la pandemia da coronavirus e la sospensione della triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità

una chiesa in aspettativa?

di Gilberto Borghi 

Sospese le messe. Sospese le attività catechistiche. Fortemente limitate anche quelle caritative. Colpita al cuore la triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità. Ma non siamo tutti chiamati a vivere il vangelo, a prescindere dallo specifico del ruolo ecclesiale?

Sospese le messe. Sospese le attività catechistiche. Fortemente limitate anche quelle caritative. Colpita al cuore la triade classica della pastorale: catechesi, liturgia, carità. Con tanto dispiacere accetto questa situazione e credo che si dovesse davvero fare così, soprattutto dopo la decisione di “blindare” l’Italia. Milioni di persone colpite economicamente, psicologicamente, spiritualmente. Non mi sarei mai immaginato di vivere in queste condizioni in Italia. Ma accetto. E provo a continuare a vedere cosa si possa imparare da questa situazione.
Una chiesa che non può più vivere i propri ruoli interni nelle forme ormai codificate da tempo, sembra una chiesa “in aspettativa”. E’ di questi giorni lo “sfogo” di un amico prete: “Va bene, capisco la questione sanitaria, ci mancherebbe. Ma se mi tolgono la messa, il catechismo e gli incontri io che faccio?” Provo ad immaginare che abbia una sua ragione per dirlo. Formati ed educati a vivere il sacerdozio come condizione per espletare le funzioni specifiche che lo riguardano, i preti possono anche faticare a cogliere il senso della loro esistenza fuori da tale specifico. Ma forse la stessa domanda potrebbe farsela anche un laico, un catechista, ad esempio, che si trova senza ruolo specifico da svolgere, e che di fronte a questa “tempesta” inaudita può pure lui sentirsi svuotato dell’ordinario modo di essere cristiano.
Ma non siamo forse tutti battezzati? Anche il prete? E come tali non partecipiamo tutti della regalità, profezia e sacerdozio universale dei fedeli? Cioè, siamo tutti chiamati a vivere il vangelo, nella sua essenza di fondo, a prescindere dallo specifico del ruolo ecclesiale. In un bel post di fb, don Cristiano Mauri chiarisce, molto meglio di quanto posso fare io, cosa significa vivere il vangelo fuori dai ruoli ecclesiali “in aspettativa”.

“Guardo con meraviglia e sorpresa uomini e donne di fede che non si sono troppo scomposti all’arrivo della “tempesta”. Certo, gli è sobbalzato il cuore in petto, hanno vissuto lo smarrimento della sorpresa, si sono preoccupati e si preoccupano dei loro cari, hanno conosciuto il turbamento profondo e la paura di perdersi. Ma poi, son tornati semplicemente a “fare il Vangelo” che stavano facendo.
Pregano il Padre, così come gli viene, come hanno sempre fatto con umiltà, libertà e fiducia nel suo amore. Amano i fratelli e le sorelle in tutto, così come riescono, non per spirito eroico, ma perché è l’unico modo che ritengono buono per dar senso alla vita. La “tempesta” per loro non è la fine di tutto. Solo un luogo diverso in cui “fare Vangelo”. Un luogo più faticoso, pieno di scuotimenti, carico di rischi, è vero. Ma non la ragione per smettere il Vangelo come un vestito inadatto.
E non cessano di amare. I fratelli, il Padre, come un unico movimento. Perché il Padre non abbandona e i fratelli non si possono abbandonare. Lo fanno come riescono e come possono. E son così abituati a farlo che reinventare modi, gesti, parole, iniziative di vicinanza e di amore non gli viene poi così difficile. Anzi, trovano perfino una grazia nella possibilità di aprire strade nuove.
Non si preoccupano troppo di distinguersi dagli altri, anzi sono più beati se non vengono riconosciuti. Non nascondono le loro inadeguatezze, sanno i loro limiti, ma non ne hanno soggezione né vergogna. Non si ritengono meritevoli di ammirazione, pensano semplicemente che stanno facendo quel che devono. Non pretendono l’esclusiva del bene ma si sentono alleati di tutti coloro che stanno lavorando per salvare, guarire, proteggere, li considerano come fratelli senza guardare al loro credo, e lodano il Padre perché vedono quanto la sua Opera sia molto più grande delle loro opere.
Guardo queste donne e questi uomini, che mi stanno insegnando molto, con grande riconoscenza e ammirazione. E poi guardo a chi, sbandierando la propria fede, grida e si lamenta perché «ci stanno impedendo di essere cristiani». Mi chiedo, sommessamente, che cosa mai stessero davvero facendo questi prima della “tempesta”, per non saper che fare durante. Molti chiedono parole di Speranza. Ma se non ho letto male il Vangelo, la Speranza cristiana, più che un discorso, è una vita donata per amore. La Speranza cristiana forse si dice, ma anzitutto si fa. E io sono grato a chi, in questo tempo, col suo fare, “fa sperare”. Che creda, o no”.
Grazie don Cristiano.

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in tempi di coronavirus fede e preghiera, sì, ma non fanatismo personale ed ecclesiale

 

 

“così papa Francesco ci insegna a riscoprire il divino che è in noi”

intervista a Alberto Maggi

a cura di Paolo Rodari
in “la Repubblica” del 28 marzo 2020

«Le messe senza popolo online? Non mi piacciono. Purtroppo molti preti sono stati abituati così. Per loro non c’è salvezza senza un Dio che da fuori viene a salvare l’uomo. Se si toglie loro la celebrazione della messa non sanno cosa fare. Non capiscono che il Signore è già in noi, si fa pane nella parola. Egli è dentro l’uomo e chiede solo di andare ad aiutare gli altri».

Alberto Maggi, fine biblista, sacerdote e teologo, commenta il momento presente. Il Papa ha detto che è possibile, in attesa che tutto torni alla normalità, chiedere perdono a Dio dei propri peccati pregando nel silenzio. Un ritorno alla preghiera personale e intima spesso elusa da una Chiesa che vuole invece avere il controllo sui fedeli.

Padre Maggi, alcune cronache raccontano di sacerdoti che celebrano con i fedeli di nascosto. Cosa pensa?

«Assurdo. Danno anche la comunione sotto le due specie, bevendo dal calice sostenendo che tanto è sangue di Cristo e come tale non può trasmettere il virus. Questa non è fede, è fanatismo. Giocano a fare i cristiani delle catacombe e non sanno che provocano un’ecatombe».

Un errore grossolano di visione di sé, di Dio e del mondo? 

«Pensano di essere gli unici intermediari fra la gente e Dio, ma il Signore non ha bisogno di intermediari. Dio è stato per troppo tempo visto come esterno all’uomo e lontano. Gesù ha superato ciò. Giovanni dice che a chi ama il Padre, Gesù e lo stesso Padre verranno in lui. Dio si manifesta non quando alziamo le mani al cielo, ma quando ci rimbocchiamo le maniche e aiutiamo gli altri».

Per un certo clero tutto ciò significherebbe perdere il controllo sui fedeli e per certi fedeli uscire da una visione clericale della fede.

«Se Dio sta nel cuore dell’uomo non lo puoi controllare. Ma quando scopri Dio dentro di te tutto cambia. Non devi più cercarlo e vivere per lui, ma vivi di lui. Dio non ti chiede più nulla».

A cosa serve chiedere a Dio di fermare la pandemia?

«Dio non può fermarla, non può cambiare il corso della storia, ma può dare all’uomo la sua forza per viverla».

Come si spiega questo tempo così difficile?

«I danni del coronavirus sono anche il prodotto di una politica che all’inizio ha privilegiato gli interessi economici di pochi a discapito del bene comune. Francesco in Laudato Sì chiede una cura per la casa comune che pochi perseguono. Il paradiso perduto è da guadagnare adesso».

In che senso?

«Francesco fa sua una lettura profetica del racconto della creazione. Il libro della Genesi non guarda al passato, non è storia ma teologia. L’autore non descrive il rimpianto per un passato, ma la profezia per il paradiso da costruire»

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il commento al vangelo della domenica

le lacrime di chi ama, una lente sul mondo

 

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quinta domenica di quaresima (29 marzo 2020):

 In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». […]

Il racconto della risurrezione di Lazzaro è la pagina dove Gesù appare più umano. Lo vediamo fremere, piangere, commuoversi, gridare. Quando ama, l’uomo compie gesti divini; quando ama, Dio lo fa con gesti molto umani. Una forza scorre sotto tutte le parole del racconto: non è la vita che vince la morte. La morte, nella realtà, vince e ingoia la vita. Invece ciò che vince la morte è l’amore. Tutti i presenti quel giorno a Betania se ne rendono conto: guardate come lo amava, dicono ammirati. E le sorelle coniano un nome bellissimo per Lazzaro: Colui–che–tu–ami. Il motivo della risurrezione di Lazzaro è l’amore di Gesù, un amore fino al pianto, fino al grido arrogante: vieni fuori! Le lacrime di chi ama sono la più potente lente d’ingrandimento della vita: guardi attraverso una lacrima e capisci cose che non avresti mai potuto imparare sui libri. La ribellione di Gesù contro la morte passa per tre gradini: 1. Togliete la pietra. Rotolate via i macigni dall’imboccatura del cuore, le macerie sotto le quali vi siete seppelliti con le vostre stesse mani; via i sensi di colpa, l’incapacità di perdonare a se stessi e agli altri; via la memoria amara del male ricevuto, che vi inchioda ai vostri ergastoli interiori. 2. Lazzaro, vieni fuori! Fuori nel sole, fuori nella primavera. E lo dice a me: vieni fuori dalla grotta nera dei rimpianti e delle delusioni, dal guardare solo a te stesso, dal sentirti il centro delle cose. Vieni fuori, ripete alla farfalla che è in me, chiusa dentro il bruco che credo di essere. Non è vero che «le madri tutte del mondo partoriscono a cavallo di una tomba» (B. Brecht), come se la vita fosse risucchiata subito dentro la morte, o camminasse sempre sul ciglio di un abisso. Le madri partoriscono a cavallo di una speranza, di una grande bellezza, di un mare vasto, di molti abbracci. A cavallo di un sogno! E dell’eternità. Ad ogni figlio che nasce, Cristo e il mondo gridano, a una voce: vieni, e portaci più coscienza, più libertà, più amore! 3. Liberatelo e lasciatelo andare! Sciogliete i morti dalla loro morte: liberatevi tutti dall’idea che la morte sia la fine di una persona. Liberatelo, come si liberano le vele al vento, come si sciolgono i nodi di chi è ripiegato su se stesso, i nodi della paura, i grovigli del cuore. Liberatelo da maschere e paure. E poi: lasciatelo andare, dategli una strada, e amici con cui camminare, qualche lacrima, e una stella polare. Che senso di futuro e di libertà emana da questo Rabbi che sa amare, piangere e gridare; che libera e mette sentieri nel cuore. E capisco che Lazzaro sono io. Io sono Colui–che–tu–ami, e che non accetterai mai di veder finire nel nulla della morte.

(Letture: Ezechiele 37,12–14; Salmo 129; Romani 8,8–11; Giovanni 11,1–45)

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il coronavirus e l’aiuto della fede oltre le supestizioni e le strumentalizazioni

 

LA FEDE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

 

una riflessione di p. Felice Scalia

 In questi giorni neri, dove la primavera anticipata sembra una beffa della natura, mi vengono spesso in mente due capolavori: “I Promessi Sposi” di Manzoni – con le celebri pagine sulla peste – e “La Peste” di Camus. In tutti e due le opere c’è chi vive la tragedia nella fede cristiana e chi la perde questa fede. Mi chiedo come oggi stiamo vivendo noi cristiani la tragedia, tutti in qualche modo minacciati dal nemico invisibile.
Avviene, ma come mai, che nei periodi in cui il pericolo è universale si dimentichi perfino quanto in tempi normali si riteneva essenziale della nostra vita? O che si perda la fede sentendoci ancora più soli? O che nasca il cinismo di chi non ha neppure il pudore di tenere per sé un pensiero come il seguente: “Muoiono i vecchi. Benissimo. Liberiamocene!”?
Siccome questa è storia concreta, devo aggiungere che non è la sola storia di questi giorni. C’è l’abnegazione di medici e personale sanitario, ci sono scene di struggente altruismo, c’è gratitudine popolare, forse tutta italiana, per chi mette a repentaglio la sua vita per far vivere. La sorprendente dichiarazione di un medico – “Se non avessi la fede, non avrei fatto il medico” – mi induce a pensare che c’è molta fede implicita in questi eroi quotidiani. Forse non è così sbagliato il cosiddetto Teorema di Quarantelli (sociologo americano): “Peggiore è la situazione, migliori diventano gli uomini”.
Ma, come cristiano (almeno in spe) e come prete mi chiedo come vivere nella fede del Signore Gesù questi giorni.
Mi scrive un giovane presbitero amico:

In isolamento anch’io, ma tutto bene grazie a Dio. Le mie “pecorelle” stanno bene, si scoraggiano un po’ a stare lontano dalla parrocchia… ma io cerco di stare vicino con qualche telefonata e qualche “chiacchierata” a distanza con i miei vicini di casa! Nel frattempo approfitto un po’ anche per recuperare forza e coraggio anch’io. Prego e leggo … Mi chiedo quanto sforzo dobbiamo fare per riuscire a superare una certa impostazione e un modo di conoscere Dio più legato ai nostri schemi (quelli nei quali siamo cresciuti, anche noi giovani) che alla freschezza del Vangelo … Con tutta la buona volontà, ho l’impressione che anche involontariamente a volte restiamo impigliati. Avremo modo di discuterne a voce.
Ma il mio pensiero è sempre per la parrocchia. Forse questo “digiuno” eucaristico potrà contribuire ad accrescere il desiderio di Dio nella gente… io me lo auguro e cerco di accompagnarlo. Credo che la nostra principale missione, in questo momento, sia proprio questa, più che fare videomessaggi e catechesi on-line. Potrei sbagliarmi, ma punto a stimolare una fede più genuina e meno superstiziosa. Non legata al monte e al tempio, per dirla con la samaritana, ma allo spirito e alla verità. A volte il silenzio intorno a me, lo sguardo che non riesce ad incrociare altri occhi, l’incertezza del domani… lasciano qualche varco alla paura. Che cerco di affidare sempre al Signore.”

Mi affido a queste parole per rispondere alle mie domande sul come vivere “coram Domino” questi difficili giorni e come camminare con la gente domani. Tanta sofferenza e tanto sbigottimento non possono passare invano. Mi fermo a tre soli spunti.

“Il mio pensiero è sempre per la parrocchia”

Se credo davvero nel Risorto e so che l’ultima parola è la Vita, oggi sto accanto alla mia gente, e non solo localmente. Non mi rendo irraggiungibile, per paura che sia costretto a fare l’eroe, non scendo per primo dalla nave in pericolo, “perché il coraggio, mica uno se lo può dare!”. Se tutti hanno paura, anche io ho diritto di averla; se tutti hanno incertezze, anche io le avrò; se nessuno ha risposte certe sul domani, neppure io prete. Ma qualcosa di particolare la ho e la posso dire: non può affondare una nave in cui è imbarcato lo stesso figlio di Dio.

“Contribuire ad accrescere il desiderio di Dio nella gente…”

Non credo si tratti di accrescere quel desiderio di Dio che domani farà venire la gente in chiesa e moltiplicherà i nostri “clienti”. Desiderio di Dio è desiderio di vivere secondo Verità. È infatti menzogna pensarci autori della vita, arbitri del bene e del male (i due alberi violati di Genesi 3), e dunque possibili padroni della Terra e degli uomini, secondo la legge bestiale della giungla “la forza è fondamento del diritto” – come affermano gli “empi” in Sap 2,11.
Noi preti questo non sempre lo abbiamo detto. Anzi a volte abbiamo presentato Dio non come Colui che ci dava le leggi della vita, quelle che ci strutturano dall’intimo e ci permettono di vivere, ma come una sorta di monarca che impone leggi e balzelli, per vedere se i sudditi sono ossequienti o no, perché al suo potere ci tiene e lo vuole assicurare con la paura.
Il desiderio di Dio non ha dunque niente da condividere con il possibile risvolto ideologico che si può desumere da tante preghiere rivolte a Lui. Devo stare attento – mi dico. Chiedere a Lui la fine della prova, non può ingenerare l’idea che sia stato Dio a mandarci il flagello? Chiedere di avere pietà di noi, non può fare pensare che Dio ci stia castigando? Non è così. E lo sappiamo aprendo appena il Vangelo, come dovrebbero aprirlo certe trasmittenti fin troppo devote ma forse di ben poca fede cristiana. Domani, in giorni “più leggiadri e men feroci”, dovremmo reimparare e reinsegnare il senso della preghiera come Gesù la comanda.

“Stimolare una fede più genuina e meno superstiziosa”

Sorvolo sulle molte forme di superstizione di cui è intrisa la religiosità popolare e non solo essa. Ogni prete queste cose le sa bene. Se le trova davanti ad ogni Festa Del Patrono, dove non si capisce che cosa stia facendo propriamente la gente con le sue acclamazioni ed i suoi rituali centenari. Tuttavia il modo migliore per combattere questo pericolo di superstizione è “stimolare una fede più genuina”.
E cioè? Un fede più centrata sul Gesù del Vangelo e molto meno sulle speculazioni di una teologia astratta. Più sul vivere come Gesù ha vissuto che sul sapere tutto di lui, come se noi potessimo conoscere di Dio e di Gesù qualcosa, oltre quello che la vita, i gesti di Gesù ci rivelano. Una fede che spinge non solo alla “fede in Gesù”, ma anche ad assumere come propria, nel quotidiano “la fede di Gesù”: il suo modo guardare il mondo, il destino umano, il Mistero Santo dell’Origine, lo scopo della vita. Egli ci ha “salvati” togliendoci dalla disperazione di sentirci abbandonati da uno strano Creatore nelle mani dei potenti. E ci ha detto che Dio è “Padre” amorevole e misericordioso. Ci ha “salvati” dicendoci qual è la nostra verità di umani: siamo figli amati del Padre e fratelli benevoli tra noi. Ci ha detto che la nostra dignità di umani non è legata a ciò che abbiamo accumulato, al potere che abbiamo, al successo, ma solo ed esclusivamente al fatto che siamo creature con lo ”stampo” del Padre, assetate di infinita bellezza, di estasi della vita, intrinsecamente impastate di Amore, fino a non avere requie se non amiamo come il Padre ama.
Per farci comprendere questo, Gesù non ha preteso di divinizzare l’uomo, di elevarlo a ciò che non è (avrebbe sacralizzato la prepotenza dei prepotenti che si autoproclamavano “divini” e “sacra maestà”, avrebbe giustificato i superuomini) ma ha umanizzato Dio, ci ha detto che possiamo vivere di Dio e con Dio nei gesti della nostra umanità. Tutti possiamo esprimere l’Infinito nei piccoli gesti del finito, possiamo odorare di Eterno negli atteggiamenti che operiamo nel tempo. E perché non restassero dubbi, Gesù nasce da un popolo disprezzato, in una famiglia povera, ama stare con gente di cattiva reputazione, con peccatori e pubblicani, con coloro che non hanno nessun titolo oltre la loro nuda (ed a volte ambigua) umanità. In tutti costoro vede una traccia indelebile e non negoziabile della loro somiglianza col Padre. Gesù ci ha detto che l’uomo è “divino” se vive pienamente la sua umanità quotidiana di creatura umana. Se vive per ciò che intrinsecamente è, se tende al raggiungimento dello scopo per cui è stato creato: uomo così umano da fare trasparire la sua origine divina.
Non vorrei cadere nella stessa trappola di quanti strumentalizzano la sofferenza e la paura per assicurarsi che domani, quando Dio vorrà, le chiese saranno finalmente piene. Oggi noi preti siamo chiamati a stare con la gente. Questo nostro stare-con è già un segno che Dio non ha abbandonato il suo popolo. Oggi dobbiamo spingere a questa forma di amore che è la distanza e la paura di essere untori. Ma abbiamo anche l’obbligo di pregare meditando su quanto accade. Nella quiete di giornate fin troppo lunghe, non possiamo, non dobbiamo preoccuparci di rivedere la nostra storia e chiederci se per caso, proprio noi esperti della “salvezza”, non abbiamo trascurato di dire con chiarezza che la fede non è tanto nozione appresa che fa conoscere la definizione esatta di Dio, quanto piuttosto luce per dare senso alla vita? O che essa è significato ultimo dei nostri giorni e di tanto nostro “fare”? E ancora ritengo urgente chiederci se, ancora noi, non abbiamo finito per appoggiare chi è responsabile del disastro attuale meticolosamente annunziato dai disastri precedenti. Siamo stati le sentinelle della Vita o abbiamo finito per stare – senza accorgercene – dalla parte di chi offendeva questa vita offrendo benefici ad una parte della popolazione mondiale e disprezzando chi stava al di fuori dei beneficiati? Non è strano che la pandemia colpisca i Paesi benestanti e, in Occidente, i Paesi di tradizione cristiana?
Qui non si tratta di scelte politiche fatte o non fatte dalla Chiesa. Mi sto chiedendo se la nostra teologia e la nostra pastorale siano state così accorte da volere rimanere cristiane, degne cioè dell’unico Gesù della storia che traspare dal Vangelo. Di quel Gesù che ha osato definirsi Vita e portatore di Vita.
Mentre ridicoli potenti si chiedono se il coronavirus sia cinese o americano, mentre questi potenti evitano di affrontare il problema se il sistema da essi imposto con inaudita violenza sia compatibile con la vita sul Pianeta, a noi preti corre l’obbligo di chiederci se non abbiamo trascurato qualcosa di importante nella trasmissione del Vangelo. Qualcosa come la Bella Notizia così come ce l’ha lasciata Gesù di Nazareth e come oggi disperatamente cerca di portarla in evidenza Papa Francesco.
Ne abbiamo da fare, mentre c’è … tanto poco da fare nelle chiese chiuse.

padre Felice Scalia è gesuita dal 1947. Laureato in filosofia, teologia e scienze dell’educazione, ha insegnato alla facoltà teologica dell’Italia Meridionale e poi all’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose di Messina. Collabora con Presbyteri, Horeb, Rivista del clero, Vita consacrata, Spirito e Vita e Vita Pastorale

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il commento al vangelo della domenica

SEI FATTO PER LA LUCE

 Passando vide un uomo cieco dalla nascita  e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.  Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo».  Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco  e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di quaresima (22 marzo 2020):

Il vangelo racconta la conquista della luce.
Quanti occhi intelligenti e acutissimi ho visto spegnersi, occhi che dicevano di vedere lontano, ma ci basta una lacrima, un fatto doloroso e gli orizzonti si spengono, il cielo si fa nero e ogni strada è senza uscita.
La vista che va lontano viaggia oltre le apparenze, e va conquistata. Gesù non cessa di dirlo: il Vangelo è per coloro che imparano oltre la superficie dei fatti e delle cose.
È successo che per la seconda volta Gesù guarisce di sabato. Di sabato non si può, si trasgredisce il più santo dei precetti. Io spero tanto di essere diverso dai farisei di questo Vangelo. Perché di fronte alla gioia di chi vede per la prima volta il sole e gli occhi di sua madre, anche gli alberi, se potessero, applaudirebbero, anche i fiumi batterebbero le mani, come dice il salmo.
Loro, no. I farisei sanno la teologia e dimenticano la vita, vedono il caso morale e dottrinale, non l’uomo! Per loro l’unico criterio di giudizio è l’osservanza della legge.
Sono i puri che non si commuovono.
E’ facile essere credenti senza bontà. Facile e mortale.
C’è un’infinita tristezza in tutto questo.
E cosa fanno? Avviano un processo per eresia: da miracolato a imputato. E nessuno che provi pena per gli occhi vuoti del cieco; nessuno che si entusiasmi per i nuovi, poveri ma ricchi, occhi illuminati.
Il dramma che si consuma in quella sala è questo: il Dio della vita e il Dio della religione si sono separati e non si incontrano più. La dottrina è separata dall’esperienza della vita.
Ma il cieco è diventato libero, è diventato forte, tiene testa ai sapienti: voi parlate e parlate, ma intanto io ci vedo!
Lui dice a noi che se un’esperienza ti comunica Vita, allora è per forza buona, è benedetta.
Nel brano regna una religione immiserita a questioni di peccato, innalzato a teoria che spiega il mondo e pretende di interpretarne la realtà. Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori? Gesù non ci sta. Si allontana subito, immediatamente, da questa visione che rende ciechi. Dio lotta con te contro il male, è compassione e futuro, amore che fa ripartire, che preferisce la felicità dei suoi figli, al loro obbedire.
Legge suprema di Dio è che l’uomo viva. E gloria di Dio è un uomo che torna a vedere, e il suo sguardo lucente, dà lode a Dio più di tutti i sabati!
L’uomo non coincide con il suo peccato, ma con il possibile bene futuro. Gesù non parlerà di peccato se non per dire che è perdonato; che Dio non spreca la sua eternità in castighi, che non si appiattisce sul nostro moralismo. Egli è compassione, approccio ardente, mano viva che tocca il cuore e lo apre.
Egli vive per te. Senti dalle sue mani fluire la vita come fiume e sole: gioiosa, inarrestabile, eterna.
E il tuo cuore leggero ti dirà, sottovoce, che sei fatto per la luce.

(Giovanni 9,1-41)

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imparare in tempi di coronavirus

 

In questi giorni di isolamento,
in cui siamo costretti a rimanere a casa,
non mi preoccupo se i miei figli
non svolgono i compiti assegnati, non mi importa della scuola.

Non mi affanno a scaricare loro
le schede online, le letture, i ripassi,
l’elenco delle operazioni.

Non aspetto che gli insegnanti si attivino
in lezioni a distanza, mi è indifferente,
anche se quest’anno i programmi scolastici
probabilmente si fermeranno a febbraio.

Non mi rammarico di quanto i miei figli possano rimanere indietro.
Indietro a che cosa?
È un tempo questo che gli insegnerà altro,
ciò che non troveranno in nessun libro.

Impareranno a confrontarsi con la vita, quella vera.
A seguire l’unico programma che non è mai lo stesso,
che è pieno di fatti imprevedibili, di interrogazioni che ci trovano impreparati,
di lezioni nuove.

Impareranno il rispetto di se stessi e degli altri,
che significa adattarsi a nuove regole e rimanere a casa.
A gioire del calore e della vicinanza delle persone care,
perché per molti, ora, anche questo non è scontato.

Impareranno ad adattarsi a queste ore dilatate,
a confrontarsi con la noia,
che riempiranno delle loro riflessioni.

Sapranno che c’è chi è solo, davvero, e questa solitudine
si aggiunge a quella che ha da tempo nel cuore.
Sapranno di chi non ha una casa,
un posto in cui sentirsi al sicuro.

Impareranno a godere del silenzio di queste stanze,
che è solo quiete,
tanto lontano dal silenzio di angoscia
di una stanza d’ospedale.

Impareranno ad apprezzare quello che hanno,
ora che non ci sono nuovi giochi o vestiti
e cose nuove da comprare.

Impareranno ad accontentarsi di mangiare quello che c’è,
per non sprecare, perché bisogna uscire poco,
perché c’è chi neanche ha la forza di andare a fare la spesa
e non ha nessuno da chiamare.

Impareranno a farsi crescere dentro la forza
di dire “andrà tutto bene”,
quando tutto nel mondo sembra gridare il contrario.

Impareranno a farsi adulti,
ad accogliere una maturità
che non viene dallo svolgere bene le operazioni,
da come si scrive, come si legge, come si pronuncia o si riassume.

A studiare una lezione che dice che la vita, a volte, si blocca,
si rivolta su se stessa e non ha più nome.

Impareranno a capire che c’è un momento per fermarsi,
prendere il respiro, raccogliere le forze,
e soffiare sulla speranza, forte,
come sui denti di leone.

Felicia Lione

Ai miei figli e a tutti i bambini. Ai loro denti di leone.

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il tempo del coronavirus ci deve far riflettere, pensare, cambiare …

bellissima riflessione dello psicologo Morelli sulla vicenda ….virale

“Credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte.
Il momento che stiamo vivendo, pieno di anomalie e paradossi, fa pensare…
In una fase in cui il cambiamento climatico causato dai disastri ambientali è arrivato a livelli preoccupanti, la Cina in primis e tanti paesi a seguire, sono costretti al blocco; l’economia collassa, ma l’inquinamento scende in maniera considerevole. L’aria migliora; si usa la mascherina, ma si respira…
In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class.
In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, senza sabati nè domeniche, senza più rossi del calendario, da un momento all’altro, arriva lo stop.
Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro.
Sappiamo ancora cosa farcene?
In una fase in cui la crescita dei propri figli è, per forza di cose, delegata spesso a figure ed istituzioni altre, il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia.
In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel “non-spazio” del virtuale, del social network, dandoci l’illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto.
Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato?
In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunita, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro.
Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci.
Perchè col cosmo e le sue leggi, evidentemente, siamo in debito spinto.
Ce lo sta spiegando il virus, a caro prezzo.”

 

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il commento al vangelo della domenica

il Signore mette in tutti una sorgente di bene

 

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani (…). 

 

il commento di Ermes Ronchi al vangelo delle terza domenica di avvento (15 marzo 2020):

Gesù e una donna straniera, occhi negli occhi. Non una cattedra, non un pulpito, ma il muretto di un pozzo, per uno sguardo ad altezza di cuore.
Con le donne Gesù va diritto all’essenziale: «Vai a chiamare colui che ami». Conosce il loro linguaggio, quello dei sentimenti, della generosità, del desiderio, della ricerca di ragioni forti per vivere.
Hai avuto cinque mariti. Gesù non istruisce processi, non giudica e non assolve, va al centro. Non cerca nella donna indizi di colpa, cerca indizi di bene; e li mette in luce: hai detto bene, questo è vero.
Chissà, forse quella donna ha molto sofferto, forse abbandonata, umiliata cinque volte con l’atto del ripudio. Forse ha il cuore ferito. Forse indurito, forse malato. Ma lo sguardo di Gesù si posa non sugli errori della donna, ma sulla sete d’amare e di essere amata.
Non le chiede di mettersi in regola prima di affidarle l’acqua viva; non pretende di decidere per lei, al posto suo, il suo futuro. È il Messia di suprema delicatezza, di suprema umanità, il volto bellissimo di Dio.
Lui è maestro di nascite, spinge a ripartire! Non rimprovera, offre: se tu sapessi il dono di Dio. Fa intravedere e gustare un di più di bellezza, un di più di bontà, di vita, di primavera, di tenerezza: Ti darò un’acqua che diventa sorgente!
Gesù: lo ascolti e nascono fontane. In te. Per gli altri.
Come un’acqua che eccede la sete, che supera il tuo bisogno, che scorre verso altri. E se la nostra anfora, incrinata o spezzata, non sarà più in grado di contenere l’acqua, quei cocci che a noi paiono inutili, invece che buttarli via, Dio li dispone in modo diverso, crea un canale, attraverso il quale l’acqua sia libera di scorrere verso altre bocche, altre seti. «Dio può riprendere le minime cose di questo mondo senza romperle, meglio ancora, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» (Fabrice Hadjaji), attraverso cui l’acqua arrivi e scorra, il vino scenda e raggiunga i commensali, seduti alla tavola della mia vita.
Ed è così che attorno alla samaritana nasce la prima comunità di discepoli stranieri. «Venite, c’è al pozzo uno che ti dice tutto quello che c’è nel cuore, che fa nascere sorgenti». Che conosce il tutto dell’uomo e mette in ognuno una sorgente di bene, fontane di futuro. Senza rimorsi e rimpianti. Dove bagnarsi di luce.
In questi nostri giorni “senza” (senza celebrazioni, senza liturgie, senza incontri) sentiamo attuale la domanda della Samaritana: Dove andremo per adorare Dio? Sul monte o nel tempio? La risposta è diritta come un raggio di luce: non su un monte, non in un tempio, ma dentro. In spirito e verità.
Sono io il Monte, io il Tempio, dove vive Dio (M. Marcolini).
(Letture: Esodo 17,3-7; Salmo 94; Romani 5, 1-2. 5-8; Giovanni 4,5-42).

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il commento al vangelo della domenica

Dio semina la bellezza in ogni sua creatura

 

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio,  ‘amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (…).

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della seconda domenica di quaresima (8 marzo 2020):

La Quaresima ci sorprende: la subiamo come un tempo penitenziale, mortificante, e invece ci spiazza con questo vangelo vivificante, pieno di sole e di luce. Dal deserto di pietre (prima domenica) al monte della luce (seconda domenica); da polvere e cenere, ai volti vestiti di sole. Per dire a tutti noi: coraggio, il deserto non vincerà, ce la faremo, troveremo il bandolo della matassa. Gesù prese con sé tre discepoli e salì su di un alto monte. I monti sono come indici puntati verso il mistero e le profondità del cosmo, raccontano che la vita è ascensione, con dentro una fame di verticalità, come se fosse incalzata o aspirata da una forza di gravità celeste: e là si trasfigurò davanti a loro, il suo volto brillò come il sole e le vesti come la luce.
Tutto si illumina: le vesti di Gesù, le mani, il volto sono la trascrizione del cuore di Dio. I tre guardano, si emozionano, sono storditi: davanti a loro si è aperta la rivelazione stupenda di un Dio luminoso, bello, solare. Un Dio da godere, finalmente, un Dio da stupirsene. E che in ogni figlio ha seminato la sua grande bellezza.
Che bello qui, non andiamo via… lo stupore di Pietro nasce dalla sorpresa di chi ha potuto sbirciare per un attimo dentro il Regno e non lo dimenticherà più. Vorrei per me la fede di ripetere queste parole: è bello stare qui, su questa terra, su questo pianeta minuscolo e bellissimo; è bello starci in questo nostro tempo, che è unico e pieno di potenzialità. È bello essere creature: non è la tristezza, non è la delusione la nostra verità.
San Paolo nella seconda lettura consegna a Timoteo una frase straordinaria: Cristo è venuto ed ha fatto risplendere la vita. È venuto nella vita, la mia e del mondo, e non se n’è più andato. È venuto come luce nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta (Gv 1,5). In lui abitava la vita e la vita era la luce degli uomini (Gv 1,4), la vita era la prima Parola di Dio, bibbia scritta prima della bibbia scritta.
Allora perdonate «se non sono del tutto e sempre / innamorata del mondo, della vita / sedotta e vinta dalla rivelazione / d’esserci d’ogni cosa (….)/ Questo più d’ogni altra cosa perdonate / la mia disattenzione» (Mariangela Gualtieri). A tutte le meraviglie quotidiane.
La condizione definitiva non è monte, c’è un cammino da percorrere, talvolta un deserto, certamente una pianura alla quale ritornare. Dalla nube viene una voce che traccia la strada: «questi è il figlio mio, l’amato. Ascoltatelo”. I tre sono saliti per vedere e sono rimandati all’ascolto. La voce del Padre si spegne e diventa volto, il volto di Gesù, «che brillò come il sole». Ma una goccia della sua luce è nascosta nel cuore vivo di tutte le cose.
(Letture: Genesi 12, 1-4; Salmo 32; 2 Timoteo 1, 8-10; Matteo 17, 1-9)

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in morte di Ernesto Cardenal poetra e mistico

il poeta di Solentiname

“Siamo in un’universo così vuoto circondato ovunque dal mistero”

È morto in pace con la Chiesa grazie a Papa Francesco padre Ernesto Cardenal. I suoi canti e il suo Vangelo di Solentiname ci hanno dato lacrime di indignazione e di speranza.

 

di  Tonio Dell’Olio

È morto ieri in Nicaragua Ernesto Cardenal. Aveva 95 anni distillati nella lotta per la giustizia e per la bellezza. Metà dei suoi anni furono vissuti sotto il tallone degli anfibi della dittatura sanguinaria di Somoza e l’altra metà a dare il proprio contributo alla costruzione di una società liberata. Dopo l’incontro con Tomas Merton e i suoi insegnamenti, questo monaco irregolare si stabilì a Solentiname, un’isola del Gran Lago di Nicaragua, dove fondò una comunità di artisti, scrittori, poeti… che rileggessero il Vangelo nell’arte al servizio dei poveri (cfr. E. Cardenal, Il Vangelo a Solentiname, Cittadella Ed., 1976). Qualche tempo dopo, con quegli artisti abbandonò l’esperienza dell’isola per unirsi alla rivoluzione contro la tirannia. Nel primo governo democratico divenne ministro della cultura e, per questa ragione, fu sospeso dalle sue funzioni sacerdotali.

Tutti ricordiamo (o abbiamo visto) l’immagine di Giovanni Paolo II che lo redarguisce agitando il dito indice contro di lui che gli è inginocchiato davanti al suo arrivo all’aeroporto di Managua. Poi la riabilitazione lo scorso anno e la prima messa celebrata nella sua stanza. Abitava una stanza con un letto, un comodino e un’amaca. Un eremo. Non so dire se il mondo si sia accorto del suo passaggio, ma la terra sì, è stata concimata anche dalla sua poesia e dal suo amore per il vangelo dei poveri. In silenzio qualche albero è cresciuto anche grazie a quella linfa.

 

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