la paura del coronavirus e la vita che ricomincia

dalla paura alla riflessione, dalla lacerazione alla riconciliazione e all’abbraccio
i sinti a Lucca e il terrore del coronavirus visto da vicino

Erano giorni durissimi, quei giorni di marzo quando arrivavano su tutti i telegiornali e programmi televisivi notizie e immagini preoccupanti di una epidemia che acquisiva le dimensioni di una pandemia, che poteva coinvolgere tutti, ma proprio tutti, ‘democraticamente’.
Ognuno di noi stava spesso con orecchi e occhi spalancati al televisore per cercare indicazioni onde evitare di esserne coinvolti.
Anche al Campo Nomadi di Lucca cominciavano ad arrivare le prime notizie di tanti ‘positivi’ e anche morti nella stessa Lucca, i casi si moltiplicavano e possibili focolai venivano indicati in zone vicine e poco frequentate.
E’ in questo contesto di ansia, perplessità, speranza, ma più spesso paura (e anche incubi e rincorsa alle spiegazioni più fantasiose o comunicazioni whatsApp tendenti a scaricare l’ansia con video denigratori verso lontani ‘colpevoli’ … ) che scoppiò come un grande fulmine … a cielo molto cupo la notizia che ‘una del campo’ era risultata positiva da un casuale tampone fattole una decina di giorni prima all’ospedale per un ricorso al pronto soccorso per tutt’altri motivi.
“Una di noi è positiva”, “i nostri bambini sono in pericolo”. Anzi: “una di noi è l’ ‘untore’, anzi il traditore che non ci aveva detto nulla del tampone …!”.
Quando qualche giorno dopo arrivò la notizia della positività al coronavirus anche del marito la tensione raggiunse il culmine, ognuno si chiuse nella propria campina con animo non proprio sereno.


Al telefono e su whatsapp venivo continuamente informato della loro ansia e c’era chi più preoccupato di altri cercava di coinvolgere anche me (“non credere di cavartela facilmente”, o come a dire: “mal comune mezzo gaudio” nel senso che in compagnia si porta meglio anche la croce) nel proprio destino, ricordandomi che nei giorni precedenti ero io stesso in mezzo a un grande gioco di comunità che aveva visto pressoché tutti protagonisti, l’uno vicinissimo all’altro, ad agitarsi e a gridare per il desiderio di vincere ciò che era in palio, e … non era proprio lontano da noi, anzi dava manforte anche colei che ora era indicata come la colpevole ‘untrice’ che volutamente (ma non è vero!) aveva nascosto il suo stato di positività agli altri, peraltro tutti parenti.
Tutti noi con evidente e comprensibile ansia contavamo i giorni che lentissimamente trascorrevano (consolati solo dal verificarci tutti asintomatici) … i giorni comunque trascorrevano tra il primo tampone positivo e una quarantena ‘a quella maniera’ e il secondo tampone finalmente negativo … il profondo respiro di sollievo e il grande senso di nuova possibile speranza bilanciò quel fulmine a cielo cupo che aveva tutti fulminato, e da lì in poi è stato più facile per tutti scorciare distanze, dialogare in modo pur sostenuto ma più positivo, esercitare maggiore comprensione e accettare ragioni che in situazione surriscaldata era pressoché impossibile.

Appena ci è stato possibile (magari interpretando in modo un po’ estensivo le norme di convivenza in tempi di coronavirus) un altro gioco di comunità ha visto ancora tutti coinvolti e rappacificati e rassicurati, capaci di superare tranquillamente anche un’altra paura, quella conseguente alla fuga di notizie che su un organo locale di informazione di estrema destra aveva segnalato un focolaio attivo e pericoloso al Campo Nomadi. I primi commenti in internet a tale notizia non lasciavano infatti ben sperare e i sinti esprimevano apertamente la paura che una qualche ‘spedizione’ di gage potesse venire al Campo con intenzioni non proprio costruttive. Alcuni gage infatti su facebook avevano commentato che forse sarebbe stata la volta buona per fare sparire i sinti da Lucca. Nei giorni seguenti una vecchia conoscenza cui non sono proprio simpatico per l’amicizia dei sinti mi incrocia per strada e mugolando tra sé e sé, ma non troppo sottovoce, lascia intendere la sua delusione: “accidenti, è ancora vivo … !”.
Se al Campo Nomadi più vicino a me il tempo del coronavirus è stato vissuto in questa atmosfera comprensibilmente drammatica, alimentata anche dalle immagini che venivano dalla televisione (i famosi camion militari pieni di cadaveri … ), tutto sommato però è stato vissuto in modo riflessivo e ragionevole, occasione di vero, ancorché sofferto, dialogo che coniugava paura e speranza, riflessione e fede, domande profonde sul perché di ciò al di là di ricostruzioni mitologiche e un’esigenza di cambiamento di stile di vita rispetto a quello delle manipolazioni e della violenza sulla natura, perché alla fin fine quest’ultima, violentata e repressa, “ci presenta il conto”.
In altre presenze di Sinti a Lucca, più orientate in senso ‘spiritualistico’, ‘intimistico’ e miracolistico perché alimentate ad una spiritualità ‘pentecostale’, ‘evangelista’, o addirittura ‘apocalittica’ alla ‘Radio Maria’ non pochi ripetevano continuamente che si trattava chiaramente di una punizione di Dio per i troppi peccati, aperti però anche all’addolcimento della terminologia, nel senso che – coi tempi moderni – apparendo forse troppo forte quella della ‘punizione’, sicuramente debba trattarsi almeno di una ‘ammonizione’ o ‘avvertimento’ o ‘avviso’ dall’Alto.
Non ho mai esercitato la confessione per telefono, ma nei mesi scorsi a motivo di un’atmosfera così apocalittica non pochi sinti , anche lontane conoscenze o comunque lontani da Lucca mi hanno chiesto di poter ricevere l’assoluzione al telefono perché “non si sa mai … !”.
Questo mi ha fatto più volte riflettere sui contenuti di una ‘evangelizzazione’ che troppo spesso si ammanta di novità perché capace di utilizzare nuovi strumenti ma il più delle volte veicola concezioni punitive e negative di Dio allontanandosi molto dalla rivelazione evangelica.
La esperienza più positiva in questo nero periodo di coronavirus credo di averla comunque vissuta col gruppo di sinti che più da vicino mi ha coinvolto, anche nel rischio di contrarre e condividere col loro l’infezione.
C’è stata schiettezza umana fatta di paura, ansia, tensione, parolacce, pure, ma anche volontà di capire, di riflettere, di dialogare (quanto hanno viaggiato i vari strumenti di messaggistica compreso whatsapp!) per emergere da tale paura e gestirla ragionevolmente…e devo confessare che segretamente pensavo dentro di me che se proprio avessi dovuto correre qualche rischio a motivo di questo, averlo corso in solidarietà a coloro che sono ormai da tempo diventati compagni di viaggio, condividere cioè il comune destino, non mi avrebbe disturbato poi troppo.
Ultimamente, nel benedire le tombe di tre loro defunti che in tutto questo periodo non c’era stato modo di farlo, tra una parola scherzosa e l’altra con cui tutti cercavano di esorcizzare il pericolo scampato e il passato di trepidazione, nell’affermare che loro sono sinti e hanno comunque gli anticorpi per combattere anche i virus peggiori perché abituati a vivere – a diversità dei gage – una vita intera a contatto con la natura lungo un fiume, diversi mi hanno puntualizzato che se io stesso ne sono uscito bene si deve al fatto che … “stai coi sinti”.
Chissà che questo non abbia un’anima di verità?

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l’umanità perduta nella la violenza istituzionale – ecce homo

George Floyd: l’umanità persa nella violenza

di Eletta Cucuzza 

 da: Adista Documenti n° 24 del 20/06/2020

 L’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis ripropone la sempiterna questione sull’umanità degli umani. Come combattere questa disumanità? Con l’educazione alla nonviolenza attiva, risponde il teologo spagnolo José Arregi nell’accorata riflessione comparsa su Redes Cristianas, e riportata qui perché «una scintilla di umanità» brilla in ogni essere umano e perché «siamo uno, e solo insieme ci possiamo salvare»

 

Ecco l’uomo!

di José Arregi

 da: Adista Documenti n° 24 del 20/06/2020

 

Minneapolis (Stati Uniti), 25 maggio 2020, 8 e 20 di sera. Un uomo di colore è legato, sconfitto, buttato a terra, e il suo collo è schiacciato dal ginocchio forzuto di un ufficiale di polizia bianco in uniforme. Ecco l’uomo. Sono due, sono uno? Sono nemici, sono fratelli? Ecco l’uomo, nella sua gloria e nella sua rovina, nella sua dignità e nella sua umiliazione, nella sua grandezza e nella sua miseria.

«Non riesco a respirare, amico, per favore», ansima l’uomo nero, se sa ancora con chi sta parlando o se è un uomo cui sta parlando. Un povero ansimante implora un povero prepotente ancora più povero, perché implorare è più dignitoso e più umano che schiacciare. Mentre l’ufficiale di polizia tiene il ginocchio sul collo dell’uomo nero, i suoi due compagni guardano la scena masticando gomme. «Mamma!», si sente dire in un sospiro l’uomo di colore che cerca il riparo dell’utero benedetto da cui sarebbe stato meglio se non fosse mai uscito nelle tenebre di questa umanità. Non era armato, non ha cercato di fuggire. Aveva superato il coronavirus, aveva perso il lavoro. Forse il suo crimine è aver comprato un pacchetto di sigarette con soldi falsi? No, è più serio il suo crimine, molto di più. Il suo crimine è essere nero. Ogni giorno un uomo nero disarmato viene ucciso dalla polizia negli Stati Uniti. «Non riesco a respirare»: fino a 16 volte l’ha ripetuto l’uomo di colore prima di morire asfissiato. È stato ucciso. Si chiamava George Floyd, aveva due figlie e una bellissima nipotina di 6 anni. Forse ha potuto alleviare il momento ultimo del suo soffocamento ricordandole tutte e tre, mentre chiamava sua madre. Quattro donne sostengono la sua vita nel terribile esodo, come quelle cinque donne nel libro biblico dell’Esodo che salvarono Mosè. Ma da sole non sono bastate a salvare George né basteranno per riportarlo in vita, né per impedire che questa povera specie umana muoia di affissia o perché nasca veramente e risusciti tutti i morti, incluso l’assassino, la cui vera umanità, libertà e coscienza erano già morte molto prima che il suo ginocchio strangolasse la vittima. Solamente tra tutti potremo salvare l’umanità, e la salveremo solo quando sapremo che tutti siamo uno, incluso l’assassino.

Anche l’assassino? La vastissima reazione popolare statunitense e l’impatto mediatico planetario – tutto tanto ambiguo ed effimero, ma è lì che l’umanità lotta per nascere – hanno indotto il procuratore ad accusare la polizia di omicidio di secondo grado (omicidio preterintenzionale) in cui, tuttavia, c’è intenzionalità. Così potrà essere condannato all’ergastolo, così l’ordine verrà ripristinato, così si restaurerà la giustizia, così si salveranno le apparenze, così tranuillizzeremo la nostra coscienza. E continueremo allo stesso modo.

Così non salveremo l’umanità. Cos’è l’umanità? È essere umile, libero, fratello. È compassione, attenzione, cura. Salvare. Respirare e dare respiro, ricevere e dare animo. L’umanità è humus, argilla, terra animata dal Respiro vitale. L’argilla è la stessa e il respiro è lo stesso. Siamo uno, e solo insieme ci possiamo salvare. Non salveranno l’umanità gli ordini dettati da Donald Trump ai suoi governatori tramite videoconferenza, per soffocare le proteste: “Dovete dominare. Se non dominate, starete perdendo tempo. Avranno la meglio e sembrerete un branco di coglioni. Dovete arrestare la gente, giudicarla e che vadano in carcere per molto tempo”. Ecco il potere, l’umanità soffocata boccheggiante. Non salveranno l’umanità tutti i dolori del mondo, né il potere, né la repressione, né la carcerazione – per quanto perpetua possa essere: più carcere meno umanità – né l’odio, né la vendetta, né nessuna violenza istituita dal potere o ispirata dal rancore. E non predico il buonismo o la permissività irresponsabile o un qualche tipo di tolleranza verso l’ingiustizia e il disordine accertato. Non è questo.

Credo nella nonviolenza attiva, nella resistenza non violenta e nel potere dell’educazione, dell’intelligenza, della scienza, della coscienza educata dalla compassione spirituale e politica. Credo che «nessuno nasce odiando un’altra persona a causa del colore della sua pelle, della sua origine o della sua religione» (Nelson Mandela). Credo nel potere della bontà. Credo nella bontà di George Floyd e credo che ha perdonato il suo assassino con tutto il cuore. Sinceramente credo di non essere migliore del suo assassino. Credo nella scintilla di umanità che brilla nel suo profondo come nel mio, e che vorrebbe nascere, rinascere, lasciarsi perdonare e dare la mano e continuare a camminare. E questo significa per me “credere in Dio”, cioè crearlo creando noi stessi più umani.

Matthias Stom, Ecce homo (1630-1650), Rijksmuseum, Amsterdam – foto [ritagliata] di Frans Pegt tratta da Picryl

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