la prenotaziione della messa a Lucca in tempo di coronavirus

 

 a Lucca un sistema di prenotazioni per le messe festive

di Lorenzo Maffei 

l’arcivescovo Paolo Giulietti ha fatto predisporre nel sito diocesano la prenotazione per la Messa domenicale, che sarà indispensabile. Attivi anche quattro numeri telefonici

Online o per telefono. Nella Diocesi di Lucca i fedeli torneranno a partecipare alle Messe festive da domenica 24 ma segnalando la propria presenza tramite una telefonata a numeri appositi oppure con un click sul sito diocesano. Lo ha annunciato l’arcivescovo Paolo Giulietti con una nota nella quale invita tutti ad accogliere la possibilità di partecipare alle celebrazioni «con gioia e responsabilità».
A partire da ogni lunedì sera, dal 18 maggio, i fedeli potranno andare sul sito www.diocesilucca.it, cercare la chiesa e gli orari disponibili e poi, compilando una scheda online saranno chiamati a lasciare nome, cognome e mail alla quale sarà inviata in automatico la prenotazione. Potranno essere fatte prenotazioni anche per nuclei familiari. Chi non ha dimestichezza con le tecnologie avrà a disposizione quattro numeri telefonici che dalla mattina di martedì 19 maggio potranno essere chiamati per dichiarare a voce la propria presenza.
Gli operatori inseriranno tutto nel sistema informatico. Tre ore prima l’inizio di ogni celebrazione il sistema blocca in automatico le prenotazioni e invia ai parroci o ai loro collaboratori la lista dei presenti. Nella nota la Diocesi specifica che «è una “prima volta” da affrontare con la necessaria pazienza, in spirito di servizio e rispetto per sé e gli altri, da cittadini e cristiani responsabili». Tutto è stato pensato nel quadro delle norme anti Covid-19. Nelle chiese gruppi di volontari, oltre a vigilare che non si creino assembramenti, verificheranno l’effettiva prenotazione e inviteranno i fedeli a disporsi all’interno della chiesa nel rispetto delle distanze di sicurezza.

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occorre rinnovare il modo di vivere la fede – Tomáš Halík: per una ripartenza del cristianesimo

«questo è il momento per prendere il largo»

di Tomáš Halík
in “Avvenire”

le chiese vuote di questa Pasqua interrogano la coscienza di noi cristiani? Hanno la capacità di dirci che presto saranno sempre così se non rinnoviamo il nostro modo di vivere la fede? Una riflessione del teologo e filosofo ceco Halík sulle risposte che richiede questo tempo

“comprendere il linguaggio di Dio negli eventi del nostro mondo richiede l’arte del discernimento spirituale, che a sua volta esige un distacco contemplativo dalle nostre emozioni e dai nostri pregiudizi sempre più forti, oltre che dalle proiezioni delle nostre paure e dei nostri desideri”

L’anno scorso, prima di Pasqua, la cattedrale di Notre–Dame a Parigi è andata in fiamme; quest’anno, in Quaresima, in centinaia di migliaia di chiese di diversi continenti, nonché in sinagoghe e moschee, non si svolgono funzioni. Da sacerdote e teologo rifletto su queste chiese vuote o chiuse come se fossero un segno e una sfida provenienti da Dio. Comprendere il linguaggio di Dio negli eventi del nostro mondo richiede l’arte del discernimento spirituale, che a sua volta esige un distacco contemplativo dalle nostre emozioni e dai nostri pregiudizi sempre più forti, oltre che dalle proiezioni delle nostre paure e dei nostri desideri. Nei momenti di calamità gli “agenti dormienti” di un Dio malvagio e vendicativo diffondono la paura e ne fanno un capitale religioso per i propri fini. La loro visione di Dio è acqua per il mulino dell’ateismo da secoli. Ma non vedo Dio, in un momento di calamità, come un regista irascibile, comodamente seduto dietro le quinte mentre gli eventi del nostro mondo precipitano, bensì come una fonte di forza operante in coloro che in tali situazioni danno prova di solidarietà e di un amore capace di sacrificio, compresi coloro, ebbene sì, le cui azioni non hanno una “motivazione religiosa”. Dio è amore umile e discreto. Non possiamo però fare a meno di chiederci se questo tempo di chiese vuote e chiuse non rappresenti una sorta di monito per ciò che potrebbe accadere in un futuro non molto lontano: fra pochi anni esse potrebbero apparire così in gran parte del nostro mondo. Non ne siamo già stati avvertiti più e più volte da quanto è avvenuto in molti Paesi, dove sempre più chiese, e il loro possibile futuro se non si compie un serio tentativo per mostrare al mondo un volto del cristianesimo completamente diverso. Abbiamo pensato troppo a convertire il “mondo” e meno a convertire noi stessi, che non significa un mero “migliorarci”, ma un radicale passaggio da uno statico “essere cristiani” a un dinamico “divenire cristiani”. La Chiesa medievale fece un eccessivo uso punitivo dell’interdetto, portando l’intera macchina ecclesiastica a una sorta di “sciopero generale” per cui non si tenevano funzioni e non si amministravano sacramenti. Come conseguenza, la gente iniziò a cercare sempre di più un rapporto personale con Dio, una fede “nuda”. Proliferarono confraternite laiche e si manifestò un’ondata di misticismo la quale contribuì senza dubbio a spianare la strada, da una parte, alla Riforma, non solo di Lutero e Calvino, ma, dall’altra, anche alla riforma cattolica legata ai gesuiti e all’espressione del misticismo spagnolo. Magari la scoperta della contemplazione potrebbe oggi contribuire al “percorso sinodale” verso un nuovo Concilio riformatore […] Agli inizi della sua storia, la Chiesa primitiva degli ebrei e dei pagani conobbe la distruzione del tempio in cui Gesù pregava e insegnava ai suoi discepoli. Gli ebrei di quei tempi trovarono una soluzione coraggiosa e creativa: sostituirono l’altare del tempio demolito con la tavola familiare, e la pratica del sacrificio con quella della preghiera privata e collettiva. Agli olocausti e ai sacrifici di sangue sostituirono il “sacrificio delle labbra”: la riflessione, la lode e lo studio della Scrittura. Più o meno nello stesso periodo il primo cristianesimo, bandito dalla sinagoga, cercò una nuova, sua propria, identità. Sulle rovine delle tradizioni, ebrei e cristiani impararono a leggere daccapo la Legge e i profeti, e diedero loro nuove interpretazioni. Non è una situazione simile a quella dei nostri giorni? Quando all’inizio del V secolo Roma cadde, ci fu chi trovò subito la spiegazione: per i pagani si trattava una punizione degli dei per l’adozione del cristianesimo, per i cristiani una punizione di Dio a Roma per avere continuato a essere la «prostituta di Babilonia».
Sant’Agostino rifiutò entrambe le interpretazioni e, in quel momento spartiacque, sviluppò la sua teologia della battaglia epocale fra due «città» contrapposte; non di cristiani e pagani, ma di due «amori » che risiedono nel cuore umano: l’amore di sé, chiuso alla trascendenza ( amor sui usque ad contemptum Dei), e l’amore che fa dono di sé e così trova Dio ( amor Dei usque ad contemptum sui). Questo nostro tempo di cambiamento a livello di civiltà non chiede forse una nuova teologia della storia contemporanea e una nuova visione della Chiesa? «Sappiamo dove la Chiesa è, ma non sappiamo dove non è», insegnava il teologo ortodosso Pavel Nikolaevic Evdokimov. Forse quello che l’ultimo Concilio ha detto sulla cattolicità e l’ecumenismo ha bisogno ora di acquisire un contenuto più profondo. È giunto il tempo per un ecumenismo più ampio, per una più audace ricerca di Dio «in tutte le cose». Possiamo naturalmente accettare questa Quaresima di chiese vuote e silenziose semplicemente come una breve misura temporanea che sarà presto dimenticata. Ma possiamo anche sfruttarla come kairós: un momento opportuno per «prendere il largo » e cercare una nuova identità per il cristianesimo in un mondo che cambia radicalmente sotto i nostri occhi. L’attuale pandemia non è certamente l’unica minaccia globale per il nostro mondo, ora e in futuro. Facciamo dell’avvicinarsi della Pasqua una sfida a cercare nuovamente Cristo. Non cerchiamo il Vivente fra i morti. Mettiamo coraggio e tenacia nel cercarlo, e non lasciamoci prendere alla sprovvista se ci appare come uno straniero. Lo riconosceremo dalle sue ferite, dalla sua voce quando ci parlerà intimamente, dallo Spirito che porta la pace e bandisce la paura.

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il commento al vangelo della domenica

la risposta è Gesù: via, verità e vita

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quinta domenica di pasqua (10 maggio 2020):

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita» (…). Io sono la via, la verità e la vita.

Parole immense, che evadono da tutte le parti. Io sono la via, sono la strada, che è molto di più di una stella polare che indica, pallida e lontana, la direzione. È qualcosa di vicino, solido e affidabile dove posare i piedi; il terreno, battuto dalle orme di chi è passato ed è andato oltre, e che ti assicura che non sei solo. La strada è libertà, nata dal coraggio di uscire e partire, camminando al ritmo umile e tenace del cuore. Gesù non ha detto di essere la meta e il punto di arrivo, ma la strada, il punto di movimento, il viaggio che fa alzare le vite, perché non restino a terra, non si arrendano e vedano che un primo passo è sempre possibile, in qualsiasi situazione si trovino. Alla base della civiltà occidentale la storia e il mito hanno posto due viaggi ispiratori: quello di Ulisse e del suo avventuroso ritorno a Itaca, il cui simbolo è un cerchio; il viaggio di Abramo, che parte per non più ritornare, il cui simbolo è una freccia. Gesù è via che si pone dalla parte della freccia, a significare non il semplice ritorno a casa, ma un viaggio in–finito, verso cieli nuovi e terra nuova, verso un futuro da creare. Io sono la verità: non dice “io conosco” la verità e la insegno; ma “io sono” la verità. Verità è un termine che ha la stessa radice latina di primavera (ver–veris). E vuole indicare la primavera della creatura, vita che germoglia e che mette gemme; una stagione che riempie di fiori e di verde il gelo dei nostri inverni. La verità è ciò che fa fiorire le vite, secondo la prima di tutte le benedizioni: crescete e moltiplicatevi. La verità è Gesù, autore e custode, coltivatore e perfezionatore della vita. La verità sei tu quando, come lui in te, ti prendi cura e custodisci, asciughi una lacrima, ti fermi accanto all’uomo bastonato dai briganti, metti sentori di primavera dentro una esistenza. Io sono la vita. Che è la richiesta più diffusa della Bibbia (Signore, fammi vivere!), è la supplica più gridata da Israele, che è andato a cercare lontano, molto lontano il grido di tutti i disperati della terra e l’ha raccolto nei salmi. La risposta al grido è Gesù: Io sono la vita, che si oppone alla pulsione di morte, alla violenza, all’auto distruttività che nutriamo dentro di noi. Vita è tutto ciò che possiamo mettere sotto questa nome: futuro, amore, casa, festa, riposo, desiderio, pasqua, generazione, abbracci. Il mistero di Dio non è lontano, ma è la strada sottesa ai nostri passi. Se Dio è la vita, allora “c’è della santità nella vita, viviamo la santità del vivere” (Abraham Hescel). Per questo fede e vita, sacro e realtà non si oppongono, ma si incontrano e si baciano, come nei Salmi.

Letture: Atti 6,1–7; Salmo 32; 1 Pietro 2,4–9; Giovanni 14, 1–12)

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il coronavirus ci costringe ad un nuovo e più rispettoso rapporto col territorio

mai più come prima
salviamo il paesaggio 

 da: Adista Documenti n° 18 del 09/05/2020

 

l’epidemia provocata dal nuovo virus SARS-CoV-2, con il suo tragico carico di morti e miseria, serva da insegnamento

lezioni dal coronavirus: la “normalità” di prima non la vuole nessuno

qui di seguito l’appello pubblicato sul sito del forum Salviamo il paesaggio (20/4) in occasione della giornata mondiale della Terra, il 22 aprile, firmato, tra gli altri, da Mario Agostinelli, Marco Bersani, Paolo Cacciari, Alberto Castagnola, Roberto Mancini, Daniela Padoan, Tonino Perna, Gianni Tamino, Guido Viale, Alex Zanotelli

 

La Terra è un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali, giuridiche e politiche. La salute di ciascun individuo è interconnessa e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali del pianeta.

Il susseguirsi di malattie nuove e terribili sempre più frequenti e virulente (Ebola, HIV, influenza suina e aviaria, afta, febbre gialla, dengue, solo per citare le più note) sono la conseguenza della alterazione dei delicati equilibri naturali esistenti tra le differenti specie viventi e i loro relativi habitat. L’abbattimento e gli incendi delle foreste tropicali, il consumo di suolo vergine, lo sfruttamento minerario, la caccia e il consumo di fauna selvatica, la concentrazione di allevamenti animali, l’agricoltura superintensiva, il sovraffollamento urbano e lo spostamento continuo di merci e persone sono le cause primarie dello scatenamento delle pandemie. Come aveva scritto inascoltato un attento osservatore dei microrganismi patogeni: «Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie» (David Quammen, Spillover, 2012).

Non c’è alcun “nemico invisibile”, tantomeno imprevisto e sconosciuto, che ha dichiarato guerra al genere umano. Nessuna “catastrofe naturale” e nessun “castigo di Dio” si sono abbattuti su di noi. Al contrario è il sistema economico dominante che provoca un progressivo deterioramento dei sistemi ecologici, l’estinzione di massa delle specie viventi, il surriscaldamento del clima. Tutto ciò aumenta i rischi e la vulnerabilità e abbassa le difese immunitarie degli individui. La retorica sui sacrifici necessari (a partire da quelli affrontati da medici e infermieri, spesso lasciati senza nemmeno i più elementari dispositivi di protezione individuale) non basta a coprire il tracollo del sistema sanitario.

La sottovalutazione dei fenomeni in atto, l’impreparazione e l’incompetenza delle istituzioni pubbliche ad ogni livello – laddove è prevalso il modello neoliberista – hanno indebolito i presidi socio-sanitari con definanziamenti e privatizzazioni. L’aziendalizzazione dei servizi è andata nella direzione opposta a una medicina di territorio. In particolare in Italia abbiamo dovuto constatare un tasso di letalità eccessivo, troppi contagi registrati tra gli operatori sanitari, insufficienza delle attrezzature, mancanza di scorte di strumenti di protezione, assenza di luoghi dedicati alla quarantena, inadeguatezza dei protocolli diagnostici e terapeutici e la mancanza di un piano di emergenza e prevenzione in caso di malattie epidemiche.

Per mascherare questi fallimenti – quasi fossero inevitabili – molti mass-media, politici e persino dirigenti sanitari hanno scelto di raccontare l’impegno per contenere la pandemia da coronavirus usando una terminologia bellica: “battaglie”, “armi”, “trincee”, “nemico”. Il linguaggio della medicina invece si esprime con parole di cura e di pace, non di guerra. Di salute psicofisica, di sollievo della sofferenza, di rispetto della dignità umana.

Le guerre vere, quelle che servono per accaparrare le terre e le risorse del pianeta, la cui violenza si abbatte sulla parte più debole della popolazione civile, continuano purtroppo a essere finanziate (si pensi alla costruzione dei bombardieri F35 e dei sottomarini U-212), preparate e messe in atto in molte parti del mondo causando distruzioni irreparabili all’ambiente e grandi spostamenti forzati di popolazioni. Ha dichiarato Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU: «La furia del virus mostra la follia della guerra. Per questo chiedo un cessate il fuoco mondiale».

Le ripercussioni del lockdown sull’economia globalizzata porteranno ad una crisi senza precedenti con effetti catastrofici specie nei Paesi più periferici (rimasti senza commesse), nei ceti più poveri (rimasti senza reddito), tra i precari (rimasti senza lavoro), tra le donne madri (rimaste senza reti e servizi), tra le bambine e i bambini. Le pandemie non conoscono differenze di classe, ma si ripercuotono accentuando ancor di più le disuguaglianze e le ingiustizie sociali. Per uscirne non basterà inondare il mondo con una pioggia di denaro “a debito”. Bisognerà che quel denaro serva effettivamente ad avviare una profonda conversione ecologica e solidale degli apparati produttivi e dei comportamenti di consumo.

La salute è un bene comune globale. In quanto esseri umani siamo parte della natura.

Esistiamo gli-uni-con-gli-altri, in reciproca connessione. Ogni componente organica e inorganica, dai microorganismi agli esseri umani, concorre a formare un unico complesso sistema che mantiene le condizioni della vita sulla Terra. Ognuno di noi dipende dall’aria che respira, dai cibi con cui si nutre, dal tipo di energia che usa per muoversi, riscaldarsi e comunicare, dall’organizzazione sociale in cui è inserito. Siamo parte dell’universo biogeo- fisico ed energetico.

Il 2020 è l’anno dedicato dall’Onu alla biodiversità. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, circa il 75% dell’ambiente terrestre e oltre il 60% dell’ambiente marino sono gravemente alterati. In più, come nota il Rapporto: «L’accelerazione dei cambiamenti climatici sarà probabilmente associata a un aumento dei rischi, in particolare per i gruppi vulnerabili». Il 2020 è l’anno della verifica dell’Accordo di Parigi sul clima, ma la Cop 26 prevista a Glasgow è stata rinviata al prossimo anno.

Sono già passati cinque anni dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile dell’Onu e molti dei target intermedi fissati al 2020, nell’ambito dei suoi 17 macro obiettivi, sono stati clamorosamente disattesi. Sono passati cinque anni anche dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, ma il suo messaggio per un’ecologia integrale è stato ignorato.

Non possiamo più fingere di non vedere. La normalità del mondo dopo-coronavirus non può essere quella di prima. Tutto e subito deve cambiare direzione, parametri di misura, valori di riferimento. Non vogliamo essere testimoni muti. Mai come oggi è evidente che se volessimo trarre qualche insegnamento dalla tragedia della pandemia dovremmo trasformare alla radice il sistema socioeconomico dominante capitalista, che sta mostrando tutta la sua carica distruttiva e autodistruttiva, nella direzione di una società mondiale giusta e sostenibile.

Speriamo che la giornata della Terra del 22 aprile possa essere il momento di uscita dall’emergenza, di ricongiungimento degli affetti, di abbraccio simbolico dei parenti con i propri cari deceduti, di cordoglio di tutta la comunità, di ringraziamento per quanti si sono assunti rischi enormi nella cura dei malati e, per tutte e tutti, di un nuovo inizio dell’impegno per:

– restituire ai dinamismi naturali almeno il 50% del suolo e delle aree marine; – proteggere e promuovere la biodiversità e il rispetto di tutte le specie viventi; – ridurre da subito le emissioni che alterano il clima;

– fermare immediatamente tutte le guerre in corso, riconvertire le produzioni belliche e liberare risorse per la cura della salute;

– contingentare, tracciare e controllare l’estrazione di materiali vergini dal sottosuolo (combustibili fossili, metalli, altri minerali);

– fermare gli allevamenti intensivi, l’agrobusiness e promuovere l’agricoltura contadina;

– potenziare la ricerca, la prevenzione, la cura e la medicina di comunità;

– applicare sistematicamente il principio di precauzione alle trasformazioni tecnologiche che producono inquinamenti o che manipolano l’autonomia e la riservatezza personale su cui si fonda la democrazia;

– riconoscere la soggettività delle donne, il diritto alla sicurezza anche in famiglia, all’indipendenza economica e all’autodeterminazione nelle scelte riproduttive (unica vera risposta alla crescita della popolazione);

– riconoscere alle comunità locali il potere di decisione sui propri destini e rispettare i saperi e le forme di esistenza delle popolazioni indigene;

– promuovere i beni comuni e le pratiche sociali di gestione comunitaria delle risorse sociali e ambientali di un territorio con modi e forme che garantiscano l’integrazione e la solidarietà tra comunità civili nazionali, continentali e planetarie;

– riconoscere immediatamente i diritti civili e di accesso ai servizi sanitari e al welfare per tutti i cittadini stranieri che si trovano, per qualsiasi motivo, in Italia o in un paese dell’Unione europea;

– anteporre la cura della vita alle leggi del mercato tutelando il lavoro di cura; – garantire le condizioni di lavoro e la sicurezza di tutti i lavoratori e le lavoratrici;

– varare misure urgenti e strutturali per garantire a ogni persona un reddito di base per una vita dignitosa;

– modificare stili di vita, consumi e produzione nel rispetto della Terra e di tutti i suoi abitanti umani e non umani;

– garantire i diritti di tutte le bambine e di tutti i bambini come rappresentanti delle generazioni future.

Questa pandemia ha toccato profondamente le nostre vite.

Poniamo la vita e la cura della vita al centro.

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la vita è un continuo ricominciare – sapremo ricominciare in modo nuovo?

ricominciare diversi da prima

di Enzo Bianchi

in “la Repubblica” del 4 maggio 2020

Sono nato alla fine di un’epoca, quella segnata dal fascismo, mentre cadevano le bombe sulle città del nord Italia; un’epoca a cui ne sarebbe presto seguita un’altra ben diversa, di ricostruzione. Per questo il verbo “ricominciare” è entrato a far parte non solo del mio vocabolario, ma è divenuto un’esigenza della mia vita interiore e sociale.
Ho scoperto presto che Gregorio di Nissa (IV secolo) definiva la vita cristiana un continuo ricominciare: un «andare di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine».

Ricominciare è una dinamica decisiva nella nostra vita. Di più, in questi giorni di passaggio a una nuova fase in rapporto al coronavirus, ricominciare è diventato un imperativo. Va fatto presto, con urgenza, da parte di tutti e di ciascuno. Ma questa fretta e questa voracità di un nuovo tempo mi interrogano, rendendomi diffidente. Non mi pare infatti che tale desiderio sia sorretto da una reale consapevolezza del fatto che ricominciare significa tralasciare comportamenti e stili, reinventarli. Significa impegnarsi nel discernimento di ciò che è nocivo per la nostra convivenza.

L’impressione è che tutti dicano: “Vogliamo ricominciare”, ma in realtà lo identifichino con un ritorno a prima dell’epidemia.
In un mondo malato credevamo di essere sani e, se non abbiamo contratto il virus oppure ne siamo guariti, pensiamo di poter essere sani in un mondo sempre malato. Secondo Enrico Quarantelli e la “sociologia dei disastri”, più grave è la crisi, migliori diventano le persone. Gli esseri umani, sotto l’urto della sventura, mostrano inattese capacità solidali e una certa attenzione al bene comune.

In verità, l’esperienza storica non ci assicura questo esito. Anzi, ci fa constatare che, se da parte di alcuni soggetti coinvolti nella sventura emerge una certa bontà, in altri crescono l’egolatria, la rabbia e la cattiveria sociale. Basterebbe peraltro guardare allo spettacolo fornito da alcuni politici in questi giorni. Nell’ora in cui si dovrebbe sentire il peso della parola “insieme” e si dovrebbe far prevalere la logica del “noi”, continua e anzi peggiora la delegittimazione reciproca. “L’un contro l’altro armati”: questo sembra lo stile assunto in un’ora in cui poveri, anziani e persone fragili sono vittime non solo di un virus ma, ben di più, di un assetto sociale che non tiene conto di loro.

Sono convinto che finché le ragioni economiche saranno più importanti di quelle della fraternità; finché il profitto conterà più delle perdite umane; finché le logiche di bassa politica prevarranno, non ci sarà possibilità di ricominciare. Ricominciare richiede una conversione, un cambiamento. Se non si diventa consapevoli della negatività di certi comportamenti, la corsa a un nuovo inizio rischia di essere uno slogan ingannevole, per indurre a continuare come prima. Lo ha ben espresso in una recente intervista Serge Latouche: «Spero che qualcosa possa cambiare, ma temo che ritorneremo al business as usual ».

fonte: sito di Bose

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ha senso pregare che Dio ci liberi dal coronavirus?

 

pregare in epoca di Covid-19

una visione alternativa in un libro a più voci

un libro contenente espressioni forti per provocarci ad una coraggiosa riflessione

 da: Adista Documenti n° 18 del 09/05/2020

 Come puntualmente avviene per ogni catastrofe, naturale o meno, un’ondata di invocazioni religiose ha accompagnato anche questi tempi di pandemia, riproponendo pari pari la stessa deformazione dell’immagine del divino registrata nelle precedenti occasioni. Un’immagine distorta a cui non ha saputo sottrarsi neppure il papa, con il suo annuncio di aver «chiesto a Dio di fermare la pandemia».

Ed è stata proprio questa, per don Paolo Scquizzato, prete della diocesi di Pinerolo, «la goccia che ha fatto traboccare il vaso», già colmo di immagini di preti impegnati a «portare in giro statue di madonne lacrimogene e santi efficaci contro morbi e pestilenze», di porporati dediti a «brandire ostensori come fossero armi, nell’atto di benedire piazze deserte» e persino di un prete col Santissimo che, da un elicottero, non ha esitato a «impartire una benedizione sentendosi come l’arcangelo Raffaele 2.0». Episodi che, «non fossero documentati e rilanciati migliaia di volte sui social, parrebbero immagini stantie provenienti da epoche lontane e oscure, proprie di una religione oscura e lontana».

E così, ponendosi nel solco di «una teologia intenta a “salvare” Dio dall’essere traballante stampella alle umane insufficienze e immenso tappabuchi delle nostre falle esistenziali», Scquizzato si è rivolto ad alcuni amici e amiche in tutta Italia, da Bolzano a Palermo, chiedendo loro un breve contributo sulla preghiera, «su come poter concepire la preghiera in epoca di Covid-19, e cosa volesse dire pregare Dio in un momento buio come questo». Ne è nato un libro, edito da Gabrielli editori (13 euro, ma disponibile anche in versione e-book a 7,99 euro), dal titolo La goccia che fa traboccare il vaso. La preghiera nella grande prova, che, curato da Scquizzato, raccoglie, oltre la sua, altre sedici brevi riflessioni – tra cui quelle di Franco Barbero, Augusto Cavadi, Paolo Farinella, Paola Lazzarini, Alberto Maggi, Carlo Molari, Silvano Nicoletto, Antonietta Potente, Gilberto Squizzato, Ferdinando Sudati, Antonio Thellung e Paolo Zambaldi –, le quali, ciascuna con la sua ricchezza e con il suo tratto personale, offrono una visione della preghiera «come risposta e impegno nei riguardi di quello Spirito che da sempre soffia all’interno dell’intero creato».

Non si tratta più, per gli autori e le autrici del libro, di una preghiera come richiesta rivolta a un Dio che, secondo quanto scrive Gilberto Squizzato, «se avesse potuto intervenire per fermare l’epidemia con la sua mano, meglio avrebbe forse fatto a prestare soccorso agli esseri umani prima che l’epidemia cominciasse a mietere vittime e a seminare paura». E ciò perché, come scrive Franco Barbero, «il Dio che mi fa la grazia è sparito, come è radicalmente cancellato, con una ablatio totale, il vasto mondo delle devozioni, del “madonnismo”, del suffragio, della messa come sacrificio espiatorio». O, come scrive Paolo Farinella, «“se c’è”, dubito che possa esistere un “dio” come quello in cui comunemente la religione cattolica dice di credere», quello «contrabbandato dalla religione comune, quella delle prime comunioni, del catechismo diffuso e finalizzato ai sacramenti e non alla formazione spirituale, delle Messe a orario (!), dei Rosari vocali a macchinetta, delle assoluzioni dei peccati, dell’obbligo festivo, delle candele, delle processioni, del rituale come trionfo di sfarzo a beneficio dei celebranti, naturalmente “a maggior gloria di Dio”». Di tutto quello, insomma, che Ferdinando Sudati definisce non a caso uno «scivolo diretto verso l’ateismo per le nuove generazioni», ritenendo «indilazionabile l’esigenza di superare il teismo, cioè la concezione di Dio legata alla conoscenza pre-scientifica del cosmo».

La preghiera al centro delle riflessioni raccolte nel libro, al contrario, «è – sottolinea Augusto Cavadi – sostare in silenzio davanti all’enigma che siamo, che sono, che ci circonda da ogni lato. È raccogliermi in ascolto di ciò che veramente, nel profondo, posso e voglio: in ascolto di questa Energia (per la quale nessuno ha un nome adeguato) che mi sostiene, mi sollecita, mi apre alla comunicazione e alla solidarietà. È chiedermi come posso mettere a frutto, per l’autorealizzazione e per la protezione di tutti i viventi, le potenzialità intellettuali, morali, psichiche, fisiche, economiche che, senza merito ma non senza responsabilità, mi ritrovo». È, secondo le parole di Carlo Molari, «mettersi in sintonia con l’energia creatrice che alimenta lo sviluppo della creatura e la rende capace di accogliere, esprimere e comunicare forza vitale in modo più profondo», cosicché, nella preghiera, a cambiare non è Dio, ma l’essere umano.

da questo libro il capitolo di Paolo Squizzato

prego dunque divengo
di Paolo Scquizzato 

 

Arrivato a questo punto della mia vita umana e spirituale, ritengo la preghiera – attestazione ultima della mia umanità – non un domandare per avere, ma un aprirmi per essere.

Atto di povertà disarmante: nello spazio di me lasciato disponibile, nella mia non-resistenza, posso fare finalmente esperienza dell’azione dello Spirito che può manifestarsi, avvolgermi e trasformarmi. Ad oggi, la preghiera per me è “attesa senza oggetto” (Simone Weil). Rimanere aperto e disponibile, in attesa che mi raggiunga e si compia non ciò che ho desiderato e impetrato, ma ciò che so essere bene per me.

Attesa dell’insperato, dell’inedito, dell’impossibile.

Per giungere a questa consapevolezza il cammino è stato lungo. Una maturazione spirituale ma soprattutto conversione, nella sua accezione più letterale: cambiamento di mentalità, di prospettiva, caduta di pregiudizi. Conversione che mi ha portato a guarire dalla visione di un dio che abita l’alto dei cieli, ente sovra-naturale, guardiano delle sue creature, sensibile alle loro invocazioni, attento alle loro azioni, stampella alle loro insufficienze, capace di vivere sentimenti sino a intervenire se lo ritiene opportuno, o astenersi dal farlo, per premiare, infine, i buoni e condannare i cattivi.

E così oggi mi sto pian piano riconciliando con l’impotenza di Dio, e la sua impossibilità di intervenire sul mondo degli umani e sul corso degli eventi della creazione.

Credo oggi, che occorra crescere nell’amicizia e relazione con un Amore che impregna tutte le cose, come l’acqua imbeve la terra donandole vita, e facendola fiorire. Con un Dio che è vita, amore, luce, energia dentro ogni cosa, essendo ogni cosa energia. Come ebbe a dire san Tommaso, Dio è da considerarsi l’essere stesso, e non ente tra gli enti. Dio è “essere di ogni cosa che è”, fondo, coscienza.

La preghiera è dunque per me collegarmi, abitare questo campo di energia che è dappertutto, e in cui io sono immerso e in questo modo poter ascendere alla mia pienezza, venire finalmente alla luce, dopo essere nato alla vita. Ecco, la preghiera come atto di ascesa alla pienezza di me.

Ed è stupefacente costatare che tutta la creazione è in stato di perenne preghiera, perché attingendo alla Vita, essa continua ostinata la sua creazione, in un’immensa gestazione. Paolo l’aveva intuito, che noi esseri partecipiamo dell’essere per immersione: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), e che la creazione attende di essere anch’essa condotta alla nascita completa per via di gestazione: «Tutta la creazione – infatti – geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (cfr. Rm 8,22).

Prego, e in questo modo faccio parte dello spirito di Dio, il medesimo che aleggiava sulle acque all’inizio della creazione, come ci racconta il Libro del Genesi, ed ora è «l’impulso interiore che anima il bosone, il quark e, l’atomo, molecola, la cellula, l’acqua, l’aria, la pianta, i boschi, gli animali, la terra, le stelle, galassie, l’universo aperto e senza limiti» (José Maria Vigil).

Per cui la mia preghiera non può ridursi in un rivolgersi ad un essere che trascende la realtà, con la presunzione di poterne magari determinare le decisioni. Colui che chiamiamo Dio non ha potere sulla realtà, sulla materia, alla stregua di un mago col proprio cilindro.

La natura, la creazione, ogni singola particella fa la sua strada, obbedisce a proprie leggi interne. La materia, che altro non è che energia in movimento, continua e continuerà per sempre la sua danza. Ma noi sappiamo che non esiste danza senza colui che danza. Ebbene, ciò che chiamiamo Dio è la danzatrice che fa sì che esista la danza della creazione in una perenne creazione.

A questo punto una domanda s’impone: ma la preghiera cristiana non ha come fondamento la relazione con un tu, con un Dio sovrannaturale che, come insegnatoci da Gesù, rimane incontestabilmente Padre? Lascio la parola al grande monaco cristiano Henry Le Saux:

«La Divinità è quella profondità di me stesso che è al di fuori della durata, della contingenza, a sé, ecc. Il Dio vivente non è necessariamente colui che diciamo Tu. Ogni Tu rivolto a Dio è una menzogna, un errore. Poiché Dio non è un Tu come gli altri Tu che conosciamo, i Tu che noi concepiamo. Dire Tu a Dio è renderlo non vivente. Chi crede di conoscerlo si allontana da lui. Il Dio vivente, non s’incontra che nel fondo di sé, nel raccoglimento al fondo di sé, al fondo della propria vita, al di fondo di ciò che per cui noi siamo viventi. Non bisogna cercare Gesù né a Betlemme, né a Nazaret, né a Cafarnao, né sul Calvario, nemmeno all’uscita dal sepolcro una mattina di Pasqua. Bisogna cercarlo là dove è realmente il Dio vivente, absconditus in sinu Patris. E il seno del Padre è il fondo di me. Questo Grund (fondo) che Gesù chiama “Abba”(Risveglio a sé, risveglio a Dio)».

E ora un’ultima domanda: questa creazione in espansione che altro non è che Dio che si va rivelando (Leonardo Boff), è cosciente di sé? È intelligente? La scienza pare suggerirci di sì. Essa suggerisce che «tutto ciò che ci circonda, ci si rivela dotato di ipseità, di intelligenza (leggere dentro, cogliere il significato interno che muove tutto). Le galassie, le stelle, gli esseri viventi si auto-organizzano e si auto-regolano, e si interrelazionano in sistemi annidati sempre più ampi e complessi. La nuova cosmologia ci sta dicendo che l’immagine che siamo chiamati ad avere di questo mondo ha più a che fare con il pensiero che con una macchina» (José Maria Vigil).

Perciò, nel corso delle cose, in questo universo di cui faccio parte, anzi, di cui sono parte, in via di espansione e compimento, mi fermo e prego. E pregando divento consapevole dell’energia che mi abita, e da cui mi lascio portare verso la pienezza dell’essere. Mi lascio fare, mi lascio trasformare. E in questa mia preghiera, meno resistenza oppongo – con parole, immagini, pensieri, desideri e preghiere – maggiore sarà la mia trasformazione, perché più forte sarà la Sua azione.

La preghiera, lungi dal toccare e influenzare Dio, trasforma me stesso. Attingendo alla fonte della vita, questa trasforma la mia portandola al compimento.

Prego dunque divengo. Preghiera, atto di trasfigurazione.

Per questo sento sempre più l’esigenza di una preghiera silenziosa, vuota, del sapore del nulla, come vuoto e nulla fu quell’istante prima di quel Big-Bang da cui scaturì tutto l’esistente. Vuoto non come mera assenza, ma come “profondità abissale di energia” dove tutto fu finalmente semplicemente possibile.

E in questa preghiera, spazio di pura possibilità, si libereranno in me – creatura trasfigurata – nuove energie da sempre possedute ma non ancora utilizzate, presenti ma sconosciute. Come ebbe a dire Miguel de Unamuno: «Ognuno di noi ha risorse inutilizzate, angoli dell’anima, cantucci e sacche di consapevolezza che se ne stanno addormentate. E possiamo anche morire senza averle scoperte, per l’assenza di uno spirito affine che ce le riveli». Ebbene, allora prego, sì prego ogni mattina e ogni sera nel silenzio di me per entrare in contatto con questo spirito affine, finché si riveli e possa questa mia potenzialità prendere carne. E a quel punto potrò cominciare a prendermi cura di chi mi sta attorno, cominciando a fare scelte indirizzate a seminare luce nel buio che mi circonda, e a portare pace e amore – per come mi è possibile – nel male che oscura ancora per un po’ questo nostro splendido mondo, certo che come dice Raimon Panikkar: «Nell’atto di pregare l’Uomo partecipa al dinamismo che è al centro della realtà e penetra nel cuore del mondo».

E giungerò così infine a fare esperienza di Dio nei piccoli e semplici gesti di bene di ogni giorno, nei fratelli e sorelle che incontrerò, nell’atto di cura che rialzerà qualcuno dal fango. Consapevole che Dio altro non è che «l’amor che move il sole e l’altre stelle»

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a volte anche la dura sofferenza non è sufficiente a cambiarci il cuore

multe per i «samaritani» a Sassuolo

e fare la carità diventò reato

di Marina Corradi

C’è un’Italia che faticosamente cerca di ripartire, e di far fronte a un futuro incerto e duro: che per molti è disoccupazione, e per qualcuno già fame. C’è un’Italia che ha sperimentato, come non avveniva da due generazioni, la morte che passa vicina, le sirene delle ambulanze che spezzano le città silenziose, i defunti, addirittura, che non trovano più un luogo per riposare, esiliati altrove su colonne di camion dell’Esercito. Grazie a Dio ora il virus sembra arretrare, e si comincia a sperare di tornare a vivere.

Ci si potrebbe aspettare, dopo una simile prova – dopo aver visto come rapidamente si sbriciolano un benessere e una salute che davamo per scontati, dopo aver visto come rapidamente si muore – un sentimento collettivo nuovo, più accogliente col prossimo in difficoltà, più grato d’essere vivi, più generoso.

Ma tra le pieghe dei decreti governativi delle prime riaperture già, nella colonna delle agenzie Ansa sui pc nelle redazioni, s’infila una piccola notizia, dieci righe appena. A Sassuolo, Modena, terra emiliana di gente ricordiamo larga di cuore, l’amministrazione comunale a maggioranza Lega ha votato un provvedimento che prevede una sanzione di 56 euro non a quanti chiedono la carità per strada, ma a chi la carità per strada la fa. Proprio così si parla di pura e semplice carità, della moneta allungata a un clochard steso sul marciapiede, o al poveraccio che mostra la foto dei suoi figli. No, fare la carità deve essere proibito, dicono severamente i consiglieri di Sassuolo, e al sollevarsi delle comprensibili proteste dell’opposizione – e, speriamo, di molti cittadini – replicano: «Non pensiamo certo di multare la vecchietta o l’anziano che vuole fare la donazione, ma così si preserva chi è vittima di condotte moleste da parte dei professionisti dell’accattonaggio».

È vero, ci sono anche quelli, ci sono le squadre di mendicanti lasciate giù sempre dallo stesso pullmino nelle grandi città, ogni mattina, e puntualmente, come braccianti dai campi, ritirati alle 18. Ci sono, i racket, e doveroso sarebbe smantellare queste macchine di sfruttamento. Però i ragazzi dell’est europeo o neri che allungano la mano tesa nelle nostre strade ne sono solo le vittime, e chissà come alloggiati e sfamati, e chissà come trattati, se la sera fanno ritorno dai loro padroni a mani vuote. Quei ventenni agli angoli di Milano sono i fuggiti da lembi d’Africa e d’Oriente, ingannati, caduti nelle mani dei trafficanti, segregati in Libia e fortunosamente scampati al Mediterraneo. A volte anche disabili ingannati con la promessa di un lavoro. Strumenti nelle mani della malavita, vero, ma, prima di tutto, uomini, anzi spesso ragazzi, dell’età dei nostri figli.

Disgraziati cui non pare così deprecabile dare, insieme a un euro, almeno uno sguardo, un impotente segno di umana solidarietà, giacché il racket, noi passanti, non sappiamo debellarlo.

Ma a Sassuolo no, a Sassuolo linea dura. Non con il racket: con chi invece cede minimamente alla pietà del samaritano evangelico. «La vecchietta o l’anziano», spiegano dalla Lega, quasi a indicare che la carità è cosa da vecchi, e che chi è giovane e forte non cede a certi “ricatti”. Perché l’italiano immaginato da quei politici lì è “sovrano”: ha una casa, lavora, produce, e non ha bisogno di aiuto.

Quindi gli manca un po’ di capacità, diciamo, d’immedesimazione: non sa proprio che vuol dire, non avere da mangiare. Non conosce, e disdegna, quel trovarsi miserabili, che umanamente insegna più di cento master all’Università.
Dunque, 56 euro di multa – per alcune «vecchiette» un decimo della pensione minima – ai sentimentali che guardano uno sconosciuto, e gli danno i soldi per un pezzo di pane. Dura lex, sed lex. Ci auguriamo tuttavia, nella paurosa crisi che temiamo ci attenda, che non capiti fra qualche mese, a Sassuolo e altrove, di riconoscere in quelli che tendono la mano per strada ex colleghi, padri dei compagni dei figli, o vicini di casa. Magari anche alcuni quelli che gridavano ‘prima gli italiani!’. In pochi mesi edotti dalla storia di quanto facile e veloce sia la povertà. E uguale, per tutti, la fame.

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il vescovo che dopo aver visto la morte in faccia invoca la prudenza e la responsabilità anche per le celebrazioni religiose

il vescovo di Pinerolo, mons. Derio Olivero

“serve prudenza, io per quel virus ho rischiato di morire”

intervista di Paolo Rodari

 “Ai vescovi suggerisco prudenza. Non sapete fino in fondo cosa sia questa malattia. Non è finita ancora, non forzate la mano”

Monsignor Derio Olivero, 59 anni, vescovo di Pinerolo, a fine marzo è risultato positivo al test per coronavirus. È stato gravissimo. Intubato e tracheostomizzato, ha rischiato di morire. Ora è guarito, seppure sia convalescente in ospedale. A Repubblica racconta la sua esperienza, spesso interrompendosi per piangere.

Come commenta lo scontro fra vescovi e governo?
“Credo non sia il momento di essere imprudenti, ma collaborativi. Il comunicato mi sembra abbia un po’ troppo il tono dell’autonomia. Non è questo il tempo di mostrare i denti bensì di collaborare”.

Si può vivere senza l’eucaristia?
“Abbiamo rinunciato al triduo pasquale. Perché non provare a pazientare? Credo che questa epidemia possa essere un kairòs, un’occasione da cogliere anche nel modo di fare pastorale. Molti vescovi si sono industriati per far pregare le persone nelle case. Molti sono tornati a pregare come non facevano prima. Perché non insistere sulla necessità di reimparare la fede nelle case? Altrimenti rischiamo di tornare a celebrare le messe lasciando però che poi la vita di tutti i giorni sia vuota. La messa può anche essere una parentesi in un vuoto quotidiano”.

Non di sole messe vive il fedele.
“Di fronte a tragedie come queste si vince insieme. Chi mostra i denti ribadisce i propri diritti e pare che vinca, ma collaborerà alla sconfitta”.

Come è stata la sua malattia?
“Durissima. Devo ringraziare i medici dell’ospedale di Pinerolo, un’eccellenza in Italia. A un certo punto ero certo che sarei morto. Anche i medici me l’hanno confermato. Prima della malattia se mi avessero chiesto cosa pensassi della morte avrei risposto che avevo molta paura. E, invece, in quei momenti in cui davvero ero vicino alla morte ero in pace, tranquillo”.

Cosa provava?
“Sentivo che c’era una forza che mi teneva vivo. Non aveva la forza di muovermi, ma sentivo una presenza che mi teneva su. Quando mi sono svegliato ho visto che centinaia di persone si sono raccolte per pregare per me”.

Che sensazioni provava esattamente?
“Come se tutto stesse evaporando, tutte le cose, tutti i ruoli, tutto. Sa cosa restava? La fiducia in Dio e le relazioni costruite. Ecco io ero fatto solo di queste due cose. Erano due cose salde, erano me”.

Era in pace?
“Posso confidarle questo: c’è stata una mezza giornata in cui ho avuto un’esperienza bellissima. Sentivo una presenza quasi fisica, quasi fosse lì da toccarsi. È una cosa indicibile che non avevo mai provato e che mi ha cambiato la vita. Piango e mi emoziono ancora adesso. Se mi si richiedesse se sia disposto a tornare alla sofferenza di queste settimane per riprovare l’esperienza di quella presenza direi di sì. Adesso torno più entusiasta della vita. Questa malattia colpisce il respiro. Nella Bibbia respiro significa spirito, vita. Lo spirito che viene dato. Ogni respiro è un regalo da gustare, viene da Dio”.

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il commento al vangelo della domenica

il pastore che chiama ogni pecora per nome

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua (3 maggio 2020):

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». […]

A sera, i pastori erano soliti condurre il loro gregge in un recinto per la notte, un solo recinto serviva per diversi greggi. Al mattino, ciascun pastore gridava il suo richiamo e le sue pecore, riconoscendone la voce, lo seguivano (B. Maggioni). Su questo sfondo familiare Gesù inserisce l’eccedenza della sua visione, dettagli che sembrano eccessivi e sono invece rivelatori: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Quale pastore conosce per nome le centinaia di pecore del suo gregge e le chiama a sé a una a una? Per Gesù le pecore hanno ciascuna un nome, ognuna è unica, irripetibile; vuole te, così come sei, per quello che sei. E le conduce fuori. Anzi: le spinge fuori. Non un Dio dei recinti ma uno che apre spazi più grandi, pastore di libertà e non di paure. Che spinge a un coraggioso viaggio fuori dagli ovili e dai rifugi, alla scoperta di orizzonti nuovi nella fede, nel pensiero, nella vita. Pecore che non possono tornare sui pascoli di ieri, pena la fame, ma “gregge in uscita”, incamminato, che ha fiducia nel pastore e anche nella storia, nera di ladri e di deserti, ma bianca di sentieri e di sorgenti. Il pastore cammina davanti alle pecore. Non abbiamo un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini. Non un pastore alle spalle, che grida o agita il bastone, ma uno che precede e convince, con il suo andare tranquillo che la strada è sicura. Le pecore ascoltano la sua voce. E lo seguono. Basta la voce, non servono ordini, perché si fidano e si affidano. Perché lo seguono? Semplice, per vivere, per non morire. Quello che cammina davanti, che pronuncia il nome profondo di ciascuno, non è un ladro di felicità o di libertà: ognuno entrerà, uscirà e troverà pascolo. Troverà futuro. Io sono la porta: non un muro, o un vecchio recinto, dove tutto gira e rigira e torna sui suoi giri. Cristo è porta aperta, buco nella rete, passaggio, transito, per cui va e viene la vita di Dio. «Amo le porte aperte che fanno entrare notti e tempeste, polline e spighe. Libere porte che rischiano l’errore e l’amore. Amo le porte aperte di chi invita a varcare la soglia. Strade per tutti noi. Amo le porte aperte di Dio» (Monastero di San Magno). Sono venuto perché abbiano la vita, in abbondanza. Questo è il Vangelo che mi seduce e mi rigenera ogni volta che l’ascolto: lui è qui per la mia vita piena, abbondante, potente, vita «cento volte tanto» come dirà a Pietro. La prova ultima della bontà della fede cristiana sta nella sua capacità di comunicare vita, umanità piena, futuro; e di creare in noi il desiderio di una vita più grande, vita eterna, di una qualità indistruttibile, dove vivi cose che meritano di non morire mai.
(Letture: Atti 2,14.36–41; Salmo 22; 1 Pietro 2,20–25; Giovanni 10,1–10)

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la chiesa secondo il vangelo che sognava Tonino Bello

 

“Una Chiesa povera, semplice, mite. Che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità.
Che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza.
Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e, per il resto, debole.
Ma non per tattica, bensì per programma, per scelta, per convinzione.


Non una Chiesa arrogante, che ricompatta la gente, che vuole rivincite, che attende il turno per le sue rivalse temporali, che fa ostentazioni muscolari col cipiglio dei culturisti. Ma una Chiesa disarmata, che si fa “compagna” del mondo. Che mangia il pane amaro del mondo. Che nella piazza del mondo non chiede spazi propri per potersi collocare. Non chiede aree per la sua visibilità compatta e minacciosa, così come avviene per i tifosi di calcio quando vanno in trasferta, a cui la città ospitante riserva un ampio settore dello stadio.
Una Chiesa che, pur cosciente di essere il sale della terra,non pretende una grande saliera per le sue concentrazioni o per l’esibizione delle sue raffinatezze. Ma una Chiesa che condivide la storia del mondo. Che sa convivere con la complessità. Che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare alla messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e senza rateazioni, di una vita morale meno indegna e più in linea con il vangelo”

(don Tonino Bello, Natale i poveri esistono ancora, in Rocca, 15.12.1985, pag. 45-47).

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