il vescovo Gaillot: “non sopporto una chiesa che pensa a se stessa”

il tempo ‘vuoto’ del coronavirus è occasione preziosa per ‘riempirlo’ di riflessione per un nuovo e più evangelico modello di chiesa che sia, non solo a livello di slogan, ‘chiesa in uscita’ come la vorrebbe, evangelicamente, papa Francesco

 

 

scrive il vescovo Jacques Gaillot …


“Durante un pranzo il mio vicino di tavolo, che è prete, mi informa di aver ricevuto una petizione per la firma: “Si chiede di anticipare l’apertura dei luoghi di culto. Che ne pensi?”.
Questo tipo di richiesta mi provoca un moto di fastidio. Non sopporto che la Chiesa pensi a lei, si preoccupi di lei. L’emergenza è altrove. Sarebbe il colmo se i luoghi di culto potessero aprire prima di bar e ristoranti!
Non è il culto ad essere la cosa principale. Né la pratica religiosa. Ciò che interessa di più all’uomo di Nazareth non è la religione, è un mondo più umano, più solidale, più giusto.
La sua felicità è vederci felici tutti, iniziando dagli ultimi. È venuto per liberare gli oppressi. La sua missione è liberare, non restaurare.
Essere cristiani significa avere la passione dell’uomo.
Oggi con la pandemia tante persone sono disoccupate, tante famiglie non possono più pagare l’affitto, tante persone e i loro figli conoscono la fame, tante persone conoscono la malattia e la solitudine …
Il bel rischio della Chiesa è quello di stare al loro fianco. Senza esitare. Senza aspettare. La Chiesa non è mai se stessa senza i poveri.
Il mio vicino aspetta la mia risposta: “Io sicuramente non firmerò una richiesta del genere. L’importante non è ripartire come prima. L’importante è andare verso i feriti della vita. Prima l’umano”.




papa Francesco tira le orecchie ai vescovi italiani e un monaco di rilievo li invita ad una maggiore aderenza al vangelo

con una tempestività eloquente papa Francesco invoca il Signore perché dia ‘prudenza ‘ al suo popolo e lo renda capace di ‘obbedienza’ alle disposizioni per la fine della quarantena

ai nostri vescovi non fischiano forte gli orecchi?

papa Francesco rompe il silenzio sulla fase 2 del post-coronavirus e chiede ai cattolici di obbedire alle regole del governo:

«In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni»

poche parole ma eloquenti prima della messa celebrata a Santa Marta per fare capire che occorre procedere per gradi

 

 

qui sotto la lettera che un noto e stimato monaco scrive ad un vescovo per scrivere a tutti i vescovi italiani perché siano mossi meno dalla difesa di privilegi ‘cattolici’ e più da motivazioni ‘evangeliche’

lettera a un vescovo

di fr. MichaelDavide Semeraro
in “www.finesettimana.org” del 27 aprile 2020

fratel MichaelDavide Semeraro è monaco benedettino dal 1983. Dopo i primi anni di formazione monastica ha conseguito il Dottorato in Teologia Spirituale presso l’Università Gregoriana di Roma. Nel suo servizio di intelligenza della fede e di accoglienza della vita, cerca di coniugare la sua esperienza monastica con l’ascolto delle tematiche che turbano e appassionano il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Carissimo Vescovo,

permettimi di condividere con te la riflessione di questa mattina. Penso alla reazione forte della CEI alla dichiarazione del Presidente del Consiglio circa la famigerata “fase 2”. Se ho capito bene, si invoca la “libertà di culto” per reagire alla delusione del mantenimento delle restrizioni circa le celebrazioni liturgiche con la sola eccezione per i funerali. Non ritengo assolutamente di conoscere l’insieme della questione e non penso di avere né soluzioni da proporre, né approcci più saggi di quello di chi è costituito in autorità nella Chiesa. Ma condivido con te questa suggestione che mi è salita dal cuore passando dalle “ultime notizie” all’angolo della mia cella in cui mi dedico alla Lectio divina:
Libertà di culto o libertà nel culto?
Proprio in forza del Vangelo e del mistero pasquale di Cristo Signore, ciò che ci caratterizza non è solo la libertà di culto, ma anche la libertà da un certo culto, che permette di maturare un bene cristiano prezioso: una libertà nel culto. Se con le altre religioni condividiamo la giusta rivendicazione della libertà di culto per tutti, precipuo di ciò che il Cristo ci ha “guadagnato” è che la nostra pratica di fede non si identifica con il culto. In alcuni momenti, il culto si può trascendere, senza venir meno alla fedeltà discepolare. Un miracolo che era avvenuto fin qui era la serena alleanza tra la Chiesa, lo Stato e persino la scienza. Gli unici che si sono opposti a questa serena assunzione di responsabilità sono stati i tradizionalisti e quei politici stigmatizzati da papa Francesco in Gaudete et Exsultate 102. Taluni invocano la “religio” e la “christianitas”, ma così poco conoscono del profumo sottile e sempre eccedente del Vangelo di Cristo. Mi auguro vivamente che i vescovi del nostro Paese non prestino oltre il fianco alla tentazione, in nome del culto, di perdere un appuntamento storico per rimettere al primo posto il Vangelo. Anche quando i sacramenti non possono essere celebrati, il Vangelo è sufficiente come sorgente di comunione tra i discepoli e di carità verso tutti. Spero tanto che la nostra Chiesa in Italia non ceda alla tentazione di passare dalla testimonianza appassionata, serena e creativa ad una denuncia di non riconoscimento del “diritto di culto” assumendo la postura di “perseguitata”. Questo rischia di rendere vano il grande guadagno di queste settimane difficili in cui siamo stati capaci di vivere in regime di alleanza nella consapevolezza che nessuno sa bene come comportarsi per evitare il peggio e cercare il meglio. Non penso che si possa accusare il Governo in carica della colpa di “incertezza”, quando la situazione non permette di capire l’evoluzione della pandemia. Sarebbe un peccato passare dall’accompagnamento dei fedeli a vivere serenamente le restrizioni imposte, a lanciarsi in una “crociata” sul diritto alla “libertà di culto”. Sinceramente, penso non si possa nemmeno minimamente immaginare che il nostro Governo attuale voglia calpestare la libertà di culto proprio mentre persino i nostri fratelli musulmani, nel tempo sacro del Ramadan, hanno serenamente accettato di viverlo in modo diverso. Forse è più vero che le forze politiche potrebbero approfittare di questa crepa che si è creata nelle ultime ore per far rientrare alcune pressioni tanto “cattoliche” quanto poco “evangeliche”. Penso in particolare al senso ampio della vita di fede e l’attenzione ai più poveri.

Come discepoli del Risorto possiamo andare al Tempio come facevano i primi cristiani e “spezzare il pane” a casa. Se questo non è possibile o diventa troppo pericoloso o semplicemente incerto abbiamo sempre le nostre “serene catacombe” dove con fiducia attendiamo tempi migliori senza inutili agitazioni. Il Cristo Signore ci dona, con le sue parole e i suoi gesti, di vivere il culto senza identificarci con il culto. Il dialogo magnifico tra il Signore Gesù e la Samaritana può esserci di guida, di luce, di pace. Vedo il rischio di sprecare ciò che siamo stati capaci di recuperare stupendamente in queste settimane prestando il fianco a posizioni che difendendo la religione, in realtà, hanno a cuore la preservazione di un mondo di privilegi e di egoismi.

La nostra fede in Cristo ci spinge piuttosto ad una rinuncia unilaterale ai nostri diritti per portare insieme agli ultimi i <pesi> di doveri condivisi per rendere più prossimo il Regno di Dio. Se anche fossimo gli ultimi tra gli ultimi a ritrovare la possibilità di radunarsi nelle nostre chiese, potremmo portarlo con grazia e perfino con eleganza.

Quando parla un Vescovo si esprime il Collegio dei vescovi, successori degli apostoli. Quando si parla ad un Vescovo, ci si rivolge al Collegio dei vescovi, successori degli apostoli. E’ quello che sto facendo all’alba di questo giorno nel tempo che dedico abitualmente alla Lectio divina: attraverso di te chiedo ai Vescovi della Chiesa che è in Italia di non rendere vana la libertà che Cristo ci ha conquistato con la sua morte in croce. Di questo mistero l’Eucaristia è memoria irrinunciabile. Eppure, la nostra vita di battezzati – anche senza Eucaristia – è incarnazione nella realtà che rimane più grande di ogni idea dogmatica e di pratica anche cultuale. In ultimo, mi sento di rammentare che sempre si debba vigilare nel purificare ogni presa di posizione sugli ideali e i principi, dalla nostra paura di aprirci all’inedito e al nuovo accettando anche di rinunciare alla nostra influenza e, persino, al nostro potere religioso. Ti chiedo scusa di importunarti così presto al mattino e spero tu possa accogliere la confidenza di un monaco che spera di morire cristiano. Ti chiedo di benedirmi e di correggermi se ti sembra necessario.
fr MichaelDavide

 

 




il commento al vangelo della domenica

 

il viandante di Emmaus che si ferma a casa nostra

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della terza domenica di pasqua (26 aprile 2019):

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. […]

Gesù si avvicinò e camminava con loro. Dio si avvicina sempre, viandante dei secoli e dei giorni, e muove tutta la storia. Cammina con noi, non per correggere il nostro passo o dettare il ritmo. Non comanda nessun passo, prende il nostro. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini. Gli basta il passo del momento. Gesù raggiunge i due viandanti, li guarda li vede tristi, rallenta: che cosa sono questi discorsi? Ed essi gli raccontano la sua storia: una illusione naufragata nel sangue sulla collina. Lo hanno seguito, lo hanno amato: noi speravamo fosse lui… Unica volta che nei Vangeli ricorre il termine speranza, ma solo come rimpianto e nostalgia, mentre essa è «il presente del futuro» (san Tommaso); come rammarico per le attese di potere tramontate. Per questo «non possono riconoscere» quel Gesù che aveva capovolto al sole e all’aria le radici stesse del potere. Ed è, come agli inizi in Galilea, tutto un parlare, confrontarsi, insegnare, imparare, discutere, lungo ore di strada. Giunti a Emmaus Gesù mostra di voler «andare più lontano». Come un senza fissa dimora, un Dio migratore per spazi liberi e aperti che appartengono a tutti. Allora nascono parole che sono diventate canto, una delle nostre preghiere più belle: resta con noi, perché si fa sera. Hanno fame di parola, di compagnia, di casa. Lo invitano a restare, in una maniera così delicata che par quasi siano loro a chiedere ospitalità. Poi la casa, non è detto niente di essa, perché possa essere la casa di tutti. Dio non sta dappertutto, sta nella casa dove lo si lascia entrare. Resta. E il viandante si ferma, era a suo agio sulla strada, dove tutti sono più liberi; è a suo agio nella casa, dove tutti sono più veri. Il racconto ora si raccoglie attorno al profumo del pane e alla tavola, fatta per radunare tanti attorno a sé, per essere circondata da ogni lato di commensali, per collegarli tra loro: gli sguardi si cercano, si incrociano, si fondono, ci si nutre gli uni degli altri. Lo riconobbero allo spezzare il pane. Lo riconobbero non perché fosse un gesto esclusivo e inconfondibile di Gesù – ogni padre spezzava il pane ai propri figli – chissà quante volte l’avevano fatto anche loro, magari in quella stessa stanza, ogni volta che la sera scendeva su Emmaus. Ma tre giorni prima, il giovedì sera, Gesù aveva fatto una cosa inaudita, si era dato un corpo di pane: prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Lo riconobbero perché spezzare, rompere e consegnarsi contiene il segreto del Vangelo: Dio è pane che si consegna alla fame dell’uomo. Si dona, nutre e scompare: prendete, è per voi! Il miracolo grande: non siamo noi ad esistere per Dio, è Dio che vive per noi.
(Letture: Atti 2,14.22-33; Salmo 15; 1 Pietro 1,17-21; Luca 24,13-35)




A. Potente sulla ‘ri-presa’ della fase 2 del coronavirus

 

si associa la “fase due” alla “ripresa” che, nel suo significato reale, forse assomiglia di più a un recupero …

www.antoniettapotente.it

Tutti annunciano una “fase”, chiamata “fase due”. Nel linguaggio che i mass media usano comunemente e che ci raggiunge ogni giorno, o in quello stesso che leggiamo nella maggior parte dei quotidiani, si associa la “fase due” alla “ripresa” che, nel suo significato reale, forse assomiglia di più a un recupero. È interessante notare che queste parole sono supportate da quel prefisso, molto presente in tanti verbi della nostra lingua italiana, espressione che esprime per lo più il ripetersi di un’azione, di un gesto e anche di un modo di essere. E forse, ancora oggi, in questi giorni, il pensiero della maggior parte delle persone, quando sente parlare di ripresa, si sente sospinto verso un ritorno, che permetterà recuperare qualcosa di perso o interrotto da alcuni mesi. In realtà, sappiamo che non per tutti sarà così; molti non ritorneranno al lavoro, altri non sono più ritornati alle proprie case perché sono morti e altri ancora sentiranno assenze e vuoti lasciati da amici e familiari, difficilmente colmabili. Ma ciò che mi impressiona di questo ritorno o ripresa o recupero, è proprio il nostro ostinarci a non cambiare. Mi domando allora, perché tornare come prima, perché riprodurre o recuperare il modello anteriore? L’etimologia della parola recupero è molto significativa e forse svela, più di altre, il bisogno che abbiamo di non cambiare la nostra vita. La parola recuperare è composta da “re”, indietro e dal latino capere, cioè prendere. Questo significa che ci viene riproposto di vivere “prendendo”, “accaparrando”.

Ci viene proposto di ricostruire lo stesso modello sociale, sia localmente che mondialmente. Accaparrare e prendere, spasmodicamente: per alcuni denaro, potere, risorse naturali, fino a prendere la vita, l’esistenza di ogni essere vivente. Nessuno ci propone di provare a pensarci in un altro modo, con stili di vita più consoni, che permettano a tutti e tutte di vivere: a ogni popolo, a ogni cultura e anche ad ogni essere vivente. È scioccante sentire che tra le prime imprese che stanno riprendendo il lavoro ci sono la Ferrari e Gucci. Che significa la Ferrari per milioni e milioni di persone, che significa una borsa da 3000 € o più nella quotidianità di donne e uomini comuni? Perché ancora una volta i popoli saranno condannati a vivere dipendendo dall’importazione? Non era forse questo il momento drammaticamente favorevole per cambiare? È scandaloso sapere che in questa stasi collettiva, quasi totale, le fabbriche di armi hanno continuato a produrre. Perché nessuno propone di tornare a un’agricoltura sostenibile? Perché nessuno dice di ripensare nuovi programmi educativi, dove anche bambine e bambini possano imparare ad essere partecipi della vita comune dell’umanità e dell’universo? Mi fermo qui, ciascuna, ciascuno aggiunga alle mie parole la sua inquieta critica.




la lettera amara di un nonno in attesa di morire: “senza cuore siamo solo numeri”

 

la toccante lettera del nonno prima di morire per Covid-19

“nelle Rsa senza cuore siamo solo numeri”

 

una lettera commovente di un nonno ai suoi nipoti:

“se potessi tornare indietro sceglierei di morire con voi vicino”

 

 

Di seguito il testo integrale della lettera d’ addio di un anziano morto per coronavirus all’ interno di una Rsa (Residenza sanitaria assistita) dove purtroppo si sono registrati numerosi decessi e dove le persone sono morte da sole e a causa della pandemia non si è potuto neanche celebrare un funerale

Da questo letto senza cuore scelgo di scrivervi cari miei figli e nipoti. (L’ho consegnata di nascosto a Suor Chiara nella speranza che dopo la mia morte possiate leggerla). Comprendo di non avere più tanti giorni, dal mio respiro sento che mi resta solo questa esile mano a stringere una penna ricevuta per grazia da una giovane donna che ha la tua età Elisa mia cara. È l’unica persona che in questo ospizio mi ha regalato qualche sorriso ma da quando porta anche lei la mascherina riesco solo a intravedere un po’ di luce dai suoi occhi; uno sguardo diverso da quello delle altre assistenti che neanche ti salutano.
Non volevo dirvelo per non recarvi dispiacere su dispiacere sapendo quanto avrete sofferto nel lasciarmi dentro questa bella “prigione”. Si, così l’ho pensata ricordando un testo scritto da quel prete romagnolo, don Oreste Benzi che parlava di questi posti come di “prigioni dorate”. Allora mi sembrava esagerato e invece mi sono proprio ricreduto. Sembra infatti che non manchi niente ma non è così…manca la cosa più importante, la vostra carezza, il sentirmi chiedere tante volte al giorno “come stai nonno?”, gli abbracci e i tanti baci, le urla della mamma che fate dannare e poi quel mio finto dolore per spostare l’attenzione e far dimenticare tutto. In questi mesi mi è mancato l’odore della mia casa, il vostro profumo, i sorrisi, raccontarvi le mie storie e persino le tante discussioni. Questo è vivere, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene e voi me ne avete voluto così tanto non facendomi sentire solo dopo la morte di quella donna con la quale ho vissuto per 60 anni insieme, sempre insieme.
In 85 anni ne ho viste così tante e come dimenticare la miseria dell’infanzia, le lotte di mio padre per farsi valere, mamma sempre attenta ad ogni respiro e poi il fascino di quella scuola che era come un sogno poterci andare, una gioia, un onore. La maestra era una seconda mamma e conquistare un bel voto era festa per tutta la casa. E poi, il giorno della laurea e della mia prima arringa in tribunale. Quanti “grazie” dovrei dire, un’infinità a mia moglie per avermi sopportato, a voi figli per avermi sempre perdonato, ai miei nipoti per il vostro amore incondizionato. Gli amici, pochi quelli veri, si possono veramente contare solo in una mano come dice la Bibbia e che dire, anche il parroco, lo devo ringraziare per avermi dato l’assoluzione dei miei peccati e per le belle parole espresse al funerale di mia moglie. Ora non ce la faccio più a scrivere e quindi devo almeno dire una cosa ai miei nipoti… e magari a tutti quelli del mondo.
Non è stata vostra madre a portarmi qui ma sono stato io a convincere i miei figli, i vostri genitori, per non dare fastidio a nessuno. Nella mia vita non ho mai voluto essere di peso a nessuno, forse sarà stato anche per orgoglio e quando ho visto di non essere più autonomo non potevo lasciarvi questo brutto ricordo di me, di un uomo del tutto inerme, incapace di svolgere qualunque funzione.
Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera. In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici, cattivi? Una volta quell’uomo delle pulizie mi disse all’orecchio: “Sai perché quella quando parla ti urla? Perché racconta sempre di quanto era violento suo padre, una così con quali occhi può guardare un uomo?”. Che Dio abbia pietà di lei. Ma allora perché fa questo lavoro? Tutta questa grande psicologia, che ho visto tanto esaltare in questi ultimi decenni, è servita solo a fare del male ai più deboli? A manipolare le coscienze e i tribunali? Non voglio aggiungere altro perché non cerco vendetta.
Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le Rsa, le “prigioni” dorate e quindi, si, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso. Questo coronavirus ci porterà al patibolo ma io già mi ci sentivo dalle grida e modi sgarbati che ormai dovrò sopportare ancora per poco…l’altro giorno l’infermiera mi ha già preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no.
La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa. Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio. Ma non fate nulla vi prego…non cerco la giustizia terrena, spesso anche questa è stata così deludente e infelice. Fate sapere però ai miei nipoti (e ai tanti figli e nipoti) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale.
E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi.




vivere o vivacchiare? vivere non è vegetare, ci ripete Tonino Bello

VIVERE NON È TRASCINARE LA VITA

”dammi, Signore, un’ala di riserva’

‘di don Tonino Bello

Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita.
Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto:
possono volare solo rimanendo abbracciati.
A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore,
che anche Tu abbia un’ala soltanto. L’altra, la tieni nascosta:
forse per farmi capire che anche tu non vuoi volare senza di me.
Per questo mi hai dato la vita: perché io fossi tuo compagno di volo.

Insegnami, allora, a librarmi con te. Perché vivere non è «trascinare la vita»,
non è «strappare la vita»,
non è «rosicchiare la vita».
Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà.
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo
un partner grande come te!

Ti chiedo perdono per ogni peccato contro la vita.
Anzitutto, per le vite uccise prima ancora che nascessero.
Sono ali spezzate. Sono voli che avevi progettato di fare e ti sono stati impediti.
Viaggi annullati per sempre. Sogni troncati sull’alba.

Ma ti chiedo perdono, Signore, anche per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi.
Per i voli che non ho saputo incoraggiare.
Per l’indifferenza con cui ho lasciato razzolare nel cortile, con l’ala penzolante,
il fratello infelice che avevi destinato a navigare nel cielo.
E tu l’hai atteso invano, per crociere che non si faranno mai più.
Perdonami, Signore!

Aiutami ora a planare, Signore.
A dire, terra terra, che l’aborto è un oltraggio grave alla tua fantasia.
È un crimine contro il tuo genio.
È un riaffondare l’aurora nelle viscere dell’oceano.
È l’antigenesi più delittuosa.
È la «decreazione» più desolante.

Ma aiutami a dire, anche, che mettere in vita non è tutto.
Bisogna mettere in luce. E che antipasqua non è solo l’aborto,
ma è ogni accoglienza mancata. È ogni rifiuto del pane,
della casa, del lavoro, dell’istruzione, dei diritti primari.

Antipasqua è la guerra: ogni guerra.
Antipasqua è lasciare il prossimo nel vestibolo malinconico della vita,
dove «si tira a campare», dove si vegeta solo.
Antipasqua è passare indifferenti vicino al fratello che è rimasto con l’ala,
l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine.
E si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con te.
Soprattutto per questo fratello sfortunato
dammi, o Signore, un’ala di riserva.

don Tonino Bello




“una nuova immaginazione” – il ‘piano’ indicato da papa Francesco per uscire dalla pandemia di coronavirus

coronavirus

 

papa Francesco indica il «piano» per risorgere dalla pandemia

Lucia Capuzzi 

Gli anticorpi della solidarietà contro le emergenze, il protagonismo dei popoli via per lo sviluppo umano

dalla rivista spagnola “Vida Nueva” il Papa invita al coraggio «di una nuova immaginazione»

 

«L’impatto di tutto ciò che sta accadendo, le gravi conseguenze che già si segnalano e s’intravedono, il dolore e il lutto per i nostri cari ci disorientano, angosciano e paralizzano».

Immerso in un interminabile Sabato Santo, il mondo è chiuso nel sepolcro della pandemia. Il peso dell’angoscia per i morti e i malati, della tristezza dell’isolamento, dell’ansia per il devastante contraccolpo economico, gli sbarra la via d’uscita. «Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?». Le parole delle discepole risuonano martellanti. Eppure, proprio nel ventre di pietra del sepolcro, maturano i germi della Risurrezione.
Da lì, dunque, parte il “piano per risorgere” proposto da papa Francesco sulla rivista spagnola Vida Nueva, uno dei punti di riferimento sull’attualità ecclesiale per i Paesi di lingua castigliana. Le lacrime profuse da un capo all’altro del pianeta, nelle ultime settimane, proprio come quelle delle donne di fronte alla tomba del Maestro, non costituiscono le parole ultime e definitive del presente. Poiché da e con esse irrompe il desborde di Dio: parola cara al Pontefice, difficile da tradurre in italiano se non come “di più”. Il traboccamento divino consente agli esseri umani di trasformare il male in nuova forza per costruire il futuro.

«Se abbiamo potuto imparare qualcosa in tutto questo tempo è che nessuno si salva da solo. Le frontiere cadono, i muri crollano e tutti i discorsi integralisti si dissolvono dinanzi a una presenza quasi impercettibile che manifesta la fragilità di cui siamo fatti», scrive Bergoglio e sottolinea: «È il soffio dello Spirito che apre orizzonti, risveglia la creatività e ci rinnova in fraternità per dire presente (oppure eccomi) dinanzi all’enorme e improrogabile compito che ci aspetta».

È, dunque, urgente discernere il suo battito per dare impulso a dinamiche in grado di testimoniare e canalizzare la vita nuova che il Signore vuole generare in questo momento della storia. Non è il momento di comodi palliativi, di rattoppi inadeguati rispetto alle gravi conseguenze della crisi in atto.

«È il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrici», afferma Francesco. L’implacabile lezione di interconnessione della pandemia ci mostra come le emergenze possono essere sconfitte anzitutto «con gli anticorpi della solidarietà», prosegue il Pontefice, citando un recente documento della Pontificia Accademia per la vita. Se agiamo come popolo, pertanto, «persino di fronte alle altre epidemie che ci minacciano, possiamo ottenere un impatto reale».

Saremo capaci di vincere il fatalismo di cui siamo prigionieri e di scrivere la storia presente e futura senza voltare le spalle alle sofferenze di tanti? L’interrogativo di Francesco è rivolto, certo, alla comunità internazionale. Ma soprattutto agli uomini e alle donne di buona volontà nelle cui mani – il Papa l’ha detto più di una volta – risiedono davvero le sorti del mondo. In questo senso l’editoriale su Vida Nueva prosegue la strada già tracciata nella lettera inviata ai Movimenti e alle organizzazioni popolari il giorno di Pasqua, in cui li invitava a essere costruttori di un cambiamento ormai improrogabile: «Pensiamo al progetto di sviluppo umano integrale a cui aneliamo, che si fonda sul protagonismo dei popoli in tutta la loro diversità». Di nuovo, Francesco squarcia il velo della fatica presente per far balenare un orizzonte che vede la famiglia umana unita nella ricerca dello sviluppo umano integrale. È questa «l’alternativa della civiltà dell’amore», con cui conclude l’articolo. Non un vagheggiamento ingenuo bensì un’utopia possibile con uno sforzo impegnato di tutti – come diceva il cardinale Eduardo Pironio, citato dal Papa –, «una comunità impegnata di fratelli».




il commento al vangelo della domenica

le ferite del Signore e la gioia di credere

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica di Pasqua (19 aprile 2020:


La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. […]

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene. Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto. E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il Vangelo, in mezzo a loro. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, la pace qui. Pace che scende dentro di voi, che proviene da Dio. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso. Gesù e Tommaso, loro due cercano. Si cercano. Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani. Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso. Il Vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato, messo il dito nel foro. A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato. È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio. Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, che finalmente sento mia. Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità. Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando le nostre piaghe di luce.

(letture: Atti 2,42–47; Salmo 117; 1 Pietro 1,3–9; Giovanni 20,19–31)




e dopo il coronavirus? papa Francesco invita a scelte radicali

papa Francesco senza peli sulla lingua si scaglia ancora contro il neoliberismo che sta strangolando il mondo

“dopo la pandemia bisognerà scegliere, o con la gente o con il dio denaro”

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Per il papa dopo la pandemia bisognerà scegliere: “O la gente, o il sepolcro del dio denaro” . Papa Francesco torna nuovamente a riflettere sugli egoismi che si manifestano di fronte al contagio durante l’omelia della messa a Santa Marta
L’umanità deve compiere una scelta, ora che si profila la fine della pandemia: scegliere tra una revisione dei propri punti di riferimento sociali, economici e culturali oppure piegarsi al dio denaro, al suo sepolcro.
Papa Francesco torna nuovamente a riflettere sugli egoismi che si manifestano di fronte al contagio (ieri sua una esplicita critica ad una Europa egoista che deve ritrovare l’antico spirito di solidarietà) e avverte: il dopo sia in favore della gente, dei popoli.
Soldi per non rendere testimonianza a Dio, spiega, “è corruzione”. Se si nega l’evidenza delle cose, aggiunge, si sceglie “la strada del diavolo e della corruzione”. E anche oggi, aggiunge nell’omelia della messa a Santa Marta, “davanti alla prossima fine – speriamo – della pandemia abbiamo la stessa opzione: i popoli o il dio Denaro”. Tra una ricostruzione che sia per l’uomo oppure “la schiavitù, la guerra, i bambini senza istruzione”. Una scelta tra “scegliere il bene della gente e cadere nel sepolcro del dio Denaro”.
Il vangelo del giorno racconta che, grazie alla costanza delle donne che hanno appena ricevuto l’annuncio della Resurrezione, la notizia inizia a spargersi e i sommi sacerdoti, i dottori della legge pagano il silenzio delle guardie, per evitare l’imbarazzo del Sepolcro di Cristo rimasto vuoto. Prima considerazione di Papa Bergoglio: “le donne vanno avanti a portare l’annuncio. Sempre Dio inizia con le donne: aprono le strade, non dubitano. Sanno, hanno visto”.
Seconda considerazione: i timori e le paure di quanti ora pensano “quanti problemi ci porterà questo sepolcro vuoto” e fanno in modo da comprare il silenzio dei testimoni che hanno visto. “Questa non è una tangente, questa è corruzione pura”, sillaba le parole Papa Francesco, “quando davanti all’evidenza si sceglie questa strada, questa è la strada del diavolo e della corruzione”. Denaro contro verità anche oggi che si deve iniziare a pensare agli assetti mondiali del dopo coronavirus. Il Papa, già all’inizio della messa, ha lanciato un invito molto significativo.
“Oggi preghiamo per i governanti, per i politici, per gli scienziati che hanno cominciato a studiare la via d’uscita per il dopo pandemia”, ha detto, “il dopo che è già cominciato, affinché trovino la strada giusta sempre in favore della gente, sempre in favore dei popoli”. Più tardi, nell’omelia, lo riafferma e lo scandisce: “Quando non serviamo il Signore Dio, serviamo il Signore Denaro. Una terza via non è data”.

tratto da: https://www.agi.it/cronaca/news/2020-04-13/coronavirus-papa-8320513/




il commentoal vangelo della domenica di pasqua

non un’idea ma un fatto si è imposto agli apostoli

Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. (…)

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica di pasqua (Anno A) (12 aprile 2020):

 

La Pasqua è arrivata a noi attraverso gli occhi e la fede delle donne che avevano seguito Gesù, in un’alba ricca di sorprese, di corse, di paure. Maria di Magdala e Maria di Giacomo escono di casa nell’ora tra il buio e la luce, appena possibile, con l’urgenza di chi ama. E andarono a visitare la tomba. A mani vuote, semplicemente a visitare, vedere, guardare, soffermarsi, toccare la pietra. Ed ecco ci fu un gran terremoto e un angelo scese: concorso di terra e di cielo, e la pietra rotola via, non perché Gesù esca, ne è già uscito, ma per mostrarlo alle donne: venite, guardate il posto dove giaceva. Non è un sepolcro vuoto che rende plausibile la risurrezione, ma incontrare Lui vivente, e l’angelo prosegue: So che cercate Gesù, non è qui! Che bello questo: non è qui!
C’è, esiste, vive, ma non qui. Va cercato fuori, altrove, diversamente, è in giro per le strade, è il vivente, un Dio da cogliere nella vita. Dovunque, eccetto che fra le cose morte. È dentro i sogni di bellezza, in ogni scelta per un più grande amore, dentro l’atto di generare, nei gesti di pace, negli abbracci degli amanti, nel grido vittorioso del bambino che nasce, nell’ultimo respiro del morente, nella tenerezza con cui si cura un malato. Alle volte ho un sogno: che al Santo Sepolcro ci sia un diacono annunciatore a ripetere, ai cercatori, le parole dell’angelo: non è qui, vi precede. È fuori, è davanti. Cercate meglio, cercate con occhi nuovi. Vi precede in Galilea, là dove tutto è cominciato, dove può ancora ricominciare. L’angelo incalza: ripartite, Lui si fida di voi, vi aspetta e insieme vivrete solo inizi. Vi precede: la risurrezione di Gesù è una assoluta novità rispetto ai miracoli di risurrezione di cui parla il Vangelo. Per Lazzaro si era trattato di un ritorno alla vita di prima, quasi un cammino all’indietro. Quella di Gesù invece è un cammino in avanti, entra in una dimensione nuova, capofila della lunga migrazione dell’umanità verso la vita di Dio. La risurrezione non è un’invenzione delle donne. Mille volte più facile, più convincente, sarebbe stato fondare il cristianesimo sulla vita di Gesù, tutta dedita al prossimo, alla guarigione, all’incoraggiamento, a togliere barriere e pregiudizi. Una vita buona, bella e felice, da imitare. Molto più facile fondarlo sulla passione, su quel suo modo coraggioso di porsi davanti al potere religioso e politico, di morire perdonando e affidandosi. La risurrezione, fondamento su cui sta o cade la Chiesa (stantis vel cadentis ecclesiae) non è una scelta degli apostoli, è un fatto che si è imposto su di loro. Il più arduo e il più bello di tutta la Bibbia. E ne ha rovesciato la vita.

(Letture della domenica di Pasqua: Atti 10,34a.37–43; Salmo 117; Colossesi 3,1–4; Giovanni 20,1–9. Il Vangelo commentato in questa rubrica è quello della Veglia pasquale Matteo 28,1-10)