Natale diverso. Un po’ più povero. Con meno amici,
meno familiari, meno regali. Ma forse anche con meno frenesia e con più raccoglimento, più
riflessione. Più spiritualità e, forse, più ospitalità. Il che non sarebbe una cattiva idea tenuto conto
che siamo alla fine di un anno tremendo che non si potrà cancellare con un’alzata di spalle. Come
ha più volte detto papa Francesco, «peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla,
chiudendoci in noi stessi». L’antica saggezza biblica – risalente a 3.000 anni fa – insiste
sull’importanza di un’interruzione del tempo che permetta di staccarsi dalle attività quotidiane per
guardare il mondo da un punto di vista diverso. Un bene inestimabile per l’anima che diventa così
più capace di rigenerare quella saggezza e quella creatività senza le quali si finisce nel vortice di
una ripetitività sfibrante. Questo vale anche – anzi, soprattutto – per la società contemporanea.
Il Natale ci parla di un mondo che si fa nuovo a partire dalla fragilità di un Bambino. Racconto
concreto che ci sollecita a reimparare ciò di cui abbiamo più bisogno: tornare a saper sperare,
coltivando la ‘memoria del futuro’, risorsa indispensabile per affrontare creativamente le
preoccupazioni che ci affliggono.
La pandemia ha già causato molti danni economici e sociali. E nonostante l’arrivo del vaccini, il
2021 sarà un anno difficile. Il Natale povero che ci apprestiamo a vivere può essere, allora, una
occasione per rientrare un po’ di più in noi stessi, capendo che la soluzione ai tanti problemi che ci
affliggono non passa da un attivismo affannoso, da una accelerazione insensata. Dal ritorno
frettoloso a fare quello che facevamo prima. Se c’è una cosa che il terzo choc globale ci aiuta a
vedere è che l’illusione di un mondo a crescita illimitata e del godimento individualizzato non si
regge.
La nostra capacità di uscire positivamente dalla crisi della pandemia ha dunque strettamente a che
fare con la nostra disponibilità ad ascoltare l’annuncio di Betlemme: il nostro destino sta in una
promessa di amore che intravvediamo e che ancora si deve compiere nella sua pienezza. Ecco
dunque, il dono che, per credenti e non credenti, può portarci il Natale: essere tempo di
rigenerazione, rito collettivo di riapertura della speranza, tempo di meraviglia per accogliere e poi
accompagnare la vita nuova che deve venire.